Quando il 22 settembre è giunta la notizia della morte di Hilary Mantel, inattesa e precoce, sono stata presa dallo scoramento al pensiero che vana sarà l’attesa di un suo nuovo libro, poi confortata almeno in superficie che avevo ancora da leggere l’ultimo libro pubblicato in Italia, I fantasmi di una vita, nella traduzione di Susanna Basso, per Fazi editore, casa italiana di tutti i suoi fortunati romanzi.

Il pensiero è corso immediatamente a Giuseppina Oneto, traduttrice della maggior parte dei suoi libri. Una voce che amo molto e che ho già avuto modo di visitare nel suo studio di traduzione per Peter Cameron. Intervista che mi ha regalato una delle emozioni più grandi della mia vita da blogger: ricevere una mail dello scrittore americano, gentilissima, in cui mi ringraziava (lui a me!) per il lavoro svolto sulla sua scrittura insieme alla traduttrice italiana.

Giuseppina Oneto è non solo una traduttrice di profonda raffinatezza, che io amo molto, ma anche una donna generosa. La ringrazio di cuore perché non avrei saputo trovare un modo più appropriato e più prezioso per celebrare e ricordare Hilary Mantel che quello di discorrerne con lei a partire dal’ultimo libro da lei tradotto in italiano: Un esperimento d’amore.

È arrivato finalmente in Italia un romanzo di Hilary Mantel, pubblicato per la prima volta nel 1995: Un esperimento d’amore, traduzione del titolo originale An Experiment in Love. La traduttrice come sempre per Fazi è Giuseppina Oneto, che ha già lavorato non solo alla monumentale trilogia dei Tudor (Wolf Hall nel 2011 e Anna Bolena, una questione di famiglia nel 2013, entrambi, cosa abbastanza eccezionale, vincitori del Booker Prize, il più importante riconoscimento letterario britannico, rispettivamente pubblicati in patria nel 2009 e nel 2012; e Lo specchio e la luce, tradotto in contemporanea all’uscita in Gran Bretagna nel 2020, ultimo capitolo della saga dedicata a Cromwell, insieme con Stefano Tummolini); nel 2014/2015 si era occupata della formidabile trilogia dedicata alla rivoluzione francese, che Mantel aveva pubblicato nel 1992 in un unico volume con il titolo A Place of Greater Safety, e che per le edizioni europee, dunque anche per quella italiana, è stato diviso in tre parti: La storia segreta della rivoluzione, Un posto più sicuro, I giorni del terrore.

Con Un esperimento d’amore Mantel si allontana dal romanzo storico, come era già accaduto per Al di là del nero, (titolo originale Beyond Black, 2005) sempre tradotto da Giuseppina Oneto nel 2016 e Otto mesi a Ghazzah Street, (titolo originale Eight Months on Ghazzah Street, 1988), tradotto ancora una volta da lei nel 2017.

Dunque chi più di Giuseppina Oneto ci può dire cosa si prova a tornare a abitare tra le pagine di Hilary Mantel nella distanza del tempo rispetto a quello in cui la grande scrittrice britannica ha scritto An Experiment in Love, e dopo aver da poco concluso la lettura della trilogia dei Tudor che l’ha resa famosa e celebrata.

Già aprire la copertina del piccolo tascabile della Holt pubblicato nel 1996, un anno dopo l’uscita del libro in Gran Bretagna, dà il senso di un viaggio nel tempo. Ma la scrittura resta, sempre, al di là del tempo e con i suoi segni del tempo, e dunque il cuore batte mentre la mano volta la pagina e sa di entrare in nuove stanze, ancora inesplorate. Cosa troverò? Sarò all’altezza? Ormai conosco tante pagine della sua scrittura, ne riconosco la voce, i tratti, la conformazione, ma quale tassello mi troverò davanti devo scoprirlo adesso. Il libro è dedicato a Gerard, suo marito. Un esperimento d’amore. Di certo so soltanto una cosa: Hilary Mantel – ora Dame Hilary – ci stupirà. Nulla sarà come ce lo aspettiamo. E difatti, non mi ha deluso neppure questa volta. Così come la figura di Cromwell era affrontata da una prospettiva mai battuta prima, anche questo esperimento lascia a bocca aperta. Non ci dividono poi molti anni di età, ed entrare dentro gli inizi degli anni Settanta, non mi è difficile. Ho dei miei ricordi, per quanto sia un po’ più giovane dell’autrice, ma di estraneo non trovo niente. Solo il mondo in cui tutto si svolge, quell’’altro’ che proprio la mia veste di traduttrice deve affrontare e accogliere ogni volta. Bene. Mi metto all’opera e leggo, e scrivo, e scopro: l’amore non ha un unico volto, l’esperimento non ha nulla di scientifico.

