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Secondo me ci saremmo incontrate a casa di Milena e Paola, in quella casa stretta, piccolissima, buia, con tutti i turisti felici e vocianti fuori, e i gabbiani che incombono. Che dici?

Rispondo ad Antonella Lattanzi, di cui ho appena terminato di leggere il nuovo romanzo, che mi pare il luogo ideale per poter chiacchierare con lei dello straordinario fascino che emana dalla sua storia. La casa è piccola, ma ci stiamo tutti: accomodatevi, mentre io comincio con la prima domanda.

3Dnn+9_7B_med_9788804674863-una-storia-nera_original“Una storia nera” (Mondadori) è un romanzo portentoso, nel senso proprio e pregnante del termine: di cosa straordinaria e miracolosa che accade sotto i nostri occhi increduli. Confluiscono nella definizione vari fattori: una scrittura essenziale e saliente, che batte su un ritmo incisivo e ipnotico; la focalizzazione interna, in una narrazione in terza persona, che connette oggettività e soggettività facendo perdere i confini tra l’una e l’altra; una punteggiatura basata essenzialmente sulle virgole che martellano incessantemente il testo; simboli carichi di pathos, prima di tutto gli uccelli (i gabbiani nella fattispecie) di hitchcockiana memoria.

Da lettrice ho avuto la sensazione che fosse la storia a muoversi, che non ci fosse una regia, ma tutto fosse filmato nel suo verificarsi, nel momento stesso in cui accadeva (e che l’uso del passato nella narrazione servisse per stemperare la temperatura, altrimenti incandescente).

Da cosa è partita Antonella Lattanzi per scrivere “Una storia nera”? Ti sei lasciata prendere dalla storia come è avvenuto a me lettrice, o invece hai dovuto farti carico dell’onniscienza del narratore e portare i personaggi a recitare il ruolo che avevi immaginato per loro?

 

Con “Una storia nera” ho lavorato in modo molto diverso dai miei altri romanzi. Per gli altri (“Devozione978880619932GRAe 978880621504GRAPrima che tu mi tradisca”), avevo un’idea che per me era forte, dei personaggi in testa, ma poi mi facevo guidare dalla storia. Andavo avanti nella scrittura, scoprivo cosa succedeva e come cambiavano i personaggi, tornavo indietro per modificarne i tratti, la personalità, riscrivevo moltissimo perché scoprivo la storia mentre succedeva.

Con “Una storia nera” lavorare così non era possibile. Ci voleva un meccanismo narrativo, una struttura, il più preciso possibile, proprio per poter portare avanti l’elemento giallo – o nero – della storia. Quindi ho lavorato come si lavora a un film. Ho scritto tutta la struttura del romanzo, l’ho divisa in tre atti, l’ho studiata e modificata finché non mi sono sentita soddisfatta. Poi ho scritto cosa doveva accadere in ognuna delle tre parti, e via via in ogni capitolo. Ho studiato le storie dei personaggi e la loro parabola attraverso la storia, uno per uno. Era l’unico modo per venire a capo di una storia che ha così tanti personaggi e una trama che volevo fosse tesissima.

La storia nasce dalla mia passione per la cronaca. Mi piace moltissimo, da sempre – l’ho fatto anche negli altri miei libri – studiare il reale e tutto ciò che è diverso da me. Non mi piace raccontare le cose che mi sono troppo vicine. Mi interessa calarmi in altre vite, altri mondi. Così ho studiato tantissimi casi di cronaca e tantissimi processi per arrivare, però, a una storia che fosse inventata. Credo nell’invenzione. Credo che un romanzo, un film possano contenere molto più della realtà.

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Questo primo scambio dà corpo al senso del “portentoso” che è ciò che permea la mia impressione su “Una storia nera”. Ottenere un risultato: una scrittura che sembra procedere con straordinaria efficacia e immediatezza, laddove a lettura terminata si comprende che il disegno narrativo doveva necessariamente essere chiaro già all’inizio. Da qui stupore e ammirazione.

Un secondo elemento portentoso, a mio avviso, è fornito dai personaggi. Tutti straordinari, ritagliati sin nei minimi dettagli emotivi, eppure così misteriosi. Si presentano al lettore nudi, nelle loro sensazioni, nei moti del loro animo, nelle loro reazioni e nei loro istinti. In pagine di scrittura perfetta entriamo persino nel sogno di uno di loro, eppure alla fine il lettore non può dire di conoscerli davvero. Ed è questo il motivo portentoso della loro attrazione, del loro fascino e della loro riuscita narrativa. Nello stesso tempo sono tutti empatici. Tutti. Persino Vito Semeraro, il marito violento e traditore.

Su di lui e in genere sul “maschile”, per me, il tuo romanzo gioca la sua carta più importante. L’elemento di più forte impatto, letterario emotivo e persino sociale e civile.

