Cominciamo subito con il cuore ancora in tumulto. Voglio lasciarla nella sua nudità e con il cuore, i nervi, i muscoli allo scoperto, questa chiacchierata con Antonella Lattanzi per il nuovo libro da poco pubblicato da Einaudi: Cose che non si raccontano.

Voglio solo specificarti un elemento che mi pare importante. Io non ho vissuto quello che racconti nel libro. Ho un’esperienza sulla maternità completamente diversa. Il tuo libro mi ha scorticata perché è letteratura e la letteratura fa proprio questo, quando è autentica. Per me l’autenticità non implica la realtà dei fatti, la verità delle cose raccontate. È qualcosa di più ancestrale e recondito. È l’umanità che si incarna in una pagina scritta. Ecco quello che ho trovato nelle tue pagine, e che mi ha letteralmente sconvolta: l’umanità del racconto, ma non riesco a spiegarti fino in fondo il senso di umanità come mi vibra dentro. Ma sei tu la scrittrice, quindi lascio a te scrivere le parole esatte al posto mio.

Cose che non si raccontano: il titolo del nuovo libro di Antonella Lattanzi, – perché sempre di più nella mia esperienza di lettrice, le pagine che mi scuotono e mi sconvolgono, difficilmente rientrano in una definizione chiara e lampante di “romanzo” – rende bene la prismaticità e complessità dell’operazione letteraria che hai compiuto tra le pagine. La radicalità della trasformazione rispetto alla modalità della tua scrittura. Una metamorfosi anche del senso e del significato di cosa sia la letteratura, oltre che di come si faccia. È scritto con il sangue questo libro: sangue a gocce, a grumi, a fiotti, a secchiate.

E come tu sia riuscita a rendere il sangue, il tuo proprio sangue, pura letteratura mi ha ustionata e annichilita, riportandomi all’essenza esatta di chi siamo, di cosa siamo fatti, ma anche di cosa ci distrugge. La corporeità è stata un punto focale della tua narrazione, ma qui diviene essenza ontologica e universale.

E tu dimostri di averne piena consapevolezza, dal punto di vista letterario intendo.

Racconto il passato, è vero, ma lo racconto oggi. Adesso, quei litigi non sono il punto. E non perché io non lo abbia perdonato, o perché mi sembrino litigi stupidi, o perché io mi senta la santa vittima e lui il carnefice. La realtà è molto più umbratile. È che c’è un fuoco, sempre, in quello che racconti. Quando è inventato, e quando è vero. Un fuoco come la messa a fuoco di una macchina da presa, un fuoco come la messa a fuoco, perfino, dell’iPhone. Non puoi fotografare tutto. Decidi il tuo fuoco e puntalo. Il mio fuoco sono loro tre.

Quali sono, Antonella, le Cose che non si raccontano? e perché si sceglie di raccontarle?

RISPOSTA: Ti ringrazio tanto delle tue parole. Ti ringrazio per come hai letto questo romanzo, per come stai continuando a leggerlo con le tue domande.

Le cose che non si raccontano, per me, sono le cose di cui mi è sempre interessato scrivere. Cose che sono qualcosa ma significano anche qualcos’altro. Nel mio primo romanzo, Devozione, raccontavo di due giovani tossicodipendenti da eroina che cercavano di vivere. Come potevano. Se, potevano. Raccontavo di due giovani eroinomani e di tutto il mondo che gravita intorno all’eroina perché l’eroina c’era e c’è ancora, ma nessuno voleva vederla. Nessuno voleva parlarne. Raccontavo di dipendenza da eroina ma più scrivevo più mi rendevo conto che ogni sentimento umano è universale. La dipendenza è qualcosa che ha a che fare con tutti, e attraverso una specifica sostanza volevo raccontare tutte le “sostanze” da cui possiamo essere dipendenti; che siano sentimenti, persone, stupefacenti, azioni, memoria.

Ho deciso di chiamare il mio nuovo romanzo Cose che non si raccontano perché, mentre vivevo questa esperienza, mentre avevo paura di decidere di avere un figlio perché avevo terrore di perdere il mio lavoro, mentre poi mi decidevo e non veniva mai, mentre poi capivo che non sarebbe mai venuto naturalmente e prendevo la decisione di affidarmi al percorso difficilissimo della procreazione assistita, mentre poi rimanevo incinta con la procreazione e lì iniziava il mio viaggio pazzesco, bellissimo e purtroppo tremendo, mi rendevo conto che ero completamente sola. Che nessuno mi aveva raccontato niente di quello che stavo vivendo e avrei vissuto. Che nessuno parla mai davvero di queste cose. Io stessa, non avevo raccontato niente a nessuno; neanche alle persone più care che ho. Perché?

