di Andrea Cabassi

INDAGARE I LUOGHI OLTRE LA LORO EVIDENZA

Recensione al libro di Mauro Francesco Minervino

Viaggio al Monte Analogo. Monte Cocuzzo. La montagna-arca.

Paul Cézanne dipinse il Mont Sainte – Victoire ripetutamente. La sua scelta non fu dettata da una nevrotica coazione a ripetere, ma da una necessità di studio che partiva dal rapporto tra identità e differenza: partire dallo stesso monte e cogliere differenze anche minimali: di gradazione, di colore, di prospettiva. Alla ricerca dell’essenza, del senso profondo non solo di quel monte, ma anche della Natura, dell’esistenza tout court.

Non ho mai visto il monte Cocuzzo in Calabria, ma dalle fotografie che ho potuto guardare con curiosità e grande interesse ho trovato una impressionante somiglianza con il Mont Sainte-Victoire. Sembrano gemelli. Forse anche questo monte calabrese che si erge di fronte alle Eolie contiene in sé un senso che lo trascende. Per comprenderlo, per afferrarlo, bisogna passarvi attraverso.

Tutto questo mi è venuto alla mente mentre leggevo lo straordinario libro di Mauro Francesco Minervino “Viaggio al monte analogo. Monte Cocuzzo. La montagna-arca” (Oligo 2023). Un libro davvero straordinario che va sfogliato, letto e riletto, meditato; un libro che si apre con un  apparato fotografico in cui il Monte Cocuzzo e il Mont Sainte-Victoire sono messi a confronto: davvero sembrano gemelli; un libro che narra, dal punto di vista antropologico, etnologico, autobiografico,  di questo picco di rocce dolomitiche elevatosi in tempi remoti di fronte alle Eolie, sulle sponde tirreniche del mare dell’Odissea. Formazione geologica dell’appennino calabrese si staglia sull’orizzonte come una grande piramide, in tutto simile, come già si diceva più sopra, al Sainte-Victoire. Un territorio aspro, selvaggio, attraversato da corsi d’acqua che hanno nomi importanti come l’Acheronte, costellato da villaggi abbandonati sorti da un’antica strada carovaniera che congiungeva la mitica Pandosia al porto tirrenico di Temesa, città greca ricordata anche da Omero nell’Odissea. Una montagna-arca, un luogo dove pullulano miti e superstizioni, un luogo di narrazioni letterarie e di ricerche etnografiche, un luogo di grande bellezza. Un libro che è l’ideale continuazione del reportage realizzato dall’autore per il programma di Rai Radio 3 Le Meraviglie (26 dicembre 2020).

Ma chi è l’autore, Mauro Francesco Minervino? Professore di Antropologia Culturale e Etnologia. Tra i suoi libri, La Calabria brucia (Ediesse 2008), Premio Internazionale Fondazione Carime per la Cultura Euromediterranea 2009; Statale 18 (Fandango2011; Stradario di uno spaesato (Melville 2017. Ha curato e tradotto il libro di George Gissing, Verso il Mar Ionio. Il Sud di un vittoriano (Exòrma 2023). Ha vinto il Premio Internazionale di Filosofia Karl-Otto Apel 2014 e il Premio Nazionale Umberto Zanotti Bianco-Italia Nostra 2022. E’ autore di programmi per Rai Radio 3, Rai-Libro e Rai Educational, come 42° parallelo – Leggere il ‘900, Babele-Magazine e Le Meraviglie. Collabora alla redazione della rivista “Nuovi Argomenti” ed è editorialista del “Corriere della Sera” – Corriere.it” su cui tiene la rubrica di commenti antropologici e approfondimenti culturali Minimi Tropici.

