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Il binario 3 della stazione di Modena è un’idea accettabile? (per una  serie di combinazioni mi ritrovo spesso lì ad aspettare o cambiare treni: mercoledì prossimo parto per Mantova e cambierò appunto a Modena, binario 3).

Più che accettabile, è un’idea originale e l’originalità, intesa anche come esuberanza ed effervescenza, è una nota spiccata della scrittura di Paolo Colagrande.

Immaginateci lì, sul binario 3 della stazione di Modena, per chiacchierare del suo nuovo romanzo, prima degli appuntamenti che vedranno Paolo Colagrande protagonista al FestivaLetteratura di Mantova: sabato 7 ore 14.30 con Doris Femminis (QUI il Chiacchierando con la scrittrice). Titolo dell’evento: La mia terra canta presso Auditorium Conservatorio Campiani.
Sabato 7 ore 21.30 con Adrian Bravi e Giuseppe Antonelli. Titolo dell’evento: Una lingua per ogni emozione sempre presso l’Auditorium Conservatorio Campiani.

 Se vorrete unirvi a noi, il divertimento è assicurato, misto a una buona dose di riflessioni che scardinano certezze e capovolgono pregiudizi, per aprire inusitati orizzonti del pensiero e della psiche.

La vita dispariCome già in “Senti le rane“, il romanzo precedente di Paolo Colagrande (di cui ho parlato QUI)  pubblicato per Nottetempo, anche in “La vita dispari” (Einaudi) finalista al premio Campiello 2019, ci troviamo di fronte ad una narrazione con un piglio del tutto originale che sempre di più è la caratteristica fondamentale della scrittura di Colagrande.

Non un semplice narratore a cui affidare il resoconto delle vicende, in questo caso la vita dispari del protagonista Buttarelli, ma una matrioska di voci su cui domina quella del narratore che interviene manzonianamente per focalizzare, mettere i puntini sulle i, ma soprattutto dimostrare l’inaffidabilità delle altre voci, che sono poi le sue fonti, in particolare quella dello zio, Wilmer Gualtieri.

La storia di Buttarelli sbanda un po’ nel finale e questo non per colpa mia. Cerco solo di mettere i fatti in processione con qualche sentimento e un po’ di carne sulle ossa, ma il problema sono le fonti: quella principale è Gualtieri, mio zio Wilmer Gualtieri detto Gualtieri, e già non è una bella partenza.

È inaffidabile la vita o lo sono solo i personaggi inventati da un narratore geniale come Paolo Colagrande?

PaoloColagrandeNessuna genialità, purtroppo, solo un disturbo del neuro-sviluppo: gioco per ore coi miei pupazzi, che poi si muovono nelle pagine, e a volte mi ci addormento in mezzo.

L’inaffidabilità è strutturale: è nella nostra chimica sgangherata di mammiferi costituzionalmente instabili, mossi dai neuroni della fame. Qualunque forma d’arte nasce dall’inaffidabilità di uno sguardo, di un pensiero, di un’idea passata di lì. Dall’incrocio di più voci narranti, nessuna capace di recitare una parte sensata, può nascere una storia coerente e verosimile, proprio perché non pretende di essere vera. La Vita dispari è affidata ad un narratore che si smarca subito da responsabilità: dice che il racconto sbanda nel finale e cita come fonte uno zio defunto, amico del protagonista, e altri due cialtroni, morti anche loro. E la trama si infittisce polifonicamente di menzogne.

Mi viene naturale raccontare così, mettendo in scena un cantastorie scriteriato.

L’alternativa sarebbe quella del narratore impersonale, nascosto dietro le quinte, educato e pedagogico, creato a immagine e somiglianza di Dio, che prende le cose molto sul serio – la tragedia, il bene, il male, l’amore, l’odio – senza sbavature ideologiche e con padronanza di corsivi, virgolette, passati remoti o presenti storici. Una voce in falsetto lirico, che però non calcola il rischio di collassare, come un intonaco da una parete che non lo tollera (o che non c’è). A volte lo uso, quel falsetto lì, per farmi la parodia (e farlo collassare). Le storie sono creature delicate: soffrono gli involucri, devono respirare, vogliono camminare per conto loro, raccontarsi da sole, perché ne sanno di più del narratore.  

