Chiacchierando (di nuovo) con Alessandra Sarchi

La scrittura di Alessandra Sarchi non concede mai risposte, tantomeno scontate, ma è sempre capace di suscitare interrogativi, di chiamare in causa il lettore e la lettrice, di renderli partecipi delle scelte e contraddizioni dei personaggi. Sarà per la natura della scrittura costantemente in dialogo che i libri di Alessandra Sarchi mi coinvolgono sempre profondamente.

Il ritorno è lontano, il nuovo romanzo per Bompiani, ancora di più, per una serie di somiglianze con particolari della mia vita attuale, prima fra tutte una figlia andata via di casa per proseguire gli studi come avviene nel romanzo.

Nina è andata a studiare in Germania, e Sara e Paolo si sono ritrovati da soli nella loro casa. Pur essendo una coppia solidale e affiatata, il loro modo di reagire a questa assenza e alle vicissitudini della vita, come la malattia di Sara, è completamente divergente. Ancora una volta Alessandra Sarchi inserisce un punteruolo affilato nelle relazioni familiari e lo usa come una leva per estrapolare idiosincrasie e bisogni, mai semplici e sempre ricchi di implicazioni.

Prima di addentrarci nella complessità di un romanzo che porta a galla tante questioni e problemi del nostro tempo, mi soffermerei sul titolo: Il ritorno è lontano, che dall’esergo scopro derivare da Canzone per una bambina di Franco Fortini.

A chi è riferito? Cosa adombra e cosa vuole suggerire a chi si appresta ad attraversare le pagine del romanzo? e a chi ritorna a lettura ultimata alla bellissima immagine di copertina, che ha bisogno di essere messa a fuoco per carpirne il senso di capovolgimento che indica?

RISPOSTA: Il testo poetico di Franco Fortini da cui ho prelevato il titolo del mio libro Il ritorno è lontano parla dello smarrimento nel bosco e di un ora d’oro pomeridiana in cui ci si può addormentare sotto un albero, nell’incanto del sonno dice il poeta, per poi svegliarsi quando è buio e recuperare la via di casa non è così semplice. Sappiamo che i boschi, ancora prima della comparsa della selva dantesca, basti pensare al culto di Dioniso che avveniva nelle selve, sono luoghi in cui ci si perde per poi ritrovarsi cambiati, possibilmente cresciuti. Moltissime fiabe prevedono l’attraversamento più o meno pauroso di un bosco. Nel mio romanzo ho voluto restituire tanto la realtà materiale, ossia l’andare in un bosco vero e proprio e misurarsi con i possibili pericoli, con l’allerta, ma anche la ricchezza di vita che i luoghi non antropizzati ispirano, quanto il valore simbolico che si attribuisce a questa immersione. Il bosco ci cambia perché ci mette in contatto con le parti di noi meno prevedibili e ci obbliga a fare i conti con la nostra appartenenza di specie alla vita del pianeta. Viviamo sempre più lontani da questa dimensione di contatto con la radice biologica dell’esistere e siamo portati a considerare la natura – vegetale, animale, fossile – o come mera risorsa da sfruttare o come idillio. Entrambe le visioni sono falsanti. Fare i conti con il nostro essere parte della natura significa abbandonare una visione antropocentrica, riconoscerci parte di una catena dell’essere in cui ogni elemento è collegato e l’uomo non sta in cima a una gerarchia da cui può dominare e razziare il resto. Si tratta di una rivoluzione necessaria davanti alla crisi climatica che sta spazzando via il mondo per come lo avevamo conosciuto. Quindi il ritorno è lontano sia rispetto a una condizione di armonia, sia rispetto a quello che siamo abituati a chiamare casa. Possiamo chiamare casa il luogo artificiale, che inquina, consuma energia e risorse che si stanno esaurendo, lo spazio urbano in cui la maggior parte dell’umanità vive, o dovremmo ripensarlo? Infine per chiunque si ponga sul serio queste domande il ritorno è lontano, poiché non abbiamo più certezze su cui possa appoggiarsi e perché mettersi in discussione implica una faticosa discesa dentro di sé.

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Chiacchierando di nuovo con Giulia Corsalini

La condizione della memoria recita il titolo del nuovo romanzo di Giulia Corsalini, docente e critica letteraria, che ha esordito nel 2018 con La lettrice di Cechov, felicissimo romanzo, amato dal pubblico e dalla critica, come è provato dai numerosi premi vinti, al quale è seguito Kolja. Una storia familiare, entrambi per Nottetempo. Questo nuovo romanzo è pubblicato da Guanda.