Prima di addentrarmi nell’analisi del testo un cenno al titolo: “Viaggio al monte analogo”. Il monte analogo è un chiaro riferimento al libro di René Daumal “Il Monte Analogo”, uscito per Adelphi nel 2020 in una nuova edizione riveduta e ampliata. Io lo lessi verso la fine degli anni 80 nella vecchia edizione. Fu un libro che mi colpì molto, mi colpì molto la concezione dell’alpinismo come liberazione della persona dai suoi limiti, mi colpì molto l’idea che questa liberazione avrebbe portato a rivedere tutto il nostro mondo interiore. Del resto esplorare i luoghi dell’anima è indagare i luoghi oltre la loro evidenza, è cercare di comprendere le nostre più profonde risonanze interiori, interrogarci su questo. Sapendo che non c’è una risposta. Sapendo che la cosa più importante è il movimento di questo interrogarsi. E che questo movimento, quando diventa scrittura, può essere una scrittura fortemente poetica. Come succede a Minervino quando contempla, interroga, riflette sul paesaggio intorno a lui, quel paesaggio su cui si erge il Monte Cocuzzo, vero Monte Analogo, vero luogo dell’anima, forse genius loci:

“Per me monte Cocuzzo resta semplicemte una delle montagne più belle del mondo, la montagna della vita, un punto archimedico su cui poggio il mio sguardo sul mondo, come per Cézanne lo fu la veduta del suo monte Sainte-Victoire da Les Lauves, in Provenza. E’ la montagna della vita, un principio che si rinnova in cammino, un santuario della coscienza che si apre al mondo, un sestante per il mio, il dromo che orienta e fa da sestante alla mia navigazione” (Pag. 35-36).

Luogo archetipico dove la memoria è una memoria immemoriale, dove si ha l’impressione di essere a un passo dallo scoprire il senso di ogni cosa:

“Ormai sono anni che scruto il mio monte della vita alla ricerca di un senso che mi contenga, allo stesso modo in cui Cézanne pose per centinaia di volte il suo cavalletto di fronte alla mole densa di gradazioni della montagna Sainte-Victoire, consapevole dell’inevitabile relazione di incertezza e di sorpresa determinata dal suo nuovo punto di vista nell’osservazione di quella magica evidenza della natura.

Nell’uno e nell’altro caso contano la forza dell’osservazione, la costanza dello sguardo, un certo allenamento a indagare il luogo oltre la sua evidenza.

Anch’io ho nel Cocuzzo, come Cézanne, il mio monte analogo, la mia montagna essenziale, il mio vertice dell’anima, il mio axis mundi, e anch’io non ho mai smesso di dipingerla a memoria, e di raffigurarmela a mente e di riscriverla a modo mio la mia montagna. Montagna sacra, luogo di culto personale e collettivo intriso di leggende e di miti, memorie antiche e tradizioni, e non meno di particolarità naturali e geologiche e determinanti storiche” (Pag. 42-43).

Questi luoghi archetipici sono anche quelli che possono riempire l’anima di promesse, rimpianti, nostalgie che rimandano ad un altrove indefinito:

“Guardo quella cima aguzza contro il cielo notturno e mi sento attratto da una tempesta vorticosa di promesse, rimpianti e nostalgie” (Pag. 45).

Una pagina, questa di Minervino, che mi ha fatto tornare alla mente Baudelaire e le sue nostalgie di paesi ignoti, che mi ha fatto tornare alla mente un brano del libro di Jean Starobinsky “L’inchiostro della malinconia” (Einaudi 2014).

Scrive Starobinsky:

 “Se si mettono a confronto i vari impieghi fatti da Baudelaire della parola ‘nostalgia’, ci si avvede come ciò sia avvenuto al fine di renderla paradossale, grazie a una formula rovesciata ripresa più volte. Le fa scrivere un desiderio particolarmente intenso, un’aspirazione non rivolta verso il passato, ma verso l’ignoto, verso le lontananze. Baudelaire legge così negli occhi di Delacroix ‘un’inspiegabile nostalgia, qualcosa come il ricordo e il rimpianto di cose sconosciute’ (‘une nostalgie inexplicable, quelque chose comme le souvenir et le regret des choses non connues’ in Oeuvre Complètes Gallimard 1975-76 vol. II. Pag. 760 ). La versione in prosa di Invito al viaggio (Spleen de Paris) evoca a sua volta ‘la nostalgia di un paese mai visto (Cette nostalgie du pays que l’on ignore’)” (Pag. 247)

È quello che proviamo quando siamo immersi in un paesaggio che ci sovrasta, che ci fa provare sensazioni spesso inafferrabili e ineffabili, vertigini nel gioco di finitudine e infinito.