 

Due figure fondamentali per Buttarelli sono la madre, la vedova Buttarelli, e il suo amico Fulgenzio. Il destino del protagonista  sarà  segnato e indirizzato da queste due personalità, che incarnano due sentimenti profondamente diversi tra i quali Buttarelli farà  una certa fatica a dimenarsi finendo poi per rimanerne impigliato come in una trappola letale.

La vedova e Fulgenzio incarnano anche un approccio, opposto e in contraddizione, alla vita di chiara matrice religiosa e spirituale, entrambe direttive di analisi che spesso si intersecano e intrecciano nei commenti e nelle riflessioni del  narratore di primo livello e degli stessi personaggi.

“Fulgenzio, diceva la vedova, bisogna capirlo, ha donato le sue sofferenze al Dio che conosce lui, quello dei gentili, quello sceso in terra, appeso a una croce di legno con dei chiodi, morto e poi risorto, e infatti i suoi consigli partono da lì, dal Dio risorto e dalla sua regola cristiana piena di pace, gioia, generosità, misericordia e altre situazioni a rischio. Insomma un Dio ottimista, molto umano e quindi un po’ dozzinale. E chi parte da quel Dio lì purtroppo parte svantaggiato. L’altro Dio invece, quello che ancora non è sceso in terra, ha parlato molto chiaro e ha fatto un programma ragionato che dobbiamo tenere a memoria per non sbagliare strada: ti ridurrò a un deserto, ci ha detto amorevolmente, sarai un obbriobrio e un vituperio, un orrore per le genti che ti circondano, ti manderò la fame e le belve per distruggerti i figli, in mezzo a te passeranno la peste e la strage, e poi alla fine anche la mia spada. Ecco, scriveva la vedova, questo è il programma che ha fatto Dio per il popolo eletto, ed è da queste belle parole che dobbiamo partire, con serenità: e tutto quello che arriva è grazia.”

A questa riflessione della vedova risponde il riepilogo del narratore:

“Pare che il soffrire sia un capitale monetizzabile in benevolenza divina, perché a Dio piace ricevere in dono le sofferenze degli uomini. Un passaggio oscuro, che la religione cristiana spiega così: il dono della sofferenza è un gesto compensativo verso Dio il quale, offrendoci la sua croce, si è fatto carico della nostra. Ho sintetizzato molto. Ma il ragionamento si imbroglia nella sua stessa sintassi, perché se l’Onnipotente, salendo in croce, si fosse fatto carico della sofferenza dell’uomo, a quest’ora l’uomo non soffrirebbe. Siccome invece l’uomo soffre, viene da pensare o che Dio si sia per così dire sovresposto in programmi affrettati e velleitari (e del resto parliamo di un uomo sulla croce, non seduto dietro una scrivania), o che il discorso sia viziato da una grossolanità tipica degli uomini. Propenderei per la seconda: il genere umano si è inventato questo dogma per compensare il proprio stato di inferiorità e cercare di chiudere la partita in pareggio – che è poi la sua segreta aspirazione da sempre, anche prima che inventassero il calcio. Lo stesso pareggio calcistico non è che il superamento di un’ossessione binaria: quella del vantaggio e dello svantaggio, della competizione e della compensazione, della gioia e della sofferenza, delle linee di discrimine, per cui ogni concetto deve presupporre un suo opposto o contrapposto.

Un grave errore di metodo. Perché in realtà tutto è già confuso all’origine, gli opposti non esistono: il buono e il cattivo, il diavolo e il santo, la sofferenza e la gioia sono tinte di uno stesso quadro, visuali diverse di uno stesso paesaggio. Ma il cervello non lo capisce: si è organizzato nell’equivoco della divisione, della demarcazione, e quindi del pareggio; e non torna indietro.

Il pareggio è per sua natura doppio, falso, lo status quo, l’insieme vuoto che equivale a zero e che lascia un mondo irrisolto, insieme a uno strascico di dubbi che generano nuova sofferenza. La vita in pareggio è un concetto finto, commercialistico.

