di Andrea Cabassi

AMORE, MORTE E MALINCONIA A SALAMANCA

Recensione al libro di Riccardo Ferrazzi

Modus in rebus (Morellini)

Quando il sole è cocente e il caldo soffocante, nell’ora meridiana le ombre si assottigliano fino a scomparire. È l’ora  in cui compaiono i demoni, i demoni meridiani così ben descritti nel libro omonimo da Roger Callois (Bollati Boringhieri 1988). È l’ora in cui è sconsigliato stare all’aperto perché fuori non ci sono sporgenze alle quali aggrapparsi, spazi che ci accolgano, come un ventre materno, e ci proteggano.

“Qui non esiste l’ombra. A perdita d’occhio tutto è tagliato a fil di terra, l’aria cuoce sotto il sole e sa di paglia e polvere. La Castiglia è un’incudine arroventata. La strada affonda in una pianura che ha il colore del grano trebbiato e si inoltra fino al limite dell’infinito, dove il cielo è una lama che cade a picco e trancia l’orizzonte. Ho sempre pensato che laggiù tutto finisca di colpo, sull’orlo di un burrone” .

Questo è l’incipit (Pag.13) – ma su incipit e prologhi tornerò più avanti – del bellissimo e perturbante romanzo di Riccardo Ferrazzi “Modus in Rebus” (Morellini 2023).

Perturbamento, inquietudine, forse demoni meridiani e notturni che compaiono nella terra di Castiglia.

Modus in rebus.

Perché questo titolo? A cosa si riferisce?

Nelle Satire  Orazio scrive:

“Est modus in rebus sunt certi denique fines, quos ultra citraque nequit consistere rerum” (I 1 106-7).

Che può essere tradotto così:

“Esiste una misura nelle cose, esistono determinati confini, al di là e al di qua dei quali non può esservi il giusto”.

Esiste, dunque, una misura nelle cose. C’è, quindi, una dismisura nel romanzo che andrebbe bilanciata dalla misura? C’è una dismisura, nel paesaggio, nella terra di Castiglia, nella meseta, nella sierra da cui bisognerebbe fuggire? I personaggi del romanzo sono portati alla dismisura e l’appello alla misura è un tentativo di contenere le loro azioni, i loro sentimenti?

Prima di proseguire oltre qualche cenno biografico sull’autore.

Riccardo Ferrazzi vive a Milano. Ha pubblicato “Il magazzino delle alghe (Eumeswil 2010), un’antologia di racconti curata da Marino Magliani  Ha pubblicato tre romanzi “Cipango” (Leone Editore 2013) dove mescola realtà e congetture sulla scoperta dell’America e con cui ha vinto il Premio Fiorino d’argento 2015; “N.B. Un teppista di successo” (Arkadia 2018) dove racconta la storia di Napoleone ; “Il Caravaggio scomparso. Intrigo a Busto Arsizio”(Golem Edizioni 2021). Ha pubblicato un libro a quattro mani con Marino Magliani, “Liguria, Spagna e altre scritture nomadi (Pellegrini 2015) e due saggi: “Noleggio arche, caravelle e scialuppe di salvataggio. Breve discorso sul mito” (Fusta 2026), e “Premonizioni. Punti di contatto tra umano e divino nell’antichità” (Oligo 2023). Ha tradotto Mark Twain, Garcia Lorca, Blasco Ibanez, Haroldo Conti e tanti altri autori di lingua spagnola in collaborazione con Marino Magliani.

Ma di cosa parla questo romanzo che ha un titolo in latino che è una citazione di Orazio?