Io stessa le parole esatte che riguardano ciò che mi è successo non riesco ancora a dirle a voce. Non riesco quasi neanche a scriverle.

Aborto, maternità, paura della maternità, cosa succede a un rapporto di coppia quando un figlio non arriva, ma anche lo scontro – ancora oggi – tra essere una donna che desidera (la vita, il lavoro, l’ambizione, i sogni) e una madre. Sono tutte cose di cui non si parla, o si parla troppo poco. Ho deciso che dovevo raccontare.

Il desiderio. Cose che non si raccontano è anche un libro sul desiderio. E persino sulla mancanza di desiderio, quando le cure e le terapie trasformano il corpo in una macchina. Il desiderio di diventare scrittrice, impellente appassionato continuo e divorante. Il desiderio di essere madre, ricercato sconfinato traumatico e assoluto. Il desiderio di sé stessi, di capire profondamente, attraversando il dolore, chi siamo.

Forse è proprio il desiderio, in quella forma che tutti conosciamo che finisce per divorarci tanto è lancinante e radicato, ciò che fa di Cose che non si raccontano un romanzo, cioè pagine che parlano a ogni tipo di lettore e lettrice, al di là delle esperienze specifiche che hanno lasciato cicatrici sul corpo di ciascuno?

Con questa mia domanda, mi piacerebbe (perché a volte la lettrice che sono e che viene sollecitata dalla potenza di pagine come le tue si assume anche questo compito, molto raro perché appartiene solo a letture cromosomiche, che fanno parte del mio essere più profondo) rispondere alla Toni di Cose che non si raccontano quando scrive:

E se stai parlando solo a te?, mi chiedo. Un libro per essere un libro non può parlare solo a te. Deve essere di tutti. Come faccio a sapere se sto parlando solo a me?

Un libro è una cosa seria. Non puoi scriverlo per sfogarti. Non puoi scriverlo perché serve a te.

E quello che è successo me lo sono meritata pure perché, mentre cerco il coraggio di scrivere tutto questo, io penso: sarà un libro? Sarà un bel libro?

Me lo sono meritata perché, anche ora, invece di pensare solo a quello che è successo, io sto pensando alla scrittura.

RISPOSTA: Ogni volta che leggo una tua domanda – che più che una domanda è anche una riflessione, un ingresso nel romanzo, una presa di responsabilità, un punto di vista – mi si aprono dentro mille pensieri, mille interrogativi.

Sì, Cose che non si raccontano è anche un romanzo sul desiderio. Penso che sia un romanzo sul desiderio forse prima di qualsiasi altra cosa. Come dicevi tu, il desiderio ancora oggi così difficile di conciliare, per una donna, ambizione e maternità, per esempio. Il desiderio di aprirsi agli altri con le proprie fragilità, i propri egoismi, i propri lati oscuri, anche. E soprattutto le proprie domande.

Il desiderio di raccontare le cose che non si raccontano. Poiché ho una fiducia, una fede nella parola scritta forse più che in ogni altra cosa, quando ho attraversato questa storia così tragica, ho pensato che l’unica cosa che potessi fare era provare a trasformarla, da esperienza vissuta, in scrittura. Ho pensato che solo così potesse smettere di essere una storia solo mia e provare a diventare una storia di tutti.

Quando leggo, io smetto di sentirmi sola. Non quando leggo romanzi rassicuranti, non quando leggo, per forza, romanzi che in qualche modo richiamano o ricalcano la mia esperienza. Mi accade con romanzi molto lontani da me. Madame Bovary di Flaubert, per esempio; il romanzo sul desiderio per eccellenza. Ogni volta che lo rileggo, anche se è un romanzo scritto da un uomo, anche se è un romanzo di metà 800, anche se parla di una donna così diversa da me, un romanzo così tragico su una donna così diversa da me, io mi sento raccontata. Io guardo dentro quel romanzo e penso: ecco chi sono io. Non per i fatti che succedono, ma per i sentimenti che vengono raccontati. Non per i personaggi, ma per le parole. Le parole di Madame Bovary splendono. Le vedo proprio splendere sulla pagina.

