di Alice Pisu

Libraia e giornalista, al timone con Antonello Saiz dei Diari di bordo, libreria indipendente a Parma, con la rubrica "I libri di Alice"
Libraia e giornalista, al timone con Antonello Saiz dei Diari di bordo, libreria indipendente a Parma, con la rubrica “I libri di Alice”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Andrés Neuman e la letteratura dell’addio

17742554_783744671784229_1934493247_n

“Che strani gli addii. Vi è in essi qualcosa di raggelante, come la morte. Eppure risvegliano la forza disperata della vita. Forse gli addii costituiscono un retroterra, o ci riportano all’unico retroterra che ci appartenga davvero: la solitudine“. Tra le pagine de “Il viaggiatore del secolo”, Ponte alle Grazie, Andrés Neuman racconta quel viaggio fisico e al contempo l’elaborazione di un distacco legato a un amore, ma che richiama temi da sempre oggetto di approfondimento nella scrittura dell’autore argentino. 

L’eterna domanda, cosa rappresenti vivere. Forse, riflette Neuman attraverso il suo protagonista, vivere consiste nel dare alle cose il benvenuto che si meritano e nel dire loro addio con la debita gratitudine. Attraverso l’immagine del viaggiatore, un giovane traduttore che gira per il mondo, Neuman racconta cosa significhi elaborare una separazione, il distacco dagli affetti, la convinzione di non costruirne per evitare il dolore, dietro l’illusione di una spensieratezza vacua. I viaggiatori rifuggono la nostalgia, pensa, perché quando si viaggia non c’è tempo per i ricordi, una valigia che rende inconsapevoli dei cambiamenti obbligando a rimandare il passato, mentre il presente, sostiene Hans, è assorbito dall’inquietudine dell’immediato. Il distacco, gli addii, la partenza richiamano idealmente i grandi temi della scrittura di Neuman. Il filo conduttore che lega i suoi numerosi romanzi, le raccolte di poesie e i suoi racconti risiede nella costante riflessione sul senso del vivere, che si snoda attraverso le piccole scene del quotidiano.

Torno a “Le cose che non facciamo”, perché questi racconti rappresentano il collante dell’intera opera di Neuman, il racconto di quella “generosa mediocrità che contiene il mondo intero“, che può passare anche attraverso l’osservazione del bucato steso sui fili in un cortile. Perché si vive e come accettare la morte passando attraverso la malattia le costanti domande su cui gravita l’intera opera di Neuman, sviluppate in particolare in “Parlare da soli”, ma ritrovate anche nell’ultima raccolta di racconti. Non è la morte intesa come fine vita ma il travaglio vissuto nella malattia a portare Neuman a focalizzarsi sui sentimenti che gravitano in quelle attese, nell’osservazione di un corpo che diventa via via irriconoscibile, nel prendersi cura.

17506142_783744835117546_1249712025_n

“Entrai in ospedale pieno d’odio e con la voglia di dire grazie. Com’è fragile la rabbia”. Inquietudini che si collegano alla fede, alla presunta salvezza possibile attraverso di essa. “Sono sempre stato convinto che l’assenza di Dio ci liberi da un peso insopportabile. Ma più di una volta, entrando o uscendo da un ospedale, ho sentito la mancanza della clemenza divina. Pletorici, pieni di posti a sedere, corridoi, gerarchie e rituali d’attesa, silenziosi ai piani superiori, gli ospedali sono quanto di più simile a una cattedrale in cui noi miscredenti possiamo mettere piede”. Anche nell’osservazione della malattia della madre ne “Una sedia per qualcuno”, ritorna il richiamo a un’innocenza definita malata, nella sedia a rotelle nuova come le sue mani bianche ma non innocenti. “Questa è la tua sedia, vedi?, siediti pure. Ho aperto lo schienale, ho controllato le ruote e ci ho passato sopra uno straccetto perché le tue mani restino bianche. Dico bianche, non innocenti, a te e a me l’innocenza non interessa molto. Il colore bianco sì, perché richiede uno sforzo, bisogna avere cura”. Un dialogo immaginario con la madre attraverso una sedia a rotelle attesa e rinnegata e arrivata ormai troppo tardi. Una sedia vuota racconta molto, racconta il vuoto, il tempo che continua a scorrere e quello che deve lenire il dolore. “Le cose non si mettono in ordine perché restino intatte, si sistemano per invitare il tempo a fare il suo lavoro”.

Attraverso dettagli, oggetti cari, Neuman analizza l’elaborazione di un lutto, una sedia rimasta vuota, un paio di scarpe del padre consegnate nel corridoio dell’ospedale in una busta di plastica da un’infermiera come si fa con gli avanzi. Nel racconto “A piedi nudi” riesce a raccontare la morte del padre attraverso l’immagine di quei piedi nudi nella barella, mentre il figlio aspetta e teme novità fuori dalla sala operatoria. Neuman riflette, anche attraverso la descrizione di queste scene, su come l’elaborazione della malattia e del lutto si leghino all’incapacità dell’essere umano di accettare la morte senza quasi inevitabilmente appigliarsi a qualcosa di materiale, come nell’illusione di lenire o rendere più sopportabile quella perdita. Penso ai versi di Emily Dickinson ne “Io lascerò il mio cuore appena in vista”, Editori Internazionali Riuniti, che riflettono su come si viva la perdita, in quell’equilibrio precario tra abisso e vertigine.