[QUI il link alla chiacchierata sui precedenti romanzi]

Ancora una volta Giulia Corsalini ci conduce nello spazio intimo e introspettivo delle relazioni famigliari. In questo caso la relazione tra una madre, ormai vecchia e malata come si scopre lentamente nella lunga villeggiatura che trascorre nella casa delle vecchie zie in uno sperduto e remoto paesino della Ciociaria in cui da bambina è stata accolta dopo la morte della madre, e una figlia, voce narrante della storia e memoria famigliare che via via si va tessendo e articolando nello spazio e nel tempo condiviso con la madre.

È la storia di un ritorno, ancestrale mito della letteratura, che si trasforma da nostalgia per ciò che è stato, che va dipanato e ricucito, a emmenalgia, malinconico struggimento per ciò che non potrà più essere.

Le due donne, madre e figlia, entrambe mature e pienamente realizzate, si trasformano a contatto con la casa e il paese, che contengono la condizione della loro memoria e anche un nuovo senso della loro relazione.

La condizione della memoria è inscindibile dai luoghi che abitiamo? oppure di cosa si sostanzia?

ph. Mike Pallazzotto

RISPOSTA: La condizione della memoria, che si verifica nel mio romanzo nel momento in cui le due donne scelgono di andare a trascorrere un periodo di villeggiatura nel paese in cui la più anziana, la madre, è vissuta da bambina, si crea non tanto e non solo perché a quei luoghi sono legati dei ricordi, quanto perché le vie disabitate, i palazzi derelitti, le casupole in rovina diventano emblema di ciò che finisce e riflessi della stessa vita che sta sfuggendo alle due protagoniste, l’una molto avanti con l’età e malata, l’altra non più giovane. È in questa duplice funzione di serbatoio di immagini passate e di simbolo che il piccolo paese della Ciociaria asseconda il processo memoriale. La condizione della memoria è dunque nello spazio e nel tempo e insieme nel simbolo e nel mito.

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Nello Studio di Lia Iovenitti, traduttrice di “L’ora di greco” di Han Kang

Ormai è risaputo che nello studio delle traduttrici e dei traduttori mi sento particolarmente felice. In particolare lo sono stata nello studio di Lia Iovenitti perché si sommavano insieme tante cose: una scrittrice coreana di fama internazionale, Han Kang; una lingua sconosciuta e distante come il coreano; un libro che fa della lingua uno scavo introspettivo, usando tra l’altro una lingua della mia formazione e crescita come il greco antico, L’ora di greco per Adelphi.

Accomodatevi anche voi: andiamo lontano!

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Dare la vita di Michela Murgia

Ho una triade sul mio cammino che è sempre stata capace di fare connessioni che per me trasformative. La mia ammirazione per loro risiede non tanto nelle idee e visioni inedite che possono presentare nei loro discorsi, quanto nella capacità di collegare tra loro fenomeni e in queste inattese connessioni cogliere questioni, domande, immaginari.

Sono Michela Murgia, Chimamanda ‘Ngozi Adichie e Nona Fernandez.

Ascoltandole e leggendole mi sono sempre trasformata. Ho sempre dovuto ripensare me stessa e in un certo senso riscrivermi. L’ho capito incisivamente quando mi specchio nell’immagine che hanno di me persone care che non frequento abitualmente per le circostanze della vita. Nello sguardo stranito e spiazzante che su certi temi e argomenti ho notato che mi riservano, vi ho sempre scorto il potere trasformativo, derivato dal privilegio di essere contemporanea a queste tre donne e loro lettrice appassionata.

Michela Murgia di più perché al privilegio di condividere gli stessi tempi si somma anche la lingua, il contesto storico, culturale e geografico. Per quanto lei potesse sentirsi di una lingua madre diversa dalla mia, era nella mia lingua madre che scriveva.

Ho aspettato con impazienza lancinante Dare la vita, il libro postumo di Michela Murgia per Rizzoli, trovando struggente l’ossimoro tra il titolo e la fatalità di essere un libro postumo.

Dare la vita è un libro urgente, ed è l’urgenza che lo rende prezioso.

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Chiacchierando con Andrea Piva

Da dove si può cominciare a chiacchierare con Andrea Piva del nuovo romanzo in libreria per Bompiani, La ragazza eterna?