Chiaramente non posso e non voglio fare alcun paragone tra la mia scrittura e quella di Flaubert, però alla base, secondo me, di ogni sforzo letterario, c’è la speranza che un giorno qualcuno possa leggere e riconoscere sé stesso.

Che qualcuno possa dire: ecco, finalmente so chi sono.

Quindi sì, come dicevi tu, ho pensato questo libro non solo e non tanto per chi ha vissuto una storia come la mia (anche se, da quando è uscito, sono travolta da storie di lettori che mi raccontano la propria esperienza, ed è una bellissima presa di responsabilità quella che sto vivendo adesso), ma per chi soffre o ha sofferto, ama o ha amato, è stato felice o è felice. Perché troppo spesso siamo così soli. 

E i libri possono prenderti la mano.

Due sono i sentimenti che creano i binari su cui scorre la storia di Antonella (non uso questo nome a caso, perché Toni, il nome con cui ti chiama chi ti ama a tratti non vuoi usarlo come se non lo meritassi).

Da una parte il senso di colpa, connesso al tragico (inteso proprio nel sentimento del tragico che sostanzia la tragedia classica: la hubrys che si accanisce contro chi come Antigone, come Medea, come Cassandra, come Polinice, come Edipo deviano dalla norma, dalla consuetudine, dal volere dei padri) “me lo sono meritato”.

Dall’altra la solitudine, e anche questo è un sentimento, se così si può definire, ineludibile ineluttabile ontologico, che investe soprattutto la figura di Andrea, il tuo compagno.

Andrea non è insensibile come può sembrare da quello che sto scrivendo. Andrea non si commuove, non si esalta, ma mi compra un fiore. O cucina qualcosa che mi piace molto. O c’è, magari senza parlare, ma c’è, in tutti i miei sbalzi d’umore, in tutti i miei viaggi dell’orrore. Non in tutti. In alcuni. Tanti, ormai, non glieli racconto neanche più. A volte che lui ci sia non serve a niente. A volte serve.

Andrea c’è quanto crede e quanto può, a modo suo, ma in questi mesi non c’è mai. Questa battaglia però è anche sua, e la sta combattendo come può. Io di questa sua battaglia non so nulla.

Schianto. In questo tuo libro la contraddizione logica diventa ontologica, postura esistenziale, autenticità bruciante. E infine assoluzione. Per tutti noi che nelle contraddizioni del destino siamo immersi. 

Il senso di colpa e la solitudine sono comunque due linee di indagine che hanno sempre attraversato la tua poetica e la tua indagine narrativa.

O mi sbaglio?

RISPOSTA: Chiamami Toni, è il solo nome a cui sento di appartenere e sono contenta se mi chiami col mio nome.

Scusami se ci ho messo un po’ a risponderti, ma questi dell’uscita del romanzo sono giorni concitati.

Mi sta capitando una cosa che non mi era mai successa coi romanzi precedenti: le persone mi scrivono, sui social, via mail, o mi chiamano, e mi raccontano le loro storie. Mi raccontano le cose che di solito non si raccontano, le cose che non hanno mai raccontato a nessuno, per le quali si sono sentiti soli. Non sono solo storie di maternità, non sono solo donne: sono donne e uomini che mi raccontano le loro storie, e anche il loro dolore.

È una responsabilità grandissima. È anche un onore grandissimo. Ed essere travolta da tutte queste persone che finalmente parlano, da un lato mi spezza ogni volta il cuore, dall’altro mi dà anche gioia. Che finalmente possiamo parlare. Che finalmente ci possiamo raccontare. 

Arrivando alla tua domanda, sì, il senso di colpa e la solitudine sono due file rouge che attraversano tutti i miei romanzi. Hai ragione, non ci avevo mai pensato. Raccontiamo sempre chi siamo, anche quando scriviamo storie completamente inventate. E – questo lo so – il senso di solitudine e il senso di colpa sempre presente, immenso, sono argomenti che tra me e me discuto spessissimo (io parlo spesso tra me e me, molto spesso litigando o offendendomi; proprio l’opposto di quello che faccio con gli altri, con cui di solito non litigo mai). 

