di Antonello Saiz

Libraio a Parma con Alice Pisu di “Libreria Diari di bordo”
Libraio a Parma con Alice Pisu di “Libreria Diari di bordo”

 

 

 

 

 

 

Le belle narrazioni che provocano incendi.

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Martedì 30 gennaio in libreria Franco Arminio ha letto “Cartoline dai morti 2007-2017“, Nottetempo.
Che serata intensa e che spettacolo di emozioni e passioni! Vedere un’intera Libreria, piena murata fino all’inverosimile, cantare “Bella ciao” e “Sebben che siamo donne” e “Azzurro” non ha prezzo alcuno.
Un poeta capace di trasformare in versi la bellezza che lo circonda, la desolazione dei paesi che attraversa, le cose del quotidiano che gli capitano. Trasmettere il tutto con passione, come un incendio. Tutta la narrazione in libreria è partita da un cappello smarrito a Rovereto, che era il gemello di quello rubato a Napoli in un corteo per non far chiudere l’ospedale del paese dove abita, Bisaccia, in Irpinia, Irpinia D’Oriente per la precisione. Storie che incontrano altre storie.
Nel 2010 Franco Arminio, bravissimo “paesologo”, poeta scrittore regista, aveva già pubblicato, sempre per Nottetempo, la prima edizione di questa raccolta di brevi messaggi trascritti come se fossero arrivati per cartolina, ciascuno da un individuo defunto e da un luogo ignoto. Le aveva immaginate durante il suo primo attacco di Panico nel 1996 mentre era seduto sulla poltrona del suo barbiere di paese per farsi accorciare la barba ed era sopraggiunto un malore. Nella prima edizione erano 128 più una nota. In questa nuova, recentissima edizione accresciuta, di fine 2017 ne ha corretto qualcuno, ne ha eliminato qualcun altro, lasciandone 83 fra gli originali. Poi ne ha aggiunti 11 tratti dalla raccolta 2016 e circa 75 inediti, come racconti senza respiro e cartoline, oltre al componimento “La spina”. L’ultimo testo riassume un poco il senso di tutti:

Se non credi alla vita dopo la morte, devi credere di più alla vita dentro la vita. La mia fede io la chiamo intensità. L’intensità a me viene dal guardare… Il bene sta negli alberi, nell’acqua, nelle facce, il bene è sempre dalla parte di chi è intenso, si interessa meno a chi si spaccia in estasi o in disperazione.

Durante la presentazione ha spiegato il suo rapporto con il lutto e di come queste Cartoline siano state tradotte e abbiano ricevuto premi e riconoscimenti in Russia, Danimarca, Norvegia, paesi dove la cura del lutto e dei morti è più sentita. Per fortuna, a grande richiesta, “Cartoline dai morti” sono tornate in un’edizione accresciuta e arricchita di testi inediti, che va a inaugurare la nuova vita della storica collana Gransassi in una veste grafica morbida e preziosa.

L’esistenza vista dalla fine, dalla morte – “questa cosa che forse regge tutto, questo niente che sorregge e corrode ogni cosa” – si riduce a poche cose: una luce sul comodino, un barattolo di caffè, un maglione verde, le prime rose, una torta di compleanno, un solitario, le rondini che fanno avanti e indietro, una donna amata, una sconosciuta. Con 150 cartoline, paradossali, ironiche e fulminanti, Franco Arminio ci offre un resoconto dei tanti modi di morire inviandoci brevi, asciutti messaggi da un posto sconosciuto.

ArminioNel finale di serata, Arminio ha letto poesie d’amore tratte da “Cedi la strada agli alberi“, uscito per Chiarelettere sempre nel 2017.

“Cedi la strada agli alberi” raccoglie molte delle poesie di sull’amore e sul paesaggio. Versi semplici e diretti in cui l’attenzione è rivolta a ciò che c’è fuori. “Poesie d’amore e di terra“, così sono definite dall’autore, le liriche sono semplici, dirette, senza aloni. Ogni verso è una serena obiezione alla scrittura come gioco linguistico, è una forma di attenzione a quello che c’è fuori, a partire dal corpo dell’autore, osservato come se fosse un corpo estraneo: l’azione cruciale è, infatti, quella del guardare:

“Io sono la parte invisibile del mio sguardo”.