Vito Semeraro non è semplicemente un mostro. È un uomo: violento e aggressivo, ma certo anche spezzato, fratturato, dilaniato. Un’umanità mostruosa, la sua.

Mi piacerebbe soffermarmi sulla sua figura, paragonandola a quella del figlio Nicola e dell’amante Manuel, prima di passare alle figure femminili. 

 

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Grazie Giuditta. Per me è molto importante che Vito non sia percepito come un personaggio esclusivamente cattivo, esclusivamente negativo. Per me è molto importante che tutti i personaggi siano sfaccettati, imprendibili, inconoscibili fino in fondo, proprio come dici tu. Proprio come nella realtà. Vito è dilaniato, è vero, è due persone distinte. Quella buona coi figli, premurosa con la moglie – solo in alcuni momenti -, rispettabile e vincente sul lavoro, amato alla follia dalla famiglia di origine. E quella cupa, rabbiosa, violenta che Carla, e solo lei, conosce così bene suo malgrado. 

Anche Nicola è un giovane uomo dilaniato. Ha rifiutato la figura del padre, si è dato il compito di sostenere sempre la madre – amata alla follia – e la famiglia, ma contiene in sé un imprinting, un germe di violenza che è difficile sedare perché viene da molto lontano. È come un’eco che gli rimbomba in testa. Ed è così difficile liberarsi dai pensieri quando martellano la testa in modo così ossessivo. 

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Vito, amato follemente e ossessivamente sia da Carla, la moglie e madre dei suoi tre figli, sia da Mimma, la sorella che l’ha cresciuto e che lo considera un figlio, una creatura del suo grembo sterile, più che un fratello. Ma non basta: anche Milena e la figlia sedicenne, Paola, lo amano di un amore malato, stantio, surrogato. 

La partita dell’amore giocata su un campo di sentimenti in contrasto, sulla rivalità agguerrita, su un senso inquietante e perturbante del possesso, e che indulce a qualcosa di malsano, asfissiante, insalubre, fino a sfociare in un sentore incestuoso, edipico, folle.

La mancanza di sincerità, che è caratteristica di ognuno dei tuoi personaggi, ciascuno con il suo segreto, consapevole criminale occultato ingenuo che sia, è ciò che li fa muovere e agire, scontrarsi e incontrarsi.

Di quanti e quali tipi di amore volevi parlare in “Una storia nera”?

 

amore_14Volevo parlare dell’amore. Nelle sue forme ossessive, esclusive, disarmanti. L’amore che i protagonisti provano l’uno per l’altro è sempre doloroso. Sono rinchiusi in una sorta di setta da cui nessuno può uscire. Chi ci entra è maledetto per sempre. Volevo parlare dell’ambiguità dell’amore – capace di darti gioie incredibili e dolori pazzeschi – e della potenza dell’amore. Hai ragione, il possesso è uno dei cardini di questo tipo di amore, e dalla sensazione, dalla voglia di possesso nasce la gran parte dei problemi di Carla, Vito, i loro figli, Milena – la sua amante -, Paola – la figlia di Milena – e di Mimma – sorella di Vito, innamoratissima di lui. È un amore cieco – come quello di Mimma – o sempre soffocato – come quello di Milena -, o è un amore intriso di rabbia – come quello di Paola, che considera Vito un padre (o è proprio suo padre e lei non lo sa?) e che invidia la sua famiglia istituzionale perché può averlo con sé sempre. I figli, dice Paola, non diventano mai ex.

Poi l’amore può anche essere lieve e pulito, privo di ossessioni, certo. Ma la sofferenza sembra braccare i personaggi di questo libro che, per quanto si dibattano, rimangono sempre più incastrati, soffocati dalle maglie di questo loro sentimento.

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Un altro elemento portentoso del romanzo sono i luoghi. 

Una Roma inedita, noir, spesso al buio della notte: dal quartiere popolare della Prenestina alla discarica di Spinaceto, a una notturna e desolata Castel Sant’Angelo che apre il romanzo (e che nulla ha in comune con la chiassosa, assolata zona presa d’assalto dai turisti che tutti conosciamo), fino all’A1 che ricorda alcune pagine di letteratura americana on the road, e che invece conduce Nicola e Livia in una demartiniana Massafra in cui si consuma un rito di formazione e di espiazione, che per certi versi ricorda una moderna discesa agli inferi, per altri alcune scene felliniane o del Neorealismo. 

E poi ci sono gli interni: la casa dello zio in cui si consuma il delitto; il soffocante appartamento di Carla; l’asfittico bilocale di Milena e Paola, e la stanza buia di Nicola, fino alla caserma della polizia con le finestre sbattute e battute dalla rapacità dei gabbiani. Sullo sfondo la casa di Vito, in cui si entra una sola volta, borghese conformista intrisa di benessere. 

