Foto di Federica Pergola
Foto di Federica Pergola

Tornare a Holt con “Vincoli” è un partire da Holt, in maniera definitiva: giungere all’origine da cui la Trilogia della Pianura è scaturita. Trovare un Kent Haruf più giovane e spavaldo, di quello che abbiamo letto e amato: siamo nel 1984 quando in America è pubblicato “The Tie That Binds” e dovremo aspettare il 1999 per “Plainsong”, e poi il 2004 per “Eventide”, e ancora il 2013 per “Benediction”. È ormai risaputo che nel 2000 “Canto della pianura”, nella traduzione di Fabrizio Ascari, fu pubblicato da Rizzoli, senza destare grandi aspettative nei lettori italiani, che poi si sarebbero scatenati nel 2015 quando NN editore, allora nascente casa editrice milanese, inaugurò con “Benedizione” il proprio catalogo, seguito a brevissimo da “Canto della pianura”, e poi da “Crepuscolo”, che in Italia chiude la Trilogia, che invece in America si era conclusa con “Benedizione”. I lettori italiani scoprono così un grande scrittore e lo amano di una passione profonda e incondizionata. Il merito straordinario di NN editore è quello di aver dato a Kent Haruf una voce italiana perfettamente intonata alla sua scrittura, compiendo lo stesso miracolo di sovrapposizione che nel cinema italiano hanno ottenuto i grandi doppiatori, come Ferruccio Amendola: Robert De Niro, Al Pacino, Dustin Hoffman all’orecchio italiano sono imprescindibili dalla sua voce calda e corposa. fabioNNEFabio Cremonesi è riuscito a calarsi integralmente nella lingua e nel mondo di Kent Haruf, che non sono mai monocordi, e che diventano febbrili e spigolosi in “Le nostre anime di notte”, pubblicato in Italia nel 2017, e spavaldi e guizzanti in “Vincoli”.

Nel 1984 Kent Haruf non è ancora diventato il cinquantenne scrittore compassato ed essenziale di “Canto della Pianura”. È ancora un focoso quarantenne, che si inventa non tanto una cittadina immaginaria, che in “Vincoli” rimane sullo sfondo, nonostante Haruf dimostri già di percorrerla con passi spediti e certi, quanto una campagna arsa e desolata, che è l’emblema della fatica ostinata e della tragicità esistenziale che può nascondersi dietro il sogno americano.

Partiamo dalla fine in “Vincoli”: dal tragico epilogo della vita di Edith Goodnough che

non vive più in campagna. Ormai sta in città, in ospedale, in quel letto bianco, con un ago infilato nel dorso della mano e un uomo che la sorveglia in corridoio, fuori dalla sua stanza. Questa settimana compie ottant’anni: una donna linda, bella, con i capelli bianchi, che in vita sua non è mai arrivata a pesare cinquanta chili e da Capodanno pesa ancora meno di così. Eppure lo sceriffo e gli avvocati aspettano che stia meglio per metterla su una sedia a rotelle e portarla in tribunale, dall’altra parte della cittadina, per iniziare il processo.

Di cosa sia accusata, lo sceriffo Bud Sealy l’ha rivelato a un giovane cronista di Denver, che non contento delle rivelazione avute decide di presentarsi alla porta della fattoria di Sanders Roscoe, che, saputo il motivo della visita, lo manda via senza rispondere alle sue domande, in modo brusco e violento.

La vera storia può raccontarla solo lui, Sanders Roscoe, e ne ha piena consapevolezza, tanto da decidere di vuotare il sacco direttamente con il lettore, con un irruento stammi a sentire seguito da due punti che chiudono il primo capitolo e che sono la porta che si spalanca su una storia famigliare che attraversa buona parte del Novecento: dal 1896 in cui una coppia di sposi, Roy e Ada si trasferiscono dall’Iowa ai sabbiosi e incolti altipiani del Colorado, così diversi dalla fertile terra scura da cui provengono e probabilmente lontani dalle loro prospettive, fino alla fatidica data di venerdì 31 dicembre 1976 che è l’ultima data impressa in un trafiletto tra le foto di Edith e Lyman Goodnough apparso sulla prima pagina del giornale.