Franco Arminio è nato e vive a Bisaccia. Ha pubblicato una ventina di libri. Ricordiamo, tra gli altri, “Vento forte tra Lacedonia e Candela” (Laterza), “Terracarne” (Mondadori),”Viaggio nel cratere” (Sironi 2003), “Nevica e ho le prove. Cronache dal paese della cicuta” (Laterza, 2009) e “Geografia commossa dell’Italia interna” (Bruno Mondadori 2013). Si occupa anche di documentari e fotografia. Come paesologo scrive da anni sui giornali e in Rete a difesa dei piccoli paesi. Attualmente è il referente tecnico del Progetto Pilota della Montagna Materana nell’ambito della Strategia Nazionale per le Aree Interne. Ha ideato e porta avanti “La casa della paesologia” a Trevico e il festival “La luna e i calanchi” ad Aliano. È vincitore del Premio Napoli (2009) con “Vento forte tra Lacedonia e Candela. Esercizi di paesologia” (Laterza, 2008), del Premio Stephen Dedalus (2011) con “Cartoline dai morti”, del Premio Volponi (2012) e del Premio Carlo Levi (2013) con “Terracarne” (Mondadori, 2011).

Italia Del Vecchio

L’Italia vera è racchiusa tutta nel romanzo di Fabio Massimo Franceschelli, uscito per Del Vecchio editore, finalista al Premio Calvino 2015 per esordienti e intitolato proprio “Italia” e che abbiamo presentato ai Diari sabato 3 Febbraio.
Una metafora apocalittica dell’Italia oggi che ricorda molto i libri di Paolo Zardi, Davide Longo e Ammaniti. Complice la sua formazione teatrale drammaturgica e la sua laurea in storia delle religioni, va detto che non pare di leggere un romanzo d’esordio, ma il lavoro molto ben costruito e curato di un autore che sa miscelare temi, ritmi, personaggi e stili diversi pur tenendo sempre sul fondo la luce accesa della trama, della cornice “realisticamente italiana” entro la quale si svolge la complicata vicenda narrata. L’autore ha esperienza da vendere nella narrazione drammaturgica e questo fa sì che il lavoro sul testo renda “Italia” una storia dove si incrociano i temi più ostici dell’italianità contemporanea: il lavoro, nelle diverse stratificazioni sociali e morali, le indifferenze, la territorialità vetusta, lo spegnimento ideologico, la frustrazione dei ruoli, la concentrazione di follie irriconoscibili ma reali. Questo è un romanzo che ruota intorno alla perdita di senso dei ruoli che si sono costruiti durante il secondo Novecento italiano, quelli un tempo popolarissimi (la promoter, il sindacalista, il manager, ecc.), ora caduti inesorabilmente in disgrazia per via di una crisi che non è solo economica, ma di carattere morale e di tenuta complessiva del sistema Paese.
Siamo ai giorni nostri. Nessuno può essere sicuro del proprio posto di lavoro. Diciassette lettere di cassa integrazione, più una – giustificatissima – di licenziamento, devono essere recapitate ai rispettivi destinatari. La consegna di tali missive scatena una rocambolesca girandola di avvenimenti, intrecciandosi alle minute vicende di un grande centro commerciale alla periferia di una città del Sud che affaccia sul mare, dove «si parla un dialetto stretto stretto fatto di ì, ù e ò accentate». È l’imponente supermercato La Cattedrale il microcosmo in cui si snodano i destini dei personaggi: un direttore connivente e succube del potere mafioso locale, un manager freddo e insensibile alla sofferenza dei lavoratori, che però si rivela anche ingenuo e sprovveduto, un attempato dongiovanni ossessionato dal sesso, una giovane promoter frustrata da un lavoro indecoroso, un sindacalista incapace di far fronte alla crisi, una guardia giurata perseguitata dai gabbiani, un ex artificiere ossessionato dall’11 settembre, e infine Italia, ostinata vecchina affondata nel proprio oscuro dialetto, che, apparentemente ai margini della modernità, sarà testimone coriacea del maelstrom degli eventi.
Franceschelli mescola con sapienza tutti i generi, dall’horror alla commedia, dal grottesco al realistico, in una narrazione pacata e implacabile, caratterizzata da una raffinatezza che non cade mai nell’affettazione e da una ricchezza linguistica che conferisce un’aura di realismo e insieme di universalità a ognuno dei personaggi.
In una sorta di molteplicità indotta, i protagonisti si muovono freneticamente intorno alla Cattedrale, rendendo comicità e ironia alla tragedia annunciata negli allucinanti e allucinati inseguimenti, tra reazioni sconnesse, assurde riflessioni e una labile accettazione della verità quotidiana della natura umana.