Leggere Hilary Mantel nella traduzione di Giuseppina Oneto è come tornare a casa, tanto la resa della prosa italiana sembra tagliata a misura sulle sfaccettature e le complessità della scrittrice britannica: la prosa sobria e naturale di Giuseppina Oneto, il ritmo che sa imprimere alla resa italiana, l’acutezza e ricchezza della selezione lessicale presente nella traduzione sembrano corrispondere perfettamente all’idea che come lettrice ho di Hilary Mantel.

Per Giuseppina Oneto i tanti titoli tradotti di Hilary Mantel sono un orgoglio o una responsabilità?

La risposta è semplice. È sempre una responsabilità; questa è la prima caratteristica del nostro lavoro, almeno secondo la mia interpretazione. L’intermediario per il lettore italiano sono io, ovvero il traduttore, e quindi affronto la pagina sempre pensando che, per il tempo in cui durerà questa traduzione, sarà attraverso la mia lettura e la mia scrittura che gli altri conosceranno queste pagine. L’orgoglio c’è, ma è l’orgoglio della soluzione ben riuscita, perché quando si hanno davanti scrittori del calibro di Hilary Mantel, non ci si sogna neanche di essere all’altezza. Si accetta con piacere – e tremore nel cuore – la responsabilità e ci si mette nella situazione migliore per affrontare il lavoro. Sperando di avere attrezzi sufficienti.

C’è un segreto, che ti mette nella condizione di aderire come traduttrice alla scrittura di Hilary Mantel, nella diversità dei suoi romanzi e nella trasformazione che la scrittrice stessa attua da un romanzo all’altro? O invece sono semplicemente e regolarmente i ferri del mestiere?

I segreti sono i ferri del mestiere, che in ogni mestiere sono tutto, e sono preziosi perché si sviluppano strada facendo. Sono dati dalla dedizione, dallo studio, dal tentare di capire in misura sempre maggiore a ogni testo, nella sua interezza e a ogni riga, cosa vuol dire tradurre.  Parafrasando, così per gioco, il famoso titolo di un libro di cucina, si potrebbe parlare dell’arte e della scienza del tradurre. Ma come sa chiunque si dedichi a manipolare una materia, anche quella immateriale delle parole, con le sue regole e con le sue caratteristiche, è l’esperienza – intesa come esperire ogni volta il procedimento, e quindi accettare di percorrerlo –  a creare delle soluzioni, a determinare quel dubbio costante che ti spinge a cercare e cercare ancora, sperando di deporre le armi il meno volte possibile. Per aderire all’idea che ci si forma della scrittura di un dato autore, in questo caso di Hilary Mantel.

È più complicato e complesso come traduttrice stare dietro a una trilogia corposa e imponente come quella dei Tudor e della rivoluzione francese, o tradurre un romanzo come Un esperimento d’amore, che è stato scritto tanto tempo prima rispetto alla traduzione? Ricordo a questo proposizione, che il terzo volume della trilogia dei Tudor è completato da Hilary Mantel dopo circa dieci anni dai due precedenti.

La difficoltà, in questi casi, non sta nel tempo. Perché, vorrei aggiungere, il traduttore deve attrezzarsi per viaggiare anche nel tempo. Le difficoltà sono diverse, dovute, nel primo caso, sia all’impostazione storica, che obbliga a riscontri puntuali sui testi, sia alla mole delle pagine, che obbliga invece a operare scelte tenendo conto dell’architettura immensa dell’opera. Nel secondo caso, le difficoltà sono più legate alla scelta di quelle formulazioni, e dunque di quell’andamento ritmico, che sia in grado di aderire al portato emotivo di quanto viene raccontato. L’amore, in generale, è un argomento spinoso, e anche in questo testo le spine pungono e lasciano tracce di sangue.

C’è qualcosa in Un esperimento d’amore che non ti aspettavi da Hilary Mantel?

Da lei, come ho già detto, mi aspetto di essere stupita e quindi di incontrare quel che non mi aspetto. Ogni sorpresa infatti non è che la conferma della sua abilità di scrittrice. Non mi aspetterei il battere percorsi già noti, l’adottare prospettive già conosciute; e anche questa volta non è accaduto. Ha ricostruito i rapporti fra le donne di varie età che abitano il libro con l’incisività, il bisturi, l’assenza di sentimentalismo che mi aspettavo da lei. E non ha risparmiato scene amare, poco consolatorie come è giusto che sia, se ci si vuole misurare con l’aspra, contraddittoria materia di cui siamo fatti, e con le lotte che ogni donna deve affrontare se ha bisogno di uscire dagli schemi prefissati.