Dunque, quel pezzo di storia – parte di quanto il cronista di Denver aveva scoperto e parte di quanto il giornale aveva pubblicato – era vero. Ma non era tutta la storia: era a malapena la parte di una parte. Non raccontava il come, non accennava mai al perché. Neppure quando ripeteva le cose che Bud Sealy doveva aver detto sui polli e sul vecchio cane e su Lyman addormentato sul letto mentre Edith se ne stava sulla sedia a dondolo, neppure quella era la storia completa. Prima di tutto, tralasciava i moncherini di Roy. Poi non diceva una parola su quanto Lyman avesse aspettato, né sulle sue Pontiac e sulle cartoline e le banconote da venti dollari. E ancora, non diceva che pure Edith era rimasta ad aspettare, prima che uno morisse, poi che l’altro tornasse; e cosa aveva fatto con lui quando finalmente era tornato e come alla fine era riuscita a sopravvivere a tutti quegli anni di viaggi. E non citava mai mio padre.

Già in “Vincoli” Kent Haruf è grande scrittore di microstorie; ritrattista appassionato di piccole figure che nella strenua lotta per la sopravvivenza, nella ricerca vana della felicità, nella perdizione a cui si abbandonano risultano di vivida e scalpitante umanità. Ma a differenza della Trilogia, è ancora attento alla Storia, che fa capolino nel racconto nell’ottica soggettiva e acre di Roscoe, mentre invece nei romanzi della maturità sarà la grande assente, per avvolgere Holt in un dimensione atemporale e metastorica.

"Le nostre anime di notte" di Kent Haruf

Edith è l’antenata di Addie Moore di “Le nostre anime di notte” in una linea di continuità disegnata sulla caparbia tenacia al dovere famigliare, che le spinge entrambe a rinunciare alla propria felicità, o alla prospettiva di essa. Ed è nel commovente raffronto che il lettore può tracciare tra il primo e l’ultimo romanzo di Kent Haruf che prende spessore l’affezione che lo scrittore ha saputo creare, con grande consapevolezza, nei suoi lettori. Due romanzi totalmente diversi, ma collegati da un filo persistente di tematiche e valori, sentimenti e immaginari sentimentali, che aprono e chiudono la parabola narrativa ed esistenziale di Haruf, imprimendosi nel cuore come la Trilogia, e diventandone il controcanto e il corollario.

Edith rinuncia nel fiore della giovinezza a lasciare il padre, crudele autoritario e infermo, pur dovendosi spostare a pochi chilometri dalla fattoria, e attende con pazienza ostinata che supera anche quella di Penelope il ritorno del fratello, Lyman, che invece in uno sprazzo di egoistica lucidità ha deciso di arruolarsi, senza poi riuscirci, nella seconda guerra mondiale per poter rompere definitivamente le sbarre domestiche della propria prigione e liberarsi dal violento dispotismo del padre. Quando il fratello torna nel 1961, nove anni dopo la morte del padre, sembra che finalmente Edith, dopo tante volontarie e titaniche rinunce, possa godersi la libertà e scalfire la solitudine in cui la vita l’ha confinata. Ma la vita è ingiusta, e il destino capriccioso e crudele è sempre dietro l’angolo con i suoi dannati scherzi.

Certo che non è giusto. Niente in questa faccenda è giusto. La vita non lo è. E tutti i nostri pensieri su come dovrebbe essere non servono a un cavolo, a quanto pare. Tanto vale che tu lo sappia subito.

Romanzo di intensità straordinaria, in cui ad emergere non sono solo i personaggi, Edith e Lyman, John e Sanders Roscoe, Mavis e Rena Pickett, ma anche le relazioni che si intrecciano e infittiscono, in una ragnatela fitta e inestricabile che unisce i destini delle due famiglie, Goodnough e Roscoe, di padre in figlio. Quasi come se la rinuncia di Edith a far parte della famiglia Roscoe, avesse sancito inversamente il loro diventare una sola famiglia come riscatto e ricompensa di quella rinuncia. A stringere quel vincolo di amicizia, solidarietà e amore, che travalica le situazioni e le decisioni, una bambina, Rena Pickett, che prepotentemente gioca un ruolo importante nel legare tra loro persone che non hanno vincoli di sangue. Il ruolo dei bambini nel tracciare legami e vincoli si mostra, dunque, sin dal primo romanzo per diventare costante nelle storie di Haruf.