Intrecciati con compostezza e ardimento nelle pagine si toccano temi importanti e scivolosi, con una vivacità di scrittura, soprattutto nei dialoghi, che rende fortemente autentica la vita che scorre nelle pagine.

Ma forse, Andrea, non si può che partire da lei, La ragazza eterna: Renata. Malata allo stadio terminale arriva come l’uragano che è a casa di Boccia, lo psichiatra che per anni le ha fatto da amante e quasi fidanzato, dopo averlo ufficialmente lasciato con la partecipazione di nozze. Non le loro, le sue.

Qual è l’eternità di Renata? o è sul termine ragazza che dovremmo soffermarci?

RISPOSTA: Ti dirò, è una domanda che trovo molto difficile, anche perché per rispondere esaustivamente dovrei forse dire troppo del cuore di questo libro. Il lettore lo scoprirà leggendo, e spero proprio che come è successo a me a un certo punto si dirà: “Ah, ma è vero, non poteva che chiamarsi così”, benché nel libro lo si spieghi un po’ laconicamente. Ma è davvero l’unico titolo possibile per questo romanzo, secondo me. Lo si vede anche dalla sua genesi. In genere trovo complicato arrivare al titolo giusto per i miei libri, e in un caso mi ci sono tormentato per mesi, mentre stavolta ho saputo che sarebbe stato quello già durante la stesura delle prime pagine. Mi è venuto in mente subito, senza troppi ragionamenti, come una rivelazione, e a pensarci adesso mi pare un fatto quasi magico, perché nel libro, come ti dicevo, si parla pure del motivo di questa scelta, ma molto avanti nello sviluppo della trama, e proprio come commento a quello che sta succedendo: insomma non potevo davvero prevederlo razionalmente dalle prime pagine, dato che quando ho iniziato a scrivere avevo solo una vaghissima idea della trama che avrei costruito attorno all’idea di partenza. Ma sospetto che questo magico si possa anche dire inconscio, il quale, si sa, è un bambino difficile che spesso ne sa molto più di noi.

Tutto quello che so del mondo del poker lo devo a te con il precedente romanzo, L’animale notturno, per Giunti. Non è strano perché nonostante sia un libro molto romanzesco e romanzato, come si legge nella bandella del nuovo romanzo, tu hai un passato da giocatore di poker professionista di livello internazionale. Quali rapporti hai invece con la psichiatria? Perché il lavoro di Boccia, che narra in prima persona la storia di Renata e di tutte le storie che si intrecciano con lei, è un perno fondamentale di quello che racconti.

RISPOSTA: I miei rapporti con la psichiatria sono indiretti. Difficilmente scrivo di cose di cui non ho fatto esperienza in prima persona, ma in questo caso ho avuto un rapporto talmente intimo e tanto prolungato nel tempo con un esperto della materia che alla fine mi sono convinto a superare le mie naturali resistenze in questo senso. Ho un amico fraterno che è psichiatra e che mi racconta spesso, da tanti anni, del suo lavoro, quindi ho una certa familiarità con il suo ambiente, con i suoi problemi, con le sue battaglie e le sue frustrazioni. Ovviamente lui mi racconta del suo mondo nei limiti di quello che può dirmi, ma parliamo anche molto, e molto appassionatamente, di quello che succede in ambito di ricerca nella sua professione, perché il tema del disagio mentale mi interessa tantissimo, essendo secondo me un tema davvero importante per la contemporaneità. Abbiamo sempre avuto problemi psichici, in tutte le epoche, ma credo che quella che viviamo ne presenti di nuovi e più violenti perché, anche per via delle nuove tecnologie, che sono un’enorme risorsa ma per certi versi pure una minaccia, ci stiamo alienando a un livello nuovo. Ci sentiamo sempre più estranei alla realtà che ci ha partorito, e sempre meno in contatto con la natura. I nostri corpi e le nostre menti si sono adattati evolutivamente a un mondo molto diverso da questo, e i nostri apparati psichici ne risentono, giocoforza. Abbiamo bisogno di trattare il problema con l’attenzione che merita.

Se sei d’accordo, approfondirei ulteriormente l’indagine nel mondo e nella ricerca psichiatria, perché il tuo sguardo da romanziere è davvero profondo, vasto e visionario. Boccia e il collega Giangi, dalla storia personale tormentata e complicata quasi come quella di Boccia, vorrebbero più che sperimentare, attuare su Renata le cure psichedeliche. Da veri scienziati si propongono di provarle in prima persona per poterne saggiare poteri e criticità.