C’è un momento, quasi all’inizio del romanzo, in cui è particolarmente evidente l’aderenza perfetta e piena tra testo e traduzione:

In particolare: il gesso odora di gelso, oppure nella mia testa la parola gesso è uguale alla parola gelso per via della consistenza sonora, morbida e granulosa.

Questa resa mi è sembrata miracolosa. Io lo sento in bocca il sapore granuloso del gelso, che per coincidenza fa anche parte della mia infanzia, e nello stesso tempo quello altrettanto granuloso del gesso, con una certa repulsione perché a quella polverina sono allergica e mi è insopportabile.

Tornando ai segreti: ci sveli cosa c’è nell’originale? È fortunata la traduttrice che trova corrispondenza tra le due lingue nelle due parole gesso/gelso; o siamo fortunati noi lettori italiani a avere una traduttrice come Giuseppina Oneto che sa trovare questa corrispondenza al di là della lingua?

È raro e quasi escluso che ci sia corrispondenza fra due lingue, soprattutto quando si entra nell’ambito di assonanze, giochi di parole e rime. Le lingue per loro natura sfruttano al meglio il genio originale attorno a cui si sono evolute e dunque abbiamo poca speranza di ritrovarci di fronte a una fortuna simile. Quanto al gesso e al gelso, ho adattato io il testo; vale a dire che di fronte a chalk (gesso) e peaches (pesche) – e in corsivo riporterò qui l’originale –  ho riconosciuto appunto “la consistenza sonora” (the texture both sounds share) delle due parole, che in italiano si sarebbe perso seguendo la lettera del testo, ho fatto leva sulla descrizione che segue di quella caratteristica sonora, ritagliandone delle parti – plushness (la qualità di ciò che è sontuoso, e soffice, felpato) e grain (grana) – , e inoltre ho sentito, e qui entra il fattore umano del singolo traduttore, l’esoticità della pesca nel mondo inglese, per cui ho cercato, avendo in mente questi elementi, e ho trovato gesso-gelso. Se sembra una soluzione felice, e tuttora mi domando se lo sia davvero, rispetto al testo originale, questo resta a dimostrare che la traduzione letteraria non sta mai nella corrispondenza letterale. Tanto più, quindi, ho osato in questo passaggio perché nei testi della Mantel queste sottigliezze esistono, e se vogliamo considerare una scrittrice e quanto passa in un’altra lingua, non ho trovato troppo disdicevole inserire in quel punto una delle tante eleganze che in altri casi ho dovuto abbandonare o ridurre di portata.

Un altro piccolo mistero. La trilogia dei Tudor con i due Booker Prize e la nomina al terzo è il capolavoro riconosciuto di Mantel; per il «The Sunday Telegraph» Un esperimento d’amore è «Il più potente fra tutti i suoi romanzi. Un capolavoro praticamente perfetto di pathos, analisi e sentimento», e devo dire che anch’io sono di questo avviso: un romanzo a cui non manca nulla e sul quale il tempo impreziosisce invece di togliere smalto; «Un capolavoro di spirito» strilla «The Indipendent» per Al di là del nero, che per «The New York Times» è «Un grande romanzo comico». Al di là dei giudizi entusiastici che accompagnano tutti i romanzi di Mantel, la traduttrice Giuseppina Oneto ha un libro di Mantel che definirebbe il suo capolavoro? È inficiato questo giudizio dalla traduzione stessa che si innesta anche nella vita di chi traduce, o è scevro da altri elementi e riguarda solo la qualità della scrittura dal punto di vista privilegiato della traduttrice che si addentra nelle pieghe più intime del testo?

