Libraia e giornalista, al timone con Antonello Saiz dei Diari di bordo, libreria indipendente a Parma, con la rubrica "I libri di Alice"
Libraia e giornalista, al timone con Antonello Saiz dei Diari di bordo, libreria indipendente a Parma, con la rubrica “I libri di Alice”

 

 

 

 

 

 

 

 

Alice Pisu (Libreria Diari di bordo) comincia il suo viaggio alla scoperta del mondo letterario del grande autore ispano-argentino Andrés Neuman.

17506056_779942855497744_199428823_n

Le cose che non facciamo, Andrés Neuman

Quello che non vediamo è ciò che ci ostacola. Piotr Czerny è seduto a un tavolino del Central café II e sta scrivendo quella che sarà una delle sue ultime poesie. Custodisce un segreto, due libri di poesie, un diario e aforismi che è riuscito a non mostrare a nessuno per tutto quel tempo in attesa che fossero pronti per essere pubblicati. Pensa al titolo, indeciso tra “L’assoluzione” e “Il fiore e la pietra”

“Il silenzio, si disse, probabilmente stava solo nei contorni, delimitava la circonferenza, sottile quanto intangibile: o si attraversa da fuori o si scorge da dentro, ma non lo si abita mai”. Quell’appartamento che custodisce il suo segreto prenderà fuoco inspiegabilmente e finirà lì, tra i resti di un palazzo ridotto per metà in cenere. Il suo sguardo è di sconcerto, perso nel vuoto. Torna in quel café, prende in mano la sua Mont Blanc e il taccuino, lo fissa, non riesce a concentrarsi, poi inizia a scrivere, sul rituale del fuoco, sulle parole che si salvano. Ecco il titolo giusto, “L’assoluzione”. Uno degli ultimi racconti di Andrés Neuman, contenuto nel nuovo libro pubblicato in Italia da Sur, “Le cose che non facciamo”, e tradotto da Silvia Sichel, svela ciò che sta dietro la scrittura. Non si tratta tanto di una raccolta di racconti ma di tanti microcosmi idealmente interconnessi, seguendo una sorta di suddivisione tematica in ambiti, “Le cose che non facciamo”, “Familiari ed estranei”, “L’ultimo minuto”, “La prova d’innocenza”, “Fine e principio del lessico”, “Dodecaloghi di uno scrittore di racconti”. Una suddivisione che però è fittizia, se si considera che gli stati d’animo e le inquietudini vissuti da alcuni personaggi e che si ritrovano nelle immagini di altri suoi racconti e romanzi, accompagnano tutta la narrazione seppur in storie e ambientazioni diverse. 17506316_779942918831071_276279913_n

Andrés Neuman racconta. Narra storie d’amore, relazioni tenute in piedi nell’assenza di comunicazione, vite spezzate e esistenze che sopravvivono. Riesce a mettere in rassegna ogni sfumatura emotiva dell’essere umano. I personaggi di Neuman passano come per caso nel racconto, vanno oltre e continuano la loro vita, come dice in fondo, nel dodecalogo. E riesce a fare tutto questo attraverso il genere del racconto, una tradizione narrativa che gode da sempre di grande fortuna in Argentina. Le ragioni sono da ricercare anche nella lunga storia di colonizzazioni e di imposizioni esterne nel Paese, l’ondata di migrazioni europee nei primi decenni dell’Ottocento, la proclamazione della Repubblica e la costituzione di leggi, lingua e letteratura proprie. Anche se convenzionalmente si parla della metà del Cinquecento con Matías Rojas de Oquendo e Pedro González de Prado, è a partire dai primi decenni dell’Ottocento che gli studiosi rintracciano la nascita della letteratura argentina con una netta demarcazione rispetto alla tradizione spagnola. E l’opera che segna questa sorta di inizio con la prima storia di ambientazione locale e realistica è proprio un racconto: “El matadero” di Esteban Echverrìa.

Contemporaneamente anche in Europa il racconto gode di prestigio, con narratori del peso di Gogol, Hoffmann, Dickens, Poe, riuscendo a dare nuova luce a quella forma letteraria che in Italia si era distinta già con Boccaccio ma che necessitava di un radicale rinnovamento. L’Argentina vedrà l’emergere di grandi scrittori, da Jorge Luis Borges a Julio Cortázar a Ernesto Sabato e Abelardo Castillo. Neuman, tuttavia, marca una profonda differenza rispetto ai suoi contemporanei, forse anche a causa delle sue radici “meticce“ da figlio di musicisti immigrati diviso tra Buenos Aires e Granada. Riesce a distinguersi nel delicato equilibrio dell’appartenenza a un luogo e dell’innesto in un altro, giocando con il linguaggio, con la scrittura, creando una sorta di complicità con il lettore, tra dialoghi che passano dalla struttura tradizionale a un flusso continuo, mescolati senza alcun a capo o divisione tra personaggi, come in “Fuori non cantavano gli uccelli”. Del resto, avverte Neuman, qualsiasi forma breve può essere un racconto, a patto che riesca a trasmettere una sensazione di finzione.