Salamanca è il centro di tutto. Salamanca città universitaria, barocca e romana. Salamanca e le sue strade che è al centro di ogni mistero. Vittorio Fabbri si trova a Salamanca insieme ad amiche e amici di quella città quando viene ucciso un prete, don Agustin. Dopo l’omicidio il comportamento degli amici, Miguel Angel – attratto dai tori, dai discorsi sulla morte, dalla morte – Javier, Fernando, la bellissima, affascinate, enigmatica e sfuggente Maite – che Vittorio ama di un amore profondo, forse il grande amore della vita, strano, disperato – cambia togliendo a Vittorio ogni riferimento, ogni certezza. A vent’anni di distanza Maite è diventata un’ossessione e Vittorio torna a Salamanca per cercarla. Rientrerà, senza certezza alcuna a Milano dove verrà coinvolto in altre due morti e in uno strano mistero letterario, dove comparirà Bianca, che, per il suo modo d fare e le tracce che lascia, potrebbe essere Maite. Tra dubbi, sospetti, una realtà che sembra nasconderne altre, una cosa è certa: Salamanca assurge a protagonista anche quando il romanzo è ambientato altrove. Ha ragione Marino Magliani quando scrive, nella quarta di copertina, che se a Robert Burton – il noto autore di “Anatomia della malinconia” – venisse in mente di rappresentare oggi la nuova malinconia barocca sceglierebbe Salamanca, una città impregnata, allo stesso tempo, di istinto di morte e di luce castigliana e, aggiungo io, di demoni notturni e demoni meridiani.

Ci sono diversi registri narrativi in questo romanzo denso e intenso, con interessanti riferimenti letterari e filosofici. Corrispondono alle parti in cui esso è suddiviso.

La prima parte è ambientata tra Madrid e Salamanca, soprattutto Salamanca :

“Cosa cercavo a Salamanca? A Madrid l’avventura sta dietro a ogni finestra: a volte scende in strada e ti segue per un tratto. Ma io, appena possibile, correvo verso il tramonto fino a scorgere in lontananza la mole della cattedrale e la sua torre, un faro sullo scoglio dove si infrangono le onde di pietre della meseta.

Nel mare della Castiglia, Salamanca è un’isola sull’orizzonte, una scultura colossale che nasconde un messaggio indecifrato nei massi grigi del ponte romano, nei blocchi di pietra rosa della Plaza Mayor, nel selciato della viuzza che tutti conoscono come la calleja e che anch’io, salmantino di adozione, frequentavo, partecipando al rito dell’aperitivo” (Pag. 27-28).

In questa parte il registro narrativo è drammatico e sfocia nel tragico, segnato com’è dall’omicidio di don Agustin, dal sofferto amore di Vittorio per l’enigmatica e sfuggente Maite, dagli strani comportamenti degli amici e della polizia che è ancora franchista. A Vittorio sembra sfuggire la presa sul reale, ha come l’impressione di bordeggiarlo. Parlavo più sopra dei demoni meridiani, ma ci sono i fantasmi notturni della mente, demoni che assillano nelle notti salmantine, porte che si aprono sul buio e il mistero, porte come bocche. Quasi a simbolizzare tutto ciò, non a caso, ad un certo punto, viene citato un verso dal 1° atto de “La vida es sueno” di Calderon de la Barca:

“La puerta

mejor dirè funesta boca, abierta

 esta y diesde su centro

 nace la noche, pues la engendra entro”

Che  Ferrazzi traduce così:

La porta,

o meglio la finestra bocca, aperta

sta e dal suo centro

esce la notte che si porta dentro” (pag.22)

E La meseta, fuori dalla città, si presenta come qualcosa che è oltre misura:

“… la meseta è immensa, sproporzionata, tragica: è una sconfinata vastità rosa di argilla, sassosa come il letto di un fiume, punteggiata di arbusti. Il cielo è così alto che non dà l’illusione di essere un tetto e guardare in su è come stare tra le quattro mura di una casa diroccata, scoperchiata, alzare gli occhi e pensare: oh Dio!” (Pag. 63) 

E più avanti:

“E di nuovo la notte, il buio, la solitudine. Oltre il ciglio della carreggiata il vuoto fagocita arbusti e paracarri, e incupisce dove muore la luce dei fari. La strada corre lungo un ponte sospeso, esce dal buio e scompare nel buio. In tutte le direzioni c’è soltanto il nulla.

Ma che assurdità, Vittorio! Il nulla non esiste. Ricomincia da capo.

                                                                        °°°

Est modus in rebus. C’è una legge della natura. Ci sono limiti oltre i quali non si può essere nel giusto” (Pag. 79- 80).

Da queste pagine promana un fascino inquietante, perturbante, di un’inquietudine che sembra qualcosa di tattile, qualcosa di spesso e che strega il lettore. Come stregano il lettore la figura di Maite e quella di Vittorio, preso dai presagi e dai rimorsi.