Scrive Minervino:

“Una vertigine purissima, senza angosce, che potrei anche invocare come un’ebbrezza della finitudine, una debolezza senza recriminazioni. Ci si rende conto della propria debolezze e invece di resisterle, ci si vuole abbandonare a essa, senza più resistenze o bugie. E come se da lì in alto, davanti a quell’orizzonte che si schiude infinito allo sguardo e si allarga a dismisura sino ai confini di un oltremondo, proprio il mondo intero potesse tramontarvi e insaccarvisi del tutto alla fine del giorno” (Pag. 50-51).

Anche queste sono pagine bellissime. Da leggere, rileggere, centellinare. Pagine sulle quali riflettere e riflettere sulla propria esperienza. Penso ai giorni in cui contemplavo il mare dagli scogli in Bretagna da quelle fine della terra che era Finistère; penso ai giorni trascorsi a osservare da lontano il Tago che confinava con il mare per confondersi, poi, con esso; penso al sentimento della finitudine che provavo vedendo l’orizzonte infinito, un magone grande e bello e, nello stesso tempo sentirsi smagati per aver accettato la nostra debolezza e i nostri limiti, per esserci abbandonati alla Natura imponente.

Ci sono altri capitoli del libro davvero molto belli – senza dimenticare la parte finale che è un antologia che attraversa il tempo, composta da scritti di scienziati, etnologi, scrittori – come quello intitolato “I misteri della montagna. Giufà, il monte Cocuzzo e il mare”. Dove si parla appunto, partendo da dati autobiografici, dei misteri della montagna, del personaggio popolare che è presente nella narrativa tradizionale di numerosi popoli del Sud meridiano, Giufà, figura tipica di eroe-antieroe. O ancora quello dedicato ai villaggi abbandonati di monte Cocuzzo. O ancora quello intitolato: “I paesi del pane e il silenzio”. Dove ci sono evocative descrizioni di forni e panifici, dove consiglio ai lettori di abbandonarsi alle sinestesie:

“Una ciambella che sembrava impastata dalle nuvole di maggio e intinta nella rugiada, baciata dal vento della fame d’amore, un pane che così delizioso e lieve non ho mai più mangiato. Quando sono solo in macchina da queste parti mi succede sempre di riempirmi la bocca di ricordi; sento il bisogno di masticare un pezzo di pitta” (Pag. 85).

E, allora, ecco i miei di ricordi che si mettono in moto. Rammento quando, da bambino, io che ho sempre amato il mare, andavo, con grande piacere, sulle montagne del mio Appennino, così diverse da quelle dell’Appennino calabrese. Ho un ricordo vivido più del profumo del pane che dei paesaggi perché il profumo del pane era il paesaggio. Sono i profumi, gli odori, i colori che evocano il paesaggio, che diventano il paesaggio.

Ancora una volta chi mi legge potrà constatare come le pagine di Minervino suscitino non solo riflessioni, ma anche rammemorazioni che covavano, latenti, nell’autobiografia. E questo può essere uno dei modi di accostarsi a quel piccolo e prezioso gioiello che  è “Viaggio al monte analogo”. Del resto ognuno di noi ha, forse,  il suo simbolico monte analogo, ognuno di noi può cercarne “la porta” tenendo conto che, come diceva René Daumal “la porta dell’invisibile deve essere visibile”. Qualcuno potrebbe obiettare che, nel discorso di Minervino, dal forte potere evocativo, potrebbe celarsi l’insidia della idealizzazione di un luogo, di un popolo, di un modo di vita sopravvissuto al disincanto del mondo. Non è così. Minervino ha ben presente le fatiche della gente che quei luoghi ha abitato, che, in quei luoghi, ci ha, con fatica, lavorato. È che la Natura che ha descritto con rigore e poesia, è una Natura da cui gli dei non erano ancora fuggiti.

Lo Scaffale di Andrea: Viaggio al Monte Analogo