È giusto specificarlo ora e qui, tra parentesi, senza pretese dottrinali, come traccia e come provvisorio riepilogo. Chiusa la parentesi.”

Tutta colpa di Dio o degli uomini? Concordi con il narratore che questa sia una parentesi o invece la definiresti un fondamento e un necessario corollario della vicenda di Buttarelli?

PaoloColagrandeIl narratore le chiama parentesi, per tenere il taglio basso. Ma sono delle imboscate pericolosissime, dense di ideologia, dove casca perfino Dio con tutto il suo apparato. In quella specifica parentesi il narratore gioca con un paradosso: l’uomo che deforma e strumentalizza un dogma che lui stesso probabilmente ha inventato.

La crisi di confine fra due religioni in conflitto radicalizza il senso di intolleranza di Buttarelli per le linee verticali. In ogni momento della sua vita si troverà a fare i conti con due figure di Dio: quello ebreo, severo e poco confidenziale, tendenzialmente punitivo, con 613 precetti; e quello cristiano, caritatevole, compulsivamente misericordioso, con soli 12 comandamenti e qualche slancio di ottimismo giovanile. Buttarelli teme il primo, il Dio della sua stirpe, e diffida del secondo, così  dozzinale da essersi fatto uomo. I consigli della madre sono sempre proiezioni di quella stessa paura, da cui è bene smarcarsi evitando situazioni a rischio. Fulgenzio, compagno della Vedova ma cattolico osservante e con un (millantato) passato avventuroso, predica invece la dottrina dello stare al mondo ai limiti della santa legalità cristiana, da cui ogni tanto si può sbandare senza conseguenze: perché il Dio della croce di legno perdona praticamente tutto, tranne forse la negazione di Dio stesso, ma forse perdona anche quello.

Della religione Buttarelli assimila solo la parte oscura e tumultuosa, quella che ingombra la coscienza di dubbi, timori e sensi di colpa. Il tema teologico diventa un’altra mina inesplosa sul suo cammino.

Per rispondere all’ultima parte della domanda con la stessa voce del narratore direi che la colpa – la colpa generica, quella che sente Buttarelli sulla pelle ma che attinge ai misteri universali –  è distribuita concorsualmente fra l’uomo e Dio.

L’uomo è colpevole per inettitudine congenita, e per quella presunzione di onnipotenza che gli deriva dall’essere stato creato ad immagine e somiglianza di un Dio che, in fondo, agisce sempre per approssimazione: crea l’uomo, lo mette sul pianeta sbagliato, cerca di sterminarlo ma poi lo salva, boicotta la torre di babele per creare incomunicabilità. Sull’incomunicabilità può crescere solo un mondo storto, discontinuo, pieno di divisioni e malintesi. Forse, dice il narratore, Dio è un artista: “il continuo, il definitivo non dialogano con l’arte. Cosa sarebbe stato il mondo ridotto a una torre dove tutti dicono le stesse cose? Il mondo ha bisogno di collisioni e intermittenze, insieme a momenti di vuoto. Se tutti parlano uguale nessuno dice piú niente”.

 

Impossibile tirare le somme e le fila della narrazione, perché come in “Senti le rane” non è il plot narrativo a dare il passo alla narrazione ma piuttosto le digressioni, le innumerevoli riflessioni, le notazioni filosofiche ed esistenziali, tutte tenute insieme dall’ironia matura, piena, consapevole che è il filo conduttore e dominante dell’incedere narrativo. 

Non è quinti la vicenda esistenziale di Buttarelli a tracciare la trama del romanzo, ma tutto quel coacervo di riflessioni e meditazioni che da essa prendono spunto e si irradiano fino a creare un mondo di idee e di concetti. 

Ma se dovessi indicare il nocciolo duro da cui muovi i fili della narrazione, lo rintracciarei in questo momento di riflessione sui sogni:

“Si sa che la perdita di un sogno a volte è peggio della perdita della realtà, perché la realtà rappresenta il presente, con il passato a rimorchio, ma i sogni sono il vero investimento. Una volta bruciati i sogni si rimane con quattro cianfrusaglie, perché chi ha smarrito il sogno vede intorno a sé solo cianfrusaglie e si demoralizza.”