C’è una stratificazione della temporalità sulla quale vale la pena soffermarsi. C’è il tempo della narrazione, ma c’è anche il tempo di quanto è accaduto venti anni prima. Poi c’è una ulteriore temporalità che sposta tutto, anche le parti successive del romanzo. Prima che inizi la narrazione di Vittorio, ci sono tre pagine in corsivo dove, presumibilmente, è Maite che parla. È un prologo in cui Maite racconta di Vittorio quando tutto è già avvenuto ed è fuori dal tempo della narrazione di Vittorio. Racconta in modo allusivo e bisognerebbe rileggere questo prologo dopo che si è finito di leggere il romanzo.

La seconda parte è ambientata a Milano e qui il registro narrativo preminente è quello ironico della commedia, anche se ci sono slittamenti verso il drammatico e il tragico. In fondo anche qui ci sono due morti, quella del libraio Sergio Viganò di cui Vittorio è diventato socio, quella dello scrittore Giordano Bruno Turchetti a cui è misteriosamente scomparso un manoscritto. In questa parte siamo proiettati in un eccentrico mondo letterario dove ci sono collettivi anonimi che scrivono, dove le polemiche e le accuse sono molto feroci, dove le presentazioni dei libri sembrano un happening, dove l’ispettore che indaga si chiama Soriano e non può non ricordarci il grande scrittore sudamericano Osvaldo Soriano, dove un collettivo di scrittori si chiama Tristero, che è una citazione dal romanzo di Thomas Pynchon “L’incanto del lotto 49” in cui Tristero è un sistema postale alternativo. Il romanzo di Pynchon è citato esplicitamente. E sarebbe interessante prenderlo in mano mentre si legge quello di Riccardo Ferrazzi. Si potranno trovare assonanze, dissonanze, risonanze. Perché queste pagine di “Modus in rebus” sono, in gran parte, metaletterarie. Beninteso, non solo metaletterarie perché sono in stretta continuità con quelle della prima parte. La Spagna, Salamanca sono sempre presenti nella mente di Vittorio. Lo è anche Maite che, forse, si materializza nella figura di Bianca. Bianca è Maite? Bianca e Maite sono la stessa persona?  Entrambe hanno studiato e scritto della scoperta dell’America come, detto per inciso, ha fatto anche Ferrazzi in Cipango.

Ferrazzi è abilissimo a depistare, seminare dubbi, porre interrogativi filosofici, mascherare le citazioni, accelerare o diminuire il ritmo della narrazione facendo letteralmente entrare il lettore nelle sue pagine.

Dicevo più sopra che il registro è quello ironico della commedia che sfocia in quello drammatico. Questa convivenza di registri dà vita a qualcosa di molto originale. Ancora una volta ha ragione Marino Magliani quando, sempre nella quarta di copertina, scrive che siamo davanti all’impianto narrativo di un romanzo unico:

“… nella sola armonia stilistica possibile, quella che incide il territorio dell’assurdo e del molto meno assurdo, senza tracciarne un confine, per chiedere a noi di farlo”.

La terza parte, di cui non mi sento di svelare troppo per non togliere al lettore il piacere della scoperta, ha un registro drammatico anche se quello ironico fa capolino qui e là. Dovrebbe essere il momento in cui si tirano le fila, i misteri cessano di essere misteri, i protagonisti, come Maite (o Bianca) e Vittorio fanno i conti con loro stessi. Sarà così? E, alla fine, qual è il vero significato del modus in rebus?:

“Il vero modus in rebus è la percezione di quanto è incomprensibile la realtà che ti circonda. Quando ti piove addosso questa consapevolezza fai un viaggio, cambi impiego, ti sposi o divorzi. Poi ti volti indietro e capisci di non aver risolto niente. Ma continui a pensare che esista una via di fuga. Per non perdere la ragione devi pensare a un futuro anche oltre la morte: altrimenti la pazzia è lì a due passi. Perché nel passato non c’è niente che stia in piedi da sé, niente che dia significato a tutto il resto. La vita è sempre incompiuta” (pag. 283).

O è un sogno?

Lo Scaffale di Andrea: Modus in rebus