Il racconto è perseguitato dalla sua struttura, ricorda nel dodecalogo, perciò ogni tanto occorre apprezzare che la si faccia saltare. È a partire dal racconto “Teoria della stesura”, dall’osservazione delle vite che gravitano in un cortile, che Neuman tesse storie. “Potrei leggere. Potrei scrivere. Potrei alzarmi. Potrei fare un giro. Ma niente è paragonabile a questa generosa mediocrità che contiene il mondo intero”. Da qui si colgono i motivi ispiratori della scrittura di Andrés Neuman, che non si basa mai sull’invenzione di avvenimenti a effetto e colpi di scena eclatanti, ma dalla pura osservazione di questa generosa mediocrità racchiusa nel mondo, fruibile anche solo soffermandosi a scrutare l’interno di un palazzo. “L’estetica collega l’osservazione alla comprensione, il gusto personale con il senso generale. L’estetica sarebbe, dunque, il contrario della descrizione. Quando si ha solo un cortile interno per riempirsi gli occhi, questa distinzione diventa una questione di sopravvivenza”. Sono i fili del bucato a raccontare storie ne “Le cose che non facciamo”, che mi fanno pensare alle pagine di uno dei precedenti romanzi di Neuman, “Parlare da soli”.

17505713_779942932164403_905712822_n

“Ho constatato che le parole che scambiamo con il prossimo sono fonte di malintesi, più che di conoscenza. Invece la loro biancheria è trasparente (letteralmente in qualche caso). Non la si può fraintendere. Al massimo si disapprova. Ma anche questa disapprovazione è trasparente: ci rivela a noi stessi”. Esiste un forte richiamo a “Parlare da soli” ne “Le cose che non facciamo”, uscito nel 2012 con il titolo originale “Hablar solos”, pubblicato in Italia da Ponte alle Grazie con la traduzione di Silvia Sichel. Non si tratta unicamente delle tematiche che si riannodano, come l’elaborazione del lutto, la morte, la maternità, l’incomunicabilità nelle relazioni affettive, ma del modo di raccontare i propositi mai realizzati, pensando a un tempo futuro che non arriva mai, o che scorre nell’inconsapevolezza.

parlasoligrandeIn “Parlare da soli” ci sono tre voci, tre narratori, tre protagonisti che raccontano, ognuno dalla propria prospettiva, il modo di reagire a una malattia che non lascia scampo. Mario il malato, Elena sua moglie che cerca di confrontarsi col dolore attraverso il sesso, e Lito, il figlio di dieci anni e i suoi occhi innocenti sul mondo. Occorre una malattia per giungere alla presa di coscienza che quel tempo, lasciato a progettare viaggi futuri fatti cadere con la convinzione che ci sia sempre tempo in abbondanza, ormai sia giunto alla fine. Da qui la decisione di mettersi in viaggio, nonostante la malattia, con il figlio, a bordo di un camion di nome Pedro con la convinzione che anche il clima si possa cambiare, basta concentrarsi a fondo e le nuvole spariscono dal tergicristallo, e se piove è per il malumore. Lito ne è convinto, ha un superpotere. Ecco che quel viaggio, nel dolore nascosto al figlio, si trasforma nel ricordo costruito per non farlo finire tra le tante cose che non facciamo. Guardare il proprio figlio e capire che non sarà possibile vederlo da adulto, un improvviso “attacco di futuro“ che porta quel padre a invitarlo a bere qualcosa al bar prima di andare a dormire “[..]ho pensato: bene, se non posso aspettare che sia adesso, e sono venuto da te per invitarti a bere qualcosa, ti giuro che ero pronto a lasciarti ordinare qualsiasi cosa, e tu hai ordinato una Fanta, ed è stato meraviglioso, forse il viaggio lo avevamo fatto proprio per questo, no? Per farci una Fanta in un motel di puttane, e allora tutto è valso la pena“.

1voltagrande“Il destino alla fine si compie: su questo si basa il potere dei racconti, la serietà del loro significato”, scrive Neuman ne “Una volta l’Argentina”, Ponte alle Grazie. Ecco che in quella serietà, Neuman riesce a descrivere, in uno dei racconti più significativi che dà il titolo al libro, i progetti e i propositi mai realizzati nella vita a due, che rappresentano quasi il collante dell’esistenza, della relazione, quel vivere progettando e fantasticando su cose che poi svaniscono. “Mi piace che non facciamo le cose che non facciamo. Mi piacciono i nostri progetti al risveglio, quando il giorno sale sul nostro letto come un gatto di luce, e che non realizziamo perchè ci alziamo tardi per esserceli immaginati tanto”.