A puntellare le esistenze che vibrano tra le pagine, gli oggetti che Kent Haruf riesce a rendere correlativi oggettivi della condizione emotiva di chi li possiede: il filo di ferro come crudele deus ex machina perché la cattiveria di Roy Goodnough trovi piena espressione e amara giustificazione; il pezzo di dito ritrovato tra le stoppie da Edith e il mignolo superstite tagliato per ripicca da Roy che sono il pegno di un ricatto che solo la morte può annullare; le cartoline di Lyman alla sorella da varie città americane, a sancire la solitudine e la speranza che sostanzia l’attesa; la Pontiac fiammante di Lyman come emblema della vanità di ogni orizzonte di felicità, che deraglia sempre e tragicamente; il trattore che rappresenta l’ingrata determinazione di Roy a credere che il lavoro, la fatica, il raccolto siano gli unici modi di dar senso alla vita; il furgone con cui Clevis Stouffer abbandona la fattoria di Roscoe in un gesto coraggioso che forse gli regala una vita migliore. E ancora altri, tanti, che hanno la stessa consistenza delle figure umane e che lascio al lettore mappare, seguendo i propri percorsi emotivi e sentimentali. Perché anche in “Vincoli”, Haruf parla il linguaggio universale dei sentimenti semplici che rendono complicata la vita, che va disinnescata attraverso una scrittura che è palpitante di ironia e ricca di scatti e di pause.

Con “Vincoli” è una lotta impari, come quella dei personaggi con il destino: da una parte la narrazione ti avvince e incatenata e non riesci a staccare, perché ti senti partecipe degli eventi e delle conseguenze che di volta in volta sembrano scompaginare l’equilibrio raggiunto; dall’altra hai bisogno di riprendere fiato, perché Haruf richiede al lettore un’ immedesimazione costante e totalizzante. Così si soffre atrocemente quando Roy si maciulla le dita nella trebbiatrice, o quando con i moncherini feriti a sangue cerca di sciogliere la cintura che lo tiene saldamente legato al trattore; oppure si sente il fresco e il sapore della prima birra bevuta da Sanders insieme al padre nel 1943, durante la lunga confessione che lo rende testimone e custode di un amore intramontabile; e ancora lo sguardo si riempie di soddisfazione nel contare i biglietti da 20 dollari gelosamente conservati in una scatola da Edith come viatico e promessa di tempi migliori; e se non si prova dispiacere, di sicuro c’è il rispetto per la morte, che deve essere concesso anche al peggior nemico come insegnano i poemi omerici, quando Edith copre con un lenzuolo la faccia del padre morto, per nascondere la bocca spalancata con cui ha liberato il mondo dalla sua terribile presenza. In ogni romanzo, sin dal primo, la deliberata malvagità umana fa da controcanto ineludibile alla gentilezza dei personaggi principali. Se Roy muore, gli altri “cattivi” di Haruf si disperdono per il mondo, senza poterne né desiderare di seguire le tracce. Una chiara dichiarazione di poetica da parte di Kent Haruf.

L’agricoltura è certamente una delle protagoniste del romanzo, in  cui rintracciare la grammatica con cui decodificare valori, reazioni e comportamenti ma anche simboli e significati universali. La campagna del Colorado, con la secchezza l’assenza di vegetazione l’aridità del suolo il caldo asfissiante la durezza del paesaggio, diventa emblema della condizione umana. Non potevano che vivere lì personaggi coriacei come i Roscoe e i Goodnough che non si piegano dinnanzi a nulla, e ostinatamente continuano a rialzarsi, scrollarsi la sabbia di dosso e vivere una nuova giornata, fino a quando sarà loro possibile. Questa la magia di tornare a Holt dall’inizio.

In seguito ognuno di noi rientrò nel suo solco. E qualche volta, ripensando a questa storia, mi pare che non ci sia altro che questo: una serie di solchi indipendenti. Alcuni sono durati per quattro o cinque anni, altri per venti, ma erano comunque solchi, come quelli scavati da una mandria di mucche sfinite che occasionalmente si fermano ad abbeverarsi e a riposare un po’, e magari a dare una bella leccata a un blocco di sale, quegli stessi solchi che poi le riportano in mezzo alla sabbia della contea di Holt.

Vincoli
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