È qualcosa di atavico, prelogico, pensare di meritarsi un castigo. Ci pensavo, mentre accadeva. Ho abortito due volte e allora mi sono meritata di non rimanere incinta. Ho pensato troppo al mio lavoro e allora mi sono meritata di non rimanere incinta. Ho avuto paura di essere madre, e allora mi sono meritata quello che è successo. Penso sempre, sempre, che chi amo a un certo punto si fermerà a guardarmi e mi sgriderà: tu questo amore che ti do non te lo sei meritata.

Per scrivere, bisogna sempre essere sinceri. E allora mentre scrivevo questo romanzo ho pensato che dovevo raccontare sinceramente sia, per esempio, quanto per me il diritto all’aborto sia una fede, quanto il fatto di esercitarlo mi abbia creato un senso di colpa, di cui non capivo nemmeno bene la ragione. Dovevo trovare il coraggio di usare le parole esatte: senza paura del giudizio di nessuno.

Ecco, questo senso l’ho ritrovato in tante altre donne. Che mi hanno fatto capire che raccontarci, finalmente, è l’unica arma vera per combatterlo.

Per quanto riguarda la solitudine, come dici anche tu, si esplicita in tanti modi, e in particolare nel rapporto con Andrea, il compagno della protagonista. Tu ami, condividi un progetto e la vita, e poi tra te e la persona con cui stai si frappone un desiderio. E la caratteristica principale del desiderio di maternità è che quando arriva è feroce. Si prende tutto. Se questo desiderio non è condiviso, si diventa improvvisamente soli. Ma tutto il percorso della maternità è un percorso di solitudine: il corpo a cui sta accadendo ciò che di bello accade, ciò che di brutto accade: è tuo. Nessuno può capirti; nessuno può farlo al posto tuo. Ecco perché ho deciso di scrivere: perché, a differenza della parola orale, quella scritta prevede che ci sia solo tu, a tu per tu con quello che leggi. E a me leggendo i romanzi che amo è spesso capitato di sentirmi meno sola.

Mi è già capitato con te, anche nell’ultima chiacchierata per Questo giorno che incombe, HarperCollins Italia, [QUI il link per chi vuole leggere il post] ma anche con Una storia nera, Mondadori [QUI il link della prima chiacchierata con la scrittrice] il nostro primo folgorante incontro. Le domande si moltiplicherebbero all’infinito, dai riverberi che la tua scrittura sempre produce in me, e ai tanti riecheggiamenti che le tue risponde fanno esplodere dentro di me. Ma cerco di contenerle e di dar loro una coesione unitaria.

Cose che non si raccontano è anche un libro sul valore della scrittura, e dunque sul senso della Letteratura. Anche in questo caso l’io che si pone quesiti e questioni, che indaga con lucidità e autenticità, diventa uno specchio dai mille riverberi, uno specchio infranto che rimanda la complessità e la multiformità della realtà e del mondo interiore di ciascuno di noi. Nella scrittura, nel tuo caso, e in ogni diverso ambito della vita per noi lettori. La Letteratura, dopotutto, non è metafora?

e allora perché adesso sto raccontando?

Io che non racconto mai niente.

Sto raccontando perché nella mia testa non c’è nient’altro. Solo questo rosso.

Ma per Toni la scrittura è vita. Un libro da poco uscito, Questo giorno che incombe, la promozione, la candidatura allo Strega come coronamento di tanto lavoro e dedizione, e poi la disillusione.

È questo continuo travaso tra scrittura e vita, questo binomio incalzante, prevaricante, che si tinge di rosso, che si macchia di sangue, tanto sangue, a rendere Cose che non si raccontano non un semplice memoir, ma a travalicare ogni genere e ogni connotazione di già definito e di già detto.

Quale di quelle domande sul libro, sui suoi sconvolgenti perché, anche una volta terminato, editato e pubblicato, è ancora aperta e vibrante? e altre se ne sono aggiunte sul senso che la scrittura attraverso la tua vita assume per noi lettrici e lettori? 

RISPOSTA: Ho deciso di scrivere Cose che non si raccontano un giorno a Sabaudia, sul mare. Era appena successo tutto. Ero distrutta. Ero quasi morta dissanguata. Ero appena uscita dall’ennesimo ospedale, dall’ennesima operazione. Ero disperata.