“Ciascuna perdita prende parte di noi;/ Resiste ancora una falce crescente/ Che come la luna, una torbida notte/ E’ richiamata dalle maree“. Libri per cercare risposte, anche in “Parlare da soli”, cercandole in quell‘errare attraverso la scrittura. Richiama Helen Garner quando scrive “Si rifiuta di accettare gran parte dell’orrore ma quell’orrore non scompare“, anzi lo scopo dell’orrore è l’esatto contrario: ricomparire. “E così tocca a qualcun altro viverlo“. Non parlando della morte, come fa Mario in “Parlare da soli”, si trasferisce la morte sugli altri, pensa Elena, riflettendo sul fatto che non si debba negare la morte, provarci e vano, e la alimenta. E le parole di Garner si intrecciano alla protagonista di Neuman “Ciò fa sì che la pazzia si scontri con la nostra anima. Debilita la virtù. La rende sterile. E trasforma l’amore in una farsa. E non resta più nemmeno un abbraccio pulito. Qui ci ammaliamo tutti”.

La luce del sole diventa arrogante agli occhi di un malato. In un romanzo di John Banville quando ci sono malati in casa la luce fa rabbia, schifo. “Era come se ci avessero rivelato un segreto sordido, ripugnante, tanto da renderci quasi insopportabile la compagnia dell’altro, pur essendo incapaci di staccarci [..] Mario se n’è andato ma quella consapevolezza no [..] Da quel giorno tutto sarebbe stato finzione. Non ci sarebbe stato nessun altro modo di vivere con la morte”. Penso alle riflessioni di Virginia Woolf ne “Sulla malattia”, del 1926, allo stupore nell’assenza di questo tema a fianco ai grandi motivi della letteratura come l‘amore, le battaglie e la gelosia, “Qualunque ragazzina innamorata può contare su Shakespeare o Keats per dar voce ai suoi sentimenti, ma basta che il malato tenti di spiegare a un medico la sofferenza che ha nella testa perché il linguaggio si prosciughi di colpo. Non c’è nulla di pronto all’uso”.

Temi che ritornano anche in autori particolarmente cari a Neuman come Roberto Bolaño: “Scrivere sulla malattia soprattutto se si è gravemente malati può essere un supplizio. Ma può essere anche un atto liberatorio. Esercitare per qualche minuto la tirannia della malattia”. Curare un malato e crescere un bambino, riflette la protagonista di “Parlare da soli”, hanno in comune il fatto che ti trasmettono un’energia che non è la tua. “Maternità un buco nero, quel che ci metti dentro non basta mai e non sai dove va a finire“. E per elaborare quel lutto occorre a volte staccarsi dalle cose, come nel racconto a due voci “Juan, José”. Rimasto orfano, Juan fa i conti con quel dolore scegliendo di staccarsi dai luoghi legati a chi è scomparso.

Come afferma Bachelard, ci sono posti che sono un tempo. Neuman si avvicina anche alla morte come scelta volontaria, quella raccontata ne “La vasca da bagno”, che richiama il suicidio del nonno dell’autore. Nonostante il peso di temi forti, ne “Le cose che non facciamo” Neuman riesce a usare a tratti anche una sorta di ironia caustica, come nella descrizione del suicidio impossibile del suicida ridanciano. L’uomo prova a più riprese a togliersi la vita, ma ogni volta non riesce nel suo intento per l’euforia che lo prende quando l’arma cade sul pavimento e gli impedisce di premere il grilletto. “Non so di cosa diavolo rida la mia bocca. È un fatto inspiegabile. Per quanto io sia triste e la giornata mi sembri orrenda, per quanto sia convinto che il mondo sarebbe più vivibile senza la mia fastidiosa presenza, c’è qualcosa nella situazione, nel contatto metallico con l’impugnatura, nella solennità del silenzio, nel mio sudore che cade in gocce grosse come confetti, come dire, c’è qualcosa di indefinito che, mio malgrado, trovo terribilmente comico”.

17740976_783744748450888_1635243543_n

Le radici ispano-argentine di Neuman marcano in modo significativo il linguaggio e le sue scelte stilistiche, a partire dalla strada perseguita con i racconti che, sostiene, non hanno essenza ma solo abitudini. “Per tornare – si convince il protagonista de “Il viaggiatore del secolo” – , per essere convinti di dove ci si vuole fermare, come si fa a sapere che si è nel posto giusto se non lo si è mai lasciato?” L’Argentina che dà i natali a Neuman, che poi la lascerà per andare a vivere in Spagna, segnerà inevitabilmente il suo scrivere e quel pensare a tratti nella lingua dell’infanzia a Buenos Aires e a tratti nell’andaluso della sua Granada. Penso a Roberto Arlt, tra i maggiori autori argentini del Novecento, che ha saputo raccontare il suo Paese senza ipocrisie o immagini artefatte.