Si può dire che la psichedelia sia la grande, forse anche inedita per la narrativa italiana, protagonista del romanzo? Era questa l’idea di partenza di cui parlavi?

RISPOSTA: Erano anni che provavo ad affrontare l’argomento psichedelici in qualche forma, anche cinematografica, ma in realtà l’idea di partenza di questo libro non era quella, bensì di provare a costruire un racconto che ruotasse attorno al tema del sacro e della morte così come concepiti nella contemporaneità. Gli psichedelici sono arrivati dopo, perché nel frattempo ho fatto un’esperienza davvero trasformativa con l’ayahuasca, un viaggio ai confini col mistico in cui mi sono confrontato molto da vicino con l’idea della mia transitorietà, e mi sono reso conto che essendo quel tipo di esperienze un mezzo per esplorare la morte e il sacro in modo davvero profondo la mia storia poteva e forse doveva passare da lì. Oggi questi sono considerati temi un po’ sorpassati, e io credo invece che senza un discorso attuale su questo non saremo mai una cultura matura. L’uomo è un animale con forti pulsioni spirituali, e noi viviamo in un disincanto che a mio avviso è pericoloso per la nostra stessa salute, mentale e materiale: guarda cosa stiamo facendo al pianeta, non lo rispettiamo perché tutto è diventato un oggetto di cui disporre liberamente e senza riguardo, animali compresi. Gli psichedelici ci tirano fuori dalla nostra campana di vetro e dalla nostra alienazione, ci fanno esperire il mondo e noi stessi in modo nuovo, pieno di empatia e compartecipazione. Da un “viaggio” riuscito usciamo sempre con la netta sensazione di non essere isole emerse dal nulla ma parte di un sistema che alla fine non è altro da noi. Io credo che di quest’idea abbiamo proprio materialmente bisogno. Abbiamo bisogno di renderci conto che noi non siamo una cosa nel mondo ma il mondo stesso.

Lascio ai lettori e alle lettrici di La ragazza eterna scoprire nei dettagli l’esperienza con l’ayahuasca che vivono Boccia e Giangi e che tu hai saputo descrivere con particolare vividezza e un’affabulazione trascinante e coinvolgente anche per chi legge.

Mi soffermerei invece sul tema del sacro, che tu affronti in maniera complessa e stratificata, legandolo non solo all’esperienza del “viaggio” psichedelico, ma anche al personaggio di Bibi, che affronta nel romanzo una fallimentare conversione per salvarsi dai suoi peccati, che constano, oltre all’accumulo di un’iperbolica ricchezza, nella truffa di centinaia di risparmiatori.

Ce lo presenti?

RISPOSTA: Bibi è un personaggio complesso, perché mi serviva a livello meccanico, per così dire, come antagonista dell’altro personaggio maschile principale, ma non volevo farne un cattivo a buon mercato, uno di quei personaggi monolitici da fumetto, senza sfaccettature. Quindi ho lavorato sulle sfumature, provando a tratteggiare un antagonista non proprio cattivo, anzi, uno che sì agisce come forza del male ma che in fondo è un buono, anche lui vittima di tutto un sistema di pensiero che ha perso di vista le cose davvero importanti nella vita sacrificandole sull’altare del profitto. In altre circostanze, diverse anche di poco, probabilmente sarebbe stato un bravo cristo come tanti. Conseguenza di questo è anche il suo rapporto con la spiritualità, che lui senza rendersene conto interpreta con i meccanismi del dare e avere, abituato com’è a mettere un prezzo a tutte le cose. La sua è una crisi di coscienza molto particolare, innescata dalle circostanze avverse e che a me ricorda quella di certi personaggi di Gide: un po’ la versione letteraria di un detto che mia madre ripete spesso: “Quann s’ fann co’ ‘o cul’ pesante, ‘a chiesa s’ rann”. Che sarebbe, pressappoco: quando diventano brutte/i, è allora che si dedicano al Signore. L’effetto finale è comico, ma sotto certi aspetti anche tragico.