Non è questo il dramma di Buttarelli? La mancanza di un sogno nella prima parte della sua vita, e la perdita di esso nella seconda?

PaoloColagrandeDall’esterno forse è un dramma. Per Buttarelli è una condizione fisiologica, o se è un dramma non è di segno tragico, almeno fino a quell’imprevedibile inversione di rotta dove l’amico Bioli, anarchico incompreso, diventa motore decisivo della storia, senza saperlo. Prima di quel momento il sogno non è nel suo lessico: la vita, pur nei suoi cambi (e colpi) di scena, è un quadro biologico coerente, una macchina difettosa ma marciante. Poi, all’improvviso, c’è una memoria che pretende attenzione, comincia a riemergere, a riepilogarsi, e allora il sogno prende i contorni di un’esistenza possibile. Che sia una consapevolezza tardiva è un’ipotesi che consegnerei al lettore, veda un po’ lui cosa farne: è la pagina pari, da inventare.

Le digressioni sono parte dinamica e funzionale della trama, la sua parte plastica, come le metafore, ma le metafore (che non uso quasi mai) si affidano a simulazioni, figurazioni sintetiche, già viste e verificate, repertoriabili: le digressioni invece attingono alla vanvera irripetibile di una voce narrante, pescano da una palude di esperienze sue, vere o immaginarie. Un’apparente virata dal contesto vale molto di più, in termini narrativi, di una descrizione dettagliata (cioè illeggibile). Se descrivo uno stato d’animo va a finire che lo traviso; se uso una digressione – sotto qualunque forma – lo metto in scena senza neanche nominarlo, libero di esprimersi, agitarsi, respirare.

L’importante è che la vanvera rientri, e lasci spazio alla storia. In “Senti le rane” c’era una trama fortemente digressiva perché sulla scena si muovevano, a fianco dei personaggi, due narratori in competizione, addirittura in lite. “La vita dispari” è invece un romanzo dove le digressioni corrono insieme a una trama complessa che insegue i personaggi, cioè la carne pulsante della storia.

Credo, da lettore, che storia e trama siano essenziali e non rinunciabili; ma alla fine sono i personaggi, con i fatti loro ma anche tutto il loro impianto di difetti, sogni, drammi e inciampi, a stimolare i tuoi circuiti emotivi, a muovere i recettori e le sinapsi per diventare soggetti vivi di un tuo immaginario che va oltre le pagine. I personaggi non sono strumenti di un plot, casomai – ma non garantisco niente – viceversa.

 

I problemi di Buttarelli cominciano a scuola e nascono da una caratteristica: non riesce a leggere le pagine dispari ma sono quelle pari.
La scuola non è preparata a questa sua particolarità, anche se la sua “fortuna” sarà quella di incontrare sulla sua strada, fortuitamente, una maestra che, scevra da ogni pregiudizio, riuscirà ad escogitare per lui una soluzione che lo accompagnerà per tutta la vita, consentendogli di arrivare alla laurea.
Con il tuo solito piglio affabulante e ironico, tracci una dura requisitoria contro certi metodi di insegnamento e un certo tipo di scuola e di docenti, incarnati emblematicamente nella Direttrice della scuola elementare: Maribel.
Era funzionale alla narrazione o intenzionale l’attenzione che hai voluto prestare alla scuola in “La vita dispari”? La vita comincia ad essere dispari tra i banchi di scuola, dove più che in altri contesti si dovrebbe mirare e non solo aspirare alla parità?