La prima reazione, quella spontanea, a questa domanda è: come traduttrice non giudico. Entro nel testo, nella sua architettura, sento, elaboro, analizzo, scovo rimandi, riferimenti, tessiture e quant’altro; ma ripeto, non giudico, perché nel momento in cui lo faccio, mi distacco dal testo, lo guardo con altri occhi e non più con quelli che fondamentalmente cercano quanto è scritto nel bianco, che su ogni supporto in cui è proposto un libro – digitale o analogico – dividerà sempre ogni riga e ogni parola, ogni paragrafo e ogni capitolo, e che in ciascun testo è variamente denso. Questo è come affronto io il lavoro. Poi mi restano apprezzamenti, meraviglie, simpatie, e i loro contrari, un mio bagaglio di preferenze e di idiosincrasie, che cerco sempre di tenere per me. Dovendo però rispondere alla domanda, a me personalmente è rimasto nel cuore Otto mesi a Ghazza Street, per quel senso asfittico di reclusione e mistero che racchiude il testo; e per un motivo extratestuale: il coraggio che Mantel ha mostrato nello scriverlo, visto che dopo la sua pubblicazione è stata dichiarata ospite non grata in Arabia Saudita, dove ha realmente abitato e dalla cui esperienza ha tratto il romanzo. Non posso però non citare il primo libro della trilogia su Cromwell, Wolf Hall, che si avvicina molto al mio concetto di capolavoro, in cui l’alto e il basso, il vicino e il lontano convivono e sovvertono le prospettive, rifondano miti e inchiavardano il racconto con scelte felici, a cominciare dal titolo, straboccante di echi metaforici e storici. Ma mi fermo qui, perché mi pare di fare torto a tanta altra sua produzione che pure merita tutta l’attenzione.

Quando traduci Hilary Mantel, il tuo studio è…

I libri di storia che mi si ammonticchiano intorno, le pagine di Shakespeare che chiedono di essere ripassate e scovate fra le tante opere teatrali e poetiche, gli studi universitari che tornano ad avere un senso e sono di immenso aiuto, una lingua che sa esprimere e racchiudere con particolare ingegno i tratti più classisti della cultura che veicola; e la finestra, attraverso la quale cercare le risorse per sintonizzarmi con la voce profonda dei vivi e dei morti, della colpa e del sangue, del trionfo e della caduta.

La cosa più curiosa che hai appreso traducendo Un esperimento d’amore, ambientato nell’Inghilterra della fine degli anni Sessanta, dove Carmel, la protagonista e voce narrante del romanzo, si forma, prima in un piccolo, asfittico centro del Nord dell’Inghilterra, e poi a Londra, frequentando la London University e abitando in una residenza universitaria con la variegata e eterogenea umanità femminile che lì si trova a allevare sogni e ambizioni, tragedie e conquiste. C’è qualcosa, in particolare dell’essere donna in quegli anni, che non ti aspettavi?

Come dicevo più sopra, no, noi due non siamo poi così distanti d’età, e gli echi di quanto lei descrive li ho sentiti anch’io; o meglio, non ho faticato a riconoscerli perché, senza saperlo, mi ci sono formata sopra, poco più che bambina, mentre le protagoniste del libro andavano all’università, cercando di strappare, ognuno a modo proprio, le briglie del senso di colpa, delle gelosie, dell’invidia, il legame doloroso fra madri e figlie, tentando di non affogarci dentro; oppure affogandoci, perché le voci intorno, a volte taglienti come il vetro, impedivano di scegliere con maggiore consapevolezza e libertà. Che poi Hilary Mantel sappia scovare il mezzo – l’episodio, la metafora – per raccontarci l’orrore dello strappo, della mancanza, dell’anoressia o della fame spropositata, l’immensa fatica di essere donna – nonostante tutte le differenze di cultura e di mondo –, è da attribuire solo alla sua grande capacità di autrice e non può che  rallegrarci.

Dopo il ricordo vivido e autentico che ci hai donato su Peter Cameron, [lo potete leggere QUI] altro autore non distinguibile dalla traduzione di Giuseppina Oneto, e che rimane un dono prezioso, di cui ancora ti ringrazio, sfogli con noi anche l’album dei ricordi con Hilary Mantel e ci regali un’istantanea di voi due?

Mi spiace, ma lei di persona non l’ho mai conosciuta. Ci siamo andate molto vicine nel 2020, ma poi la pandemia ci ha fermati tutti. E quindi, ora che è arrivata la dolorosa notizia della sua morte, l’assenza si fa più dura. Il senso di perdita è forte, improvviso. Quando le ho scritto nel corso degli anni, per avere dei chiarimenti su qualche passaggio, mi ha sempre risposto con la massima gentilezza e disponibilità al chiarimento. E il mio legame con lei si è formato sulla carta, sulle tante interviste che ho guardato, sui tanti suoi articoli e libri che ho letto. Quando dalla casa editrice è arrivata la terribile notizia, mi sono sentita come se all’improvviso mi venisse a mancare un qualcosa, un qualcuno di cui era difficile dare una definizione più concreta, più materiale, ma che esisteva con la prepotenza di una parente amata, lontana sì, ma presente nella mia vita. E alla quale non potrò mai più chiedere niente; e della quale non potrò mai più aspettare l’ultima novità che è riuscita a confezionare.

Nello studio di Giuseppina Oneto, traduttrice di Hilary Mantel
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