In effetti in La ragazza eterna tu hai combinato magistralmente insieme il comico e il tragico, riuscendo non a fonderli ma a lasciare intatti e palpitanti gli effetti dell’uno e dell’altro. In questo equilibrio straordinario sei stato capace di tenere insieme tante cose: la vita, la malattia, il disagio psichico, la morte, la ricerca di sé, la perdita, l’elaborazione del lutto, il sacro, il capitalismo, l’amore, la cura, l’amicizia, la fratellanza, la provincia, il senso di colpa. E non è un elenco esaustivo. Nessuno di questi elementi è vissuto tra le pagine in bianco e nero, ma con una gradazione stupefacente (aggettivo non casuale) di sfumature e combinazioni che danno vita a colori inediti e cangianti.

Come vorresti che fosse letto il tuo romanzo, se mai questa sia o possa essere una preoccupazione dello scrittore? E se non lo è, qual è la preoccupazione, se c’è, riguardo il romanzo? Chiarisco in calce, che come lettrice sono molto attratta dalle letture che “preoccupano”, perché possiedono una forza scardinante che io credo sia uno dei più grandi poteri della Letteratura.

RISPOSTA: Su questa cosa che dici a proposito della forza scardinante della letteratura sono d’accordo sia come scrittore che come lettore. Diceva Elias Canetti che il romanzo è un cuneo che l’autore insinua nella personalità dei suoi lettori, generando una spaccatura permanente. Io voglio essere spaccato dai libri che leggo, e penso che in qualche misura la letteratura importante procuri sempre qualche ferita, anche quando fa finta di essere di puro intrattenimento, o quando viene fraintesa per tale. Per quanto riguarda la tua domanda, non sono sicuro di avere una risposta intelligente, o non banale, diciamo. Vorrei che mi si leggesse con attenzione, ma anche con un minimo di abbandono. Non è una scrittura in punta di penna, la mia. Ci ho messo il cuore e vorrei che i miei lettori fossero disposti a vederlo dov’è.

Lo Scaffale di Andrea: “L’albero del Ténéré”

di Andrea Cabassi

COME ABITARE IL VENTO

Recensione al libro di Alessandro Andrei

L’albero del Ténéré (Wojtek)

Ci sono storie che, spesso, convergono drammaticamente con la Storia. Ci sono storie che, altrettanto drammaticamente, convergono tra di loro pur provenendo da contesti molto diversi. Un contesto, ad esempio, può essere quello della più grande crisi finanziaria del terzo millennio che ha rischiato di spazzare via Stati, che ha spazzato via risparmi, famiglie, lavoratrici, lavoratori. Un altro contesto, diverso e distante, può essere quello del terrorismo, di quanto è rimasto delle Brigate Rosse, di Prima Linea e altri sigle, di quanto è rimasto della palingenesi che questi gruppi avevano promesso. Il dramma è quando due contesti come quelli citati prima vengono a convergere e a sovrapporsi vuoi per una certa casualità, vuoi per ragioni familiari che sono quelle più drammatiche e che sono quelle descritte nel bel libro di Alessandro Andrei “L’albero del Ténéré” (Wojtek edizioni 2024).

Alessandro Andrei, nato nel 1978, vive e lavora a Parma, laureato in Conservazione dei beni culturali. Il suo libro d’esordio è stato “Radio Ethiopia” (Les Flaneurs 2021) che ho recensito in questa stessa rubrica [QUI il link]; si trattava di un libro di avventure, dove l’avventura e il ritmo narrativo non andavano mai a discapito della penetrazione psicologica dei personaggi, dove il luogo in cui si svolgeva la vicenda era l’Africa.

In questa sua seconda opera narrativa Andrei dà prova di una ulteriore maturità e capacità di scrittura .

Prima di analizzare il testo due parole sulla trama.

Ernesto Furlan, detto Hervé, è un ex militante di Prima Linea e Antoine Donizzetti, suo nipote per parte materna, un broker che vive a Milano nei giorni appena precedenti la grande crisi finanziaria che si sarebbe abbattuta sul mondo intero e che non avrebbe avuto nulla da invidiare alla crisi economica del 1929. La vita di Antoine si incrocia ancora una volta con quella di Hervé. Riceve, infatti, una lettera da Marrakech in cui gli viene annunciata la morte dello zio e che lo zio gli ha lasciato una eredità. Di che eredità si tratti noi lettori non lo sappiamo e lo verremo a sapere solo verso la fine del libro. Antoine non vorrebbe partire per il Marocco e non vorrebbe avere più niente e che fare con la figura dello zio, ma le pesanti accuse che gli pendono addosso nell’ambiente finanziario milanese non gli lasciano molte possibilità di scelta. Decide di partire, ma è una partenza molto sofferta. Da qui un andirivieni spazio/temporale. su cui tornerò più avanti. Grazie a questo andirivieni narrativo apprenderemo la sua difficoltà a relazionarsi con le donne; apprenderemo del trauma subito quando abitava a Parigi; del suo rapporto ambivalente con lo zio e molto difficile con il padre; delle sue difficoltà in Marocco dove, spesso, sarà circondato da figure ambigue, indecifrabili. 