È come se ogni racconto e romanzo di Neuman ruotasse attorno al cerchio della vita e della morte. Descrive al limite del visionario cosa rappresenta generare. In “Dare alla luce” il racconto procede come un flusso incessante rendendo esattamente i respiri affannosi, il dolore estremo del parto che arriva a coincidere con il concepimento. Sentimenti che riescono a essere al contempo reali e assurdi anche per il fatto di essere descritti con grande enfasi dalla prospettiva dell’uomo che dà alla luce, quasi autogenerandosi. Un ritmo teso, reso anche attraverso l’espressività sintattica e la totale assenza di punti fermi durante tutto il racconto.“[..]manca poco signore, piantandomi le unghie nella carne, e le nostre voci si univano, e si capiva che la vita è più o meno un amore di squadra, che non esiste di per sé, cos’è la vita se non ci sono due volontà coinvolte e un dolore condiviso, mi straziava, la luce mi straziava e anche quella notte le lenzuola si scostavano ed era un altro il profumo, meno falso, orgoglioso, senza colpe, questi siamo noi e questi sono i nostri odori, come sarà l’odore di mio figlio? [..] sarò degno del suo esordio? e cosa fare per sentire che malgrado tutto ci meritiamo un altro inizio? ma dovremmo offrirgli anche questo, crudeltà e meschinità, sono nostre, saranno sue, abbiamo riacquistato l’innocenza“.

Il tema dell’innocenza ritorna a più riprese ne “Le cose che non facciamo”, sviluppato per immagini, come le mani della madre, che devono restare bianche su quella sedia a rotelle, ma non innocenti, perché “l’innocenza non ci interessa poi molto“. In “Dopo Elena”, che inizia con una pulizia accurata dei luoghi di vita della sua donna scomparsa, che mi hanno ricordato le immagini de “Il grande animale” di Di Fronzo, arriva a scandagliare tutti gli stadi dell’emotività umana. Mette in rassegna ciò che sta dietro la facciata delle relazioni sociali attraverso gli stati d’animo che determinano quei rapporti: gelosia, invidia, rabbia che erode la poca felicità. “Gli individui tormentati godono di questo vantaggio: ottengono da noi, forse ingiustamente, una maggiore benevolenza di coloro che conservano intatta la capacità di provare piacere. Il dolore gratuito degli altri non ci offenderà mai quanto la loro meritata felicità”.

L‘innocenza, dai libri di Neuman, sembra essere l‘unico stadio della vita in cui si è realmente onesti con se stessi. Il solo momento giusto per mentire è quando si gioca, ma la colpa è nostra, dice, per le continue divisioni che ci imponiamo, tra bene e male, tra vero e falso. “Le bugie in fondo sono utili per continuare a vivere“. Riflessione già nata in “Parlare da soli”, per voce di Mario, che attraverso la malattia riflette sulla vita, su cosa significhi, e se sia davvero possibile, essere onesti con se stessi. “…domanda che si fanno sul serio solo i bambini, e poi noi malati torniamo a chiedercelo: è giusto mentire? È giusto che ci raccontino bugie? Un adulto sano non se la pone nemmeno, la risposta gli sembra ovvia, e lo è, no? A dire bugie si impara come si impara a parlare, c’insegnano a parlare poi a tacere“.

argentina-640x342

Neuman racconta l’infanzia come una sorta di specchio che riflette il mondo che racconta. In un romanzo in particolare, “Una volta l’Argentina”, Ponte alle Grazie, lega l’infanzia al riaffacciarsi della memoria, del ricordo, e del loro peso nella vita dell’individuo. “L’infanzia è un luogo dove tutti cantiamo le stesse canzoni e ci colpiscono gli stessi annunci pubblicitari“. Usando personaggi di fantasia racconta le vite dei componenti della sua famiglia, una stirpe arrivata da ogni parte del mondo, dal capostipite russo allo scultore eretico che viveva in Francia, nel paese costruito da milioni di immigrati. Attraverso il racconto di quelle esistenze, Neuman traccia la storia di un paese come l’Argentina, tra le sue tragedie e i suoi modi di rinascere lungo tutto il Novecento. Definito a metà tra apologo politico e poesia d’amore per la sua terra, usa l’espediente fantasioso per raccontare le vicende di persone e avvenimenti reali della sua famiglia. Lo dedica idealmente “Alle persone che rimangono”. Descrive i ricordi come qualcosa di cui ognuno è a conoscenza ma cui non sa dare un nome, solo nel tornare e nel dolore che determinano si riescono a inquadrare, a definire. “So che ci viaggiamo dentro. Siamo i loro passeggeri”.

 

 

(Recensione apparsa il 9 dicembre 2016 su Repubblica Parma, Letture. Libri, parole e dintorni)

 

I libri di Alice: il mondo letterario di Andrés Neuman (parte prima)
Tag:                 

Un pensiero su “I libri di Alice: il mondo letterario di Andrés Neuman (parte prima)

I commenti sono chiusi.