Un’ambientazione nel complesso molto cinematografica, realistica, vivida e nello stesso tempo metafora della crudezza della vita, con la cappa afosa dell’estate romana, che annebbia e incrudelisce sui casi umani raccontati.

Quale cura e quale ricerca ti hanno portato nei luoghi in cui si consuma “Una storia nera”?

 

MassafraTi ringrazio per la bellissima analisi dei luoghi. Per me i luoghi, da sempre, sono parte integrante del romanzo, della trama, dello stile. Un po’ come dicevamo prima, riflettono anche la condizione interna dei protagonisti, ne sono una proiezione, uno specchio. Carla, i suoi figli, Milena, sua figlia, Mimma vivono in case oppressive – come sono oppressi loro stessi – claustrofobiche anche quando sono grandi – penso alla casa di Mimma, per esempio – buie, malate. E, quando i personaggi escono di casa, ad accogliergli ci sono strade battute da un sole ingrato o spettrali o affogate nella polvere. Oppure paesaggi muti e minacciosi come l’autostrada che Nicola e la sua fidanzata Livia percorrono per andare a Massafra. Massafra stessa, poi, è un personaggio, l’ho studiata molto prima di tramutarla in una presenza oscura, spaventosa, ho cercato i suoi aspetti più sfolgoranti e quelli più neri per rimanere aderente alla realtà ma anche alla mia idea di racconto.

I luoghi di Roma che ho scelto sono quelli che secondo me riflettono meglio l’atmosfera del racconto, i turisti che si accalcano nelle strade della città eterna sono da sempre, per me, figure disturbanti, e allora mi è venuto naturale trasformarli in un elemento del racconto, in una pedina nell’eterna lotta tra bene e male, bello e brutto, gioia e dolore. La gioia sta dalla parte dei turisti, il dolore in questo caso in Milena che li guarda senza poter essere una di loro.

È come se i personaggi di “Una storia nera” fossero intrappolati in un maleficio fatto di paura. Tutto il resto del mondo, invece, può essere, se vuole, felice, spensierato, ma anche minaccioso.

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E la prima a essere intrappolata in un maleficio è Carla.

Ci guarda da tempo, mentre conversiamo, aspettando il momento che parleremo di lei. Le ho riservato la fine. Ma non è facile fare una domanda su Carla, nonostante sia un personaggio che incombe e sovrasta tutta la narrazione. Uno dei personaggi femminili, a mio avviso, più tragici ancestrali mitopoietici della letteratura contemporanea.

Carla è un’eroina tragica, può avere come sorelle Medea, Clitemnestra, Elettra, ma anche Penelope, Didone, Giulietta. Poeticamente contraddittoria, nei gesti, negli sguardi, negli atteggiamenti. Fiera e dimessa. Disumana e umanissima. Che urla il dolore nel silenzio. Che canta un macabro inno di amore e morte.

Una donna ambigua, fragile come un cristallo e tenace come un diamante.

La racconti tu, come ti è apparsa?

 

Ho visto una donna piccola, bionda, non troppo alta, molto bella. Una persona con un talento smisurato: il magnetismo, il fascino. Quasi come magia. L’ho vista tragica in ogni suo movimento, capace di forza grandissima quanto di grandissima debolezza. L’ho vista persona, prima che donna, e poi donna ambigua, moglie incredibilmente simile a suo marito Vito – ma anche così dissimile da lui – e madre innamorata dei figli. Ai quali dà forza ma dai quali prende anche molto. In una scena Carla si dispera al pensiero che un giorno sua figlia minore non dormirà più con lei, come se, invece di essere lei a proteggere la bambina, fosse la bambina a proteggerla. Carla adora i suoi figli, se li tiene stretti, e i figli rimangono con lei. Mi interessava molto indagare questo aspetto: cosa succede nel rapporto tra Carla e i figli dopo la scoperta di cosa è successo a Vito.

Ma Carla esiste anche al di là del rapporto familiare, per esempio nel rapporto con Manuel, una sorta di nuovo compagno, esiste anche nelle pagine in cui non c’è, è una sorta di nume tutelare del romanzo – tu dici giustamente che ci guarda mentre conversiamo, io ho avuto la sensazione che guardasse tutti i personaggi anche quando non era in scena nel libro – ma anche una presenza incombente che modifica le azioni di tutti gli altri: i familiari, i conoscenti, l’opinione pubblica, la giustizia.

Non so dirti da dov’è venuta, ma so che è nata più o meno come la vedi ora, ed è stata il perno attorno a cui si sono costruite le azioni, i pensieri, i movimenti di tutti gli altri personaggi. Come se il suo fascino avesse avuto un effetto ipnotico anche su di me, e mi avesse guidato la mano mentre scrivevo questa storia.

 

Mi hai fatto venire i brividi… a dimostrazione di quanta potenza smisurata ci sia nel personaggio e nelle parole con cui le hai dato vita, qui e nel romanzo.

Chiacchierando con… Antonella Lattanzi