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Chiacchierando con Chiara Mercuri

A conoscere la personalità di Maria di Francia come risalta dalle pagine, di grande fascino e coinvolgimento, del saggio di Chiara Mercuri, La nascita del femminismo medievale, per Einaudi Storia, che nel sottotitolo recita Maria di Francia e la rivolta dell’amore cortese, mi sono chiesta strabiliata com’è possibile che insegno letteratura italiana nelle scuole superiori e non abbia mai compreso o intuito fino alla rivelazione di questo libro l’importanza del ruolo, del pensiero e dell’immaginario di questa donna eccezionale.

È la prima domanda che rivolgo alla storica, saggista e traduttrice Chiara Mercuri, docente di Esegesi delle fonti medievali all’Istituto Teologico di Assisi, Pontificia Università Lateranense: com’è possibile che nei manuali scolastici di letteratura non venga riconosciuta a Maria di Francia l’importanza dovuta, accanto ad Andrea Cappellano e Chrétien de Troyes? È una pecca solo dei manuali scolastici o è un’assenza più pervasiva e sistematica anche nei manuali e testi accademici?

RISPOSTA: Quando i Romantici riportarono in luce i testi del Medioevo – periodo storico che essi amarono più di ogni altro – immaginarono un’epoca popolata da bambini e da bambine. Un errore di prospettiva, che spesso si commette quando si guarda ad epoche diverse dalle nostre. I Romantici erano convinti che i Lais di Maria di Francia fossero favole, come quelle dei fratelli Grimm, che allora impazzavano in tutta Europa. Nell’antichità, però, la ‘favola’ aveva tutta un’altra funzione: serviva a nascondere ‘sotto bella menzogna’ una critica aspra della società, ed era infatti indirizzata ad un pubblico di adulti. Aver etichettato i Lais di Maria come favole ne sminuì il valore, ma non è stato solo questo a tenerla fuori dai manuali e dal podio che le spetta di diritto nella Storia e nella Letteratura. L’identità di Maria non è mai stata chiarita. Si è arrivati persino a negarle un’identità, facendone un nom de plume – e, udite bene! – lo pseudonimo di un uomo! La sua mancata identificazione ha impedito di capire che Maria non si limitò solo a comporre i Lais. Organizzò anche una squadra di lavoro attorno a sé, in modo da far scrivere, sui suoi temi, anche autori maschi, la cui voce aveva maggiore possibilità di passare. Dal patto stabilito tra Andrea Cappellano, Chrétien de Troyes e Maria nacque la più incredibile – attualissima – grammatica dell’eros: l’amore cortese.

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Chiacchierando con Filippo D’Angelo

Le città e i giorni di Filippo D’Angelo per Nottetempo tiene insieme due storie: quella di Maurizio e quella di Emanuele che si ricongiungono nel finale con un salto all’indietro nel tempo, lì dove cominciano a divergere le loro strade. Sono due fratelli differenti in tutto.

Maurizio è un architetto milanese, che tenta la fuga a Parigi ma che viene risucchiato dal padre, architetto come lui che cerca di imporgli la propria eredità, e dalla città meneghina, con la figlia e la moglie argentina, musicista mancata.

Emanuele cerca di tagliare i ponti con la famiglia e l’occidente, in un doppio viaggio in due nazioni africane, scappando in entrambi i casi per sfuggire alle proprie scelte e responsabilità.

Possiamo dire che Maurizio sta alle città come Emanuele sta ai giorni? o invece il titolo allude ad altro?