A un certo punto il cielo si è oscurato, si è alzato il vento, il mare è diventato d’argento e si è arrabbiato. Com’ero arrabbiata anche io. Faceva freddo. Mi sono stretta nella giacca.

E mi sono chiesta: c’è ancora un senso?

E di colpo mi sono resa conto che, dall’inizio di questa storia, io nei momenti più difficili mi ero scritta delle frasi in testa. Una specie di schermo tra me e quello che succedeva. Un aggrapparsi a una motivazione, una speranza che ci fosse ancora un senso.

E allora ho deciso di scrivere. Ho capito che, come scrittrice, io faccio così: mi schermo con la scrittura. E soprattutto con la lettura.

Ho deciso di scrivere questo romanzo e ho capito subito che doveva essere anche un romanzo sulla scrittura. Su ciò che l’ambizione ti dà, ciò che l’ambizione ti toglie.

E anche su come si costruisce un libro: la scelta delle parole – sincera – delle frasi – spietate a volte -, del linguaggio medico, dei messaggi con le amiche, e il montaggio che rendesse quasi l’idea di un thriller.

Perché alla fine questa storia, purtroppo, è piena di colpi di scena. E allora come ci aggrappa alla scrittura? Cercando di scrivere questo romanzo con i sussulti, gli stacchi, il vertiginoso andare avanti e indietro nel tempo, i colpi al cuore che vengono dalla storia così com’è accaduta nella realtà e anche dal riorganizzarla in un romanzo. Darle delle parole. Sperando sempre che siano quelle esatte.

Voglio concludere con un mio tic di lettrice. Un mio vezzo per leggere tra le righe, per riconoscere gli indizi in punti strategici del manufatto libro, quelli dove mi pare che la scrittrice dialoghi con meno filtri e più direttamente con i lettori e le lettrici.

L’esergo e l’indice.

Per il primo hai scelto due versi di Venditti da Notte prima degli esami: le bombe delle sei non fanno male è solo il giorno che muore.

L’indice è puro schianto:

1.Uno

2.Due

3.Tre

E aggiungerei nel mezzo un uso sapiente dell’impaginazione, con gli spazi bianchi che sono lo spazio per il silenzio, per posare il dolore, per piangere anche e per fermare il momento.

Quale messaggio hai imbottigliato in questi tre elementi, che per me hanno avuto una forza dirompente?

RISPOSTA: Tenevo tantissimo all’esergo con Notte prima degli esami di Antonello Venditti. Volevo un esergo semplice, piccolo, sincero. Ognuno può interpretarlo come vuole ma per me la frase “non fanno male” e “ed è solo il giorno che muore” è stato sempre un colpo al cuore. Mi strazia e in qualche modo mi consola. Non so neanche dire perché. E quindi subito, senza pensarci, ho capito che questo era il modo giusto per presentare al lettore questo romanzo.

Il titolo di lavorazione del romanzo era “Tre”. Anche qui: mi sembra diretto, semplice, piccolo. Poi però sono contentissima del titolo definitivo, che non solo è una bellissima frase di Simenon, ma che racchiude in sé proprio il senso del romanzo: raccontare le cose che non si raccontano. Quelle di cui nessuno parla. Però, non potevo abbandonare questa parola, tre, che mi martella la testa ormai da troppo tempo. Allora ho deciso di inserire questa traccia, quasi metatestuale, nel romanzo. È un romanzo che non esisterebbe se non fossero esistite loro tre. 

Come dicevi anche tu, costruendolo l’ho pensato anche come un libro di suspance. Perché purtroppo già nella storia vera ce n’era tanta. Gli spazi servono per lasciare il tempo al lettore di pensare. Di riempire quelle pause con sé stesso. Odio lo scrittore narcisista che spande sul lettore la propria scrittura. Amo i libri che mi raccontano e mi lasciano la possibilità di riempire gli spazi bianchi. I capitoli brevi e gli spazi bianchi servivano anche per cercare di rendere il ritmo concitato di tutto quello che accadeva. Ogni volta che finisce un capitolo, c’è un respiro.

Ne approfitto per ricordare che domenica 26 marzo, Antonella Lattanzi con Nicola Lagioia e Annalena Benini (che trio del cuore) presentano Cose che non si raccontano a Libri Come, Festa del Libro e della Lettura all’Auditorium Parco della Musica di Roma, e io ci sarò!

Chiacchierando (di nuovo) con Antonella Lattanzi
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