Penso alle parole di Julio Cortazar per definire certi scrittori che vivono una tale simbiosi con gli ambienti popolari dei luoghi d’infanzia che non riescono a fare a meno di focalizzarsi solo su di essi nei loro libri, al punto tale che qualsiasi traduzione, anche la più scrupolosa, non potrà che essere inevitabilmente approssimativa, per l’impossibilità di rendere quella trasmigrazione oltre la scrittura e i suoi temi. Arlt è riuscito a raccontare sulla Buenos Aires degli anni Trenta ciò che altri autori a lui contemporanei ignoravano. C’è un forte legame tra la scrittura di Arlt e quella di Neuman, non tanto nello stile o nelle tematiche, ma nell’intento di raccontare quella generosa mediocrità racchiusa nel mondo. Lo faceva negli anni Trenta Arlt nel raccontare il corpo della città, la metamorfosi che il Paese attraversa in quegli anni nelle sue Acqueforti di Buenos Aires, riscoperto solo recentemente e pubblicato nel 2014 da Del Vecchio, trasformazioni rese anche ne “I sette pazzi”, “Scrittore fallito” o “I lanciafiamme”, editi da Sur. E lo fa oggi Neuman con il suo affresco sul genere umano, a tratti ironico, a tratti grottesco.

Penso a “I mondi reali” di Abelardo Castillo, Del Vecchio, a quella deriva realista, rispetto ai precedenti fantastici, legata a una società degradata, violenta e vendicativa. La letteratura, secondo Castillo, non è altro un solo intricato universo fatto di tanti mondi. E nei suoi racconti si ritrova il suo tempo, gli anni Sessanta, raccontato con durezza, attraverso personaggi che rendono esattamente la deriva a cui stava assistendo. Ecco allora dove occorre cercare rifugio per Castillo: “I momenti più meravigliosi della vita reale sono i sogni. Per questo il mio libro si chiama I mondi reali, perché immagino che i sogni prendano parte della realtà“.

Le storie, i mondi, raccontati da Neuman, sono il pretesto per analizzare il suo presente, la poesia, il ruolo della scrittura, la traduzione. Si sofferma proprio sull’editoria nelle ultime pagine de “Le cose che non facciamo” sostenendo che per farla occorre grande vocazione e poca vergogna. E ironicamente parla del rapporto tra testo e traduzione e delle innumerevoli versioni che ne potrebbero risultare, attraverso il racconto “La macchina per tradurre poesie”, un gioco di rimpallo di versioni diverse della stessa poesia innescate dal suo autore. Quella poesia subirà metamorfosi tali da diventare qualcosa di molto lontano da ciò che era all’inizio. Ecco che allora il poeta arriva a una convinzione che appunta nel suo taccuino: “La poesia è decisamente intraducibile ma una poesia, prima o poi, sarà sempre traducibile”.

E in tema di traduzioni è doverosa una nota sul lavoro accurato di Silvia Sichel, che da anni si occupa della versione italiana dei libri di Andrés Neuman, sviluppando con l’autore un legame quasi simbiotico attraverso i testi. Lo stesso autore riflette a più riprese sul ruolo della traduzione, non solo nel racconto “La macchina per tradurre poesie”, ma in generale in ogni suo romanzo, dove inserisce estratti di libri significativi per i suoi personaggi traducendoli in spagnolo dall’originale o mediante lingue ponte. “Tutte le lingue sono un ponte. E tutte le poesie anche”. Come scriveva Axel Gasquet “la forza di una lingua non consiste nel respingere ciò che le è estraneo, bensì nel divorarlo”.

Ma cosa vuol dire scrivere? Da quale urgenza primaria nasce? Da Neuman a Cechov, alle lettere che l’autore russo scambiava con l’attrice Olga Knipper, in un rapporto da coniugi a distanza. In quelle righe il racconto di incontri futuri, di ciò che avrebbero fatto. Giungerà la morte di lui, ma non interromperà quel carteggio. Ci saranno le sue lettere postume a tenere in vita ciò che resta. “Se la morte interrompe il dialogo, niente di più naturale che scrivere lettere postume. Lettere a chi non c’è. Perché non c’è. Perché ci sia. Forse scrivere è questo”. La scrittura ci permette di parlare da soli.

QUI la prima parte dedicata a Andrés Neuman

(Recensione apparsa su Repubblica Parma, Letture di Alice Pisu, Libri. Parole e dintorni, del 19 dicembre 2016)

I libri di Alice: Andrés Neuman e la letteratura dell’addio (II parte)