©gaiacambiaggi

RISPOSTA: Quando mi chiedi se Maurizio non stia alle città come Emanuele ai giorni, mi poni una domanda che mi fa molto riflettere, perché, scrivendo, non ci avevo pensato in questi termini, ma credo che in effetti sia così. Maurizio tende a privilegiare la dimensione dello spazio. Ovviamente per la sua professione di architetto, ma anche per sua inclinazione a spostarsi, a cambiare scenario: Parigi, Milano, New York, Tel Aviv, Genova, Buenos Aires… È invece incline a rimuovere, soprattutto sul piano personale, la dimensione del tempo. Che si tratti della sua relazione difficile con la moglie o del suo rapporto, ancora più complicato, col fratello, il passato resta per lui una cosa da cancellare. Il solo ambito in cui tenta di riallacciarsi al passato è proprio quello dello spazio, tramite il contributo che cerca di offrire a un progetto di riapertura dei Navigli. Emanuele, viceversa è ossessionato dal passato, sotto il segno del senso di colpa per due episodi vissuti, uno, nell’infanzia, l’altro all’età adulta. E sebbene abbia lasciato l’Occidente per vivere in un altrove radicale, nel romanzo la sua è una posizione molto statica, che interagisce poco con lo spazio. Vive nella dimensione un po’ carceraria delle sedi delle ONG e delle missioni. Il paradosso è che la vicenda di Maurizio è raccontata al passato e quella di Emanuele al presente… Il titolo può quindi, un po’ involontariamente, fare riferimento a questa dicotomia tra i due fratelli. Ma nelle mie intenzioni, più banali, si trattava di alludere al semplice fatto che le loro vicende hanno temporalità e spazi differenti.

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Chiacchierando di nuovo con Valeria Parrella

Io non vedo l’ora di mettermi a scrivere. Hai presente quando gli uomini si preparano ad andare a giocare a calcetto, e tutti gli impegni e le responsabilità lavorative scompaiono di fronte al divertimento di andare a giocare e poi bersi qualcosa insieme? Ecco, io mi sento come loro. Non vedo l’ora di mettermi a scrivere con quell’aspettativa là. Poi non è detto che mi diverta sempre sul campo di calcio, però il mio entusiasmo è quello. È una sensazione di libertà. Non so, in realtà, se la libertà sia divertente, di sicuro è leggera. Ma, come si fa a definire la libertà? La libertà è autodefinita.

Mi arriva chiara e cristallina la voce di Valeria Parrella nell’audio whatsapp con cui abbiamo condotto il confronto sul nuovo libro, una raccolta di racconti per Feltrinelli, intitolata Piccoli miracoli e altri tradimenti, arrivato in libreria il giorno prima del mio compleanno e che io ho ricevuto – non si accettano smentite – come un regalo della scrittrice. Il mio piacere nell’ascoltarla e riascoltarla è stato tale che per un po’ ho voluto tenere quegli audio come qualcosa di intimo e personale, e solo dopo giorni riesco a metterli per iscritto e condividerli sul blog, sperando che vi arrivino l’immediatezza e l’allegria con cui Valeria Parrella ha risposto alle mie sollecitazioni.

Già per Enciclopedia della donna. Aggiornamento, pubblicato da Einaudi nel 2017, avevo percepito, confermato dalla scrittrice, che alla base di quel racconto ci fosse puro divertimento per la scrittura. Cosa che accade anche in alcuni di questi nuovi racconti. Durante la lettura, infatti, sentivo in sottofondo squillante la bella risata di Valeria Parrella e il suo spirito gioioso nei particolari e nei dettagli che caratterizzano il suo modo di raccontare, di vedere e di sentire.

Io mi sono divertita moltissimo a scrivere questi racconti. – mi conferma in un audio che è pieno di vitalità, anche perché si sente nel sottofondo la vita che brulica. E la immagino in strada, nel traffico napoletano, con i motociclisti che sfrecciano, i passi frettolosi, lo sguardo in movimento – Non ho mai sentito dolore, responsabilità, pesantezza. Niente! Anche quando ho scritto Tempo nostro che è un racconto per me molto drammatico, perché non c’è soluzione, non c’è nessun riscatto se non forse uno spiraglio nella pietas della barista, anche in quel caso mi sono divertita perché si è innescata la passione di chi legge racconti e impara un genere, di riprodurre quel genere. Mi sono divertita a fare l’imitazione dei racconti. Ad esempio in quello di Didone c’è l’imitazione di Marguerite Yourcenar in Fuochi e di Christa Wolf. Passare è l’imitazione di Cheever. L’ultima spiaggia potrebbe essere un’imitazione borgesiana: Dio compare alla protagonista, una critica d’arte, nel momento in cui lei clicca la lettera D maiuscola e poi quando torna nel luogo non si ricorda cosa le è successo. Pensa al Miracolo segreto o l’Aleph di Borges.