PaoloColagrandeNon c’era, a dire il vero, un’intenzione di denuncia, né di polemica. La scuola è un passaggio obbligato, nella vita reale e nella finzione di un racconto che comincia proprio da quella fase incongrua, piena di trabocchetti, mostri e folletti confezionati dagli adulti, che è la preadolescenza. La scuola elementare di Buttarelli ricalca un modello pedagogico risorgimentale, praticato fino agli anni sessanta grazie all’onda lunga del libro Cuore, dell’uomo vitruviano, dei concili ecumenici e di una contaminazione tattica fra metodo Montessori e certe scorie sociobiologiche di ispirazione darwiniana: le metodologie partivano dal dato selettivo anatomico-ortopedico della colonna vertebrale, che doveva essere dritta, come garanzia di integrità fisica e come metafora di affidabilità morale, autocontrollo, responsabilità e vocazione civica. Un fallimento su tutti i livelli: proprio a quel modello si fa risalire, in stretto rapporto causale, tutta una gamma di patologie al rachide cervicale (scoliosi, lordosi, cifosi) e una generazione di parlamentari che si è imposta negli anni novanta e che ha fatto a sua volta scuola.

Diciamo che il mondo scolastico di Buttarelli è uno stereotipo dove affiora una specie di autoparodia involontaria: quindi non c’è bisogno di critica o denuncia, basta metterla in scena. 

Non escludo però che in questo passaggio del romanzo esca un sonorità stridula, da autobiografia inutilmente repressa: sono sempre stato un cattivo scolaro e, anche se anagraficamente più giovane di Buttarelli, ho frequentato scuole severissime, oltretutto sempre in anticipo di un anno abbondante: ho iniziato il ginnasio quando avevo appena compiuto i tredici anni e il mio sviluppo psicofisico era ai limiti del rachitismo e del ritardo mentale. Ho sempre avuto postura lordotica, sociopatologie varie, disturbi di autostima, tendenza all’ulcera gastrica e alla malinconia. Non ho mai superato la paura della scuola: “non c’è niente che faccia più paura della scuola” dice il narratore e io sono d’accordo. Ancora oggi provo terrore di fronte a certi palazzi.

È però una tara mia, fortunatamente non trasmessa ai figli che vivono in un evo pedagogicamente più maturo. Il rischio che la vita dispari possa iniziare dalla scuola credo che oggi non ci sia più. I modelli didattici dell’istituto Dioscoride Polacco sono estinti. Di sicuro ci sono ancora molti problemi, ma mi pare di poter dire che la scuola è oggi l’unico contesto in cui si realizza, o si cerca con tutte le forze di realizzare, grazie agli insegnanti e non ai ministeri, la parità. E non è un compito facile: più facile, e più comodo, discriminare.

 

Siamo giunti all’ultima domanda.

… a pensarci bene c’è dentro molto surrealismo, ma del resto il mondo stesso è surrealistico, soprattutto quando la gente decide di parlarsi per capirsi.

Possiamo dire che è questa la chiave della tua poetica di narratore, da cui muove i passi la tua istrionica ed effervescente affabulazione? 

PaoloColagrandeBellissima ultima domanda.

Il malinteso è il vero motore creativo del pianeta. Se tutto fosse comprensibile, preciso, univoco, non ci sarebbe più niente da inventare: vivremmo in quell’armonia stabile e rettilinea che perfino le religioni predicano come contronatura, infatti la collocano nella sfera ultraterrena, prerogativa dell’onnipotente. Quando ci sforziamo di capire a tutti i costi, e costruiamo maldestramente la macchina della comunicazione con gli stessi pezzi di assemblaggio dell’incomunicabilità – che è genetica, costitutiva e quindi ineliminabile – affondiamo in quella palude surrealistica che, anche se non vogliamo, nasconde la nostra radice più preziosa.

La letteratura si nutre di equivoco, di scordature. Non mi piace immaginare il mondo come un’orchestra sinfonica eccellente, preferisco rappresentarlo per quel che è: una banda stonata di paese, un po’ malinconica, con suonatori buoni mischiati a suonatori pessimi, parti mal sovrapposte, strumenti mal accordati, molte stecche. Un effetto di insieme che smarca l’equazione celeste ed entra nella disequazione umana, dove prevale il misto, l’impuro, l’arrangiato che funziona per caso, e per caso fa anche ridere.

Bisogna che quel suono si senta, fra una parola e l’altra.

Chiacchierando con… Paolo Colagrande