Loro sono più tetri. Ma io sono donna, napoletana, è chiaro che sono più allegra.

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Chiacchierando con Federica Manzon

Il nuovo romanzo di Federica Manzon, Alma per Feltrinelli, ha una struttura complessa e stratificata: il presente della narrazione è affidato a tre giorni, dal venerdì alla domenica della Pasqua ortodossa, quando la protagonista, Alma, torna nella sua città natale, Trieste (mai nominata esplicitamente nel romanzo ma ben definita e riconoscibile nella determinazione di luoghi, piazze, simboli della città) per ritirare l’eredità che il padre ha lasciato lì per lei. Il ritorno sui luoghi natii è l’occasione per andare a ritroso nella memoria: il passato si biforca e si intreccia nella narrazione, da una parte quello più lontano della sua infanzia, durante gli ultimi anni e la morte del Presidente Tito, e dall’altra lo scoppio della guerra in Jugoslavia con la sua terribile carneficina.

Alma è una giornalista, trapiantata nella Capitale (anche Roma non viene mai indicata con il suo toponimo) ma la sua origine, con il melting pot che la contraddistingue, la rende sensibile a uno sguardo diverso sull’Est Europa, quando scoppia la guerra in Ucraina. È proprio questa ultima guerra, che il direttore del giornale romano per il quale lavora vorrebbe affidarle, a spingerla a fare i conti definitivi con quella precedente:

Domani si risveglierà nella capitale, andrà al lavoro e terrà un profilo bassissimo, quando il direttore le chiederà com’è andata là ad est, perché è sicura che lui aspetterà un’ora tarda per metterla alle strette, lei si morderà la lingua, non dirà una parola, non concederà nessuno spiraglio che lasci intendere qualcosa, tanto meno che ha fatto pace con il suo mondo ed è pronta a partire per raccontare questa nuova guerra, più interessante, più prestigiosa di quella vecchia che non interessava a nessuno e comunque era troppo complicata da capire. Lei non andrà in nessun est, non finirà in mezzo a nessuna guerra, e non darà confidenza.

Invece cosa ha spinto Federica Manzon a tornare a est e a raccontare con tale forza narrativa e introspettiva il fallimento del sogno jugoslavo e l’atroce guerra che l’ha sancito?

RISPOSTA: Trieste, e in modo più ampio quell’est che sta subito dopo il confine, sono per me un altrove che è al contempo un oggetto del desiderio, un richiamo dolce a partire, ad andare a vedere le storie di là, un orizzonte che è al contempo familiare e straniero. È una porta su infinite vite possibili sempre sul punto di accadere. E credo che proprio questa tensione tra attrazione e fuga, desiderio e paura, sia il fondo che anima la mia scrittura. E poi Trieste rappresenta per me un punto privilegiato da cui guardare alle questioni più urgenti del nostro vivere contemporaneo, sia nella dimensione individuale (penso alla nevrastenia mai placata di una città che vive tra continue tensioni e contraddizioni, illusioni perdute e slanci), sia in quella collettiva della Storia più grande che spesso dalla città è stata vista e vissuta in una dimensione più europea rispetto al resto d’Italia. Basti pensare alla vicinanza e intimità con il mondo jugoslavo, con quel miracoloso sogno di fratellanza e unità dei popoli durato il tempo del governo di un solo uomo, un sogno che a vederlo da vicino è stato pieno di speranza e di ombre. Così come Tito, un personaggio leggendario che univa in sé il carisma del vincitore di guerra e un certo azzardo indisciplinato, una ribalderia politica che lo teneva in equilibrio tra i due potentissimi schieramenti del mondo, senza costringerlo ad appartenere né all’uno né all’altro. Credo che guardare a quelli che sono stati gli ultimi anni di Tito al potere, allo sgretolarsi (inevitabile?) del sogno jugoslavo, alla crescita dei sentimenti nazionalisti e identitari che hanno portato a una guerra che l’Europa ha creduto di poter giocare a proprio piacimento, salvo poi lasciare che accadesse il finimondo senza sentirsi implicata, ecco credo che guardare a quello che è accaduto nel cuore del nostro mondo ci aiuti a capire meglio qualcosa dell’allarmante presente in cui siamo immersi.

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