Fabio Massimo Franceschelli ecletticamente ha toccato vari generi letterari: dalla saggistica alla drammaturgia, alla critica e, ora, alla narrativa. Laureato in Storia delle Religioni, ha pubblicato saggi e articoli sui moderni sincretismi religiosi, con particolare attenzione ai culti afrobrasiliani. Per il teatro è autore di drammi, monologhi e commedie rappresentate in Italia e all’estero, oltre che regista e direttore di festival teatrali. È redattore della rivista di drammaturgia contemporanea «Perlascena». Il romanzo “Italia” ha raccolto un numero considerevole di recensioni positive e Premi: Finalista al Premio Calvino, un secondo posto al Premio Nabokov e ha avuto pure una Menzione Speciale al Premio Opera Prima ( POP).
Quest’anno, poi, Fabio Massimo Franceschelli con il testo “Damn and Jammed” è stato anche tra i quattro i finalisti della 54° edizione del prestigioso Premio Riccione per il Teatro, intitolato a Pier Vittorio Tondelli, e che premia testi teatrali in lingua italiana o in dialetto non rappresentati in pubblico.

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Parlando di belle narrazioni non posso non segnalarvi questo piccolo gioiellino dal titolo “L’uomo seme“di Violette Ailhaud pubblicato da Playground.
Un manoscritto ritrovato, un memoir di poche decine di pagine che è diventato un caso editoriale e una storia sconvolgente. Pubblicato anche in una nuova edizione con una postfazione di Valeria Parrella è un libro di un’intensità tale da rapire il lettore e farlo calare al cento per cento in un’ambientazione rurale, contadina, che spiega con incredibile efficacia il mistero delle relazioni fra i due sessi.

«Immaginate ora di essere una giovane di sedici anni che è come un fiore pronto a sbocciare, un fiore con il cuore che esplode nel petto».

“L’uomo seme” è una breve storia racchiusa in una busta consegnata alla lettura del testamento di Violette Ailhaud ai suoi discendenti. Unica clausola del testamento era la richiesta specifica di non aprire tale busta fino all’estate del 1952. Dopo l’apertura il manoscritto doveva essere affidato solo ed esclusivamente ad una discendente di sesso femminile di Violette, di un’età compresa tra i quindici e i trenta anni. Ecco quindi che il testo scritto nel 1919 è arrivato a noi grazie alla ventiquattrenne Yvelyne.

Con la fine della Prima Guerra Mondiale, ormai ottantenne, Violette Ailhaud decide di raccontare, scrivendola, una vicenda incredibile che ha vissuto in prima persona nel suo piccolo villaggio dell’Alta Provenza. Nel 1852, quando all’epoca Violette aveva diciassette anni, gli uomini del suo villaggio, dichiaratamente repubblicani, e quindi ostili a Luigi Napoleone Bonaparte, erano stati arrestati o deportati, e chi tra loro aveva cercato di fuggire (tra questi proprio il promesso sposo di Violette), era stato passato per le armi. Per due anni nel villaggio, condotto da sole donne, non si erano visti uomini: né ladri, né autorità e nemmeno preti.
Ormai sfinite dalla fatica e dalla mancanza di amore, le donne stipulano tra loro un patto. Il primo uomo che apparirà all’orizzonte dovranno dividerselo, per poter ridare vita al villaggio.

Jorge IbargüengoitiaA proposito di belle narrazioni… è da poco arrivato in libreria “Messico istruzioni per l’uso” di Jorge Ibargüengoitia, edito da Sur.
Jorge Ibargüengoitia (1928-1983) è stato uno scrittore, giornalista e critico messicano, considerato una delle voci più acute e ironiche del suo tempo. Tragicamente scomparso il 27 novembre 1983 in un incidente aereo vicino a Madrid mentre si recava in Colombia per il Primo Convegno della Cultura Ispanoamericana, ha scritto più di venti opere tra racconti, romanzi, saggi e testi teatrali.
Il nome dello scrittore è tanto impronunciabile quanto è imprescindibile la sua figura nel panorama della letteratura messicana contemporanea: Ibargüengoitia – autore di inchieste, gialli, romanzi, racconti, testi teatrali – è un dissacratore, che ha fatto dell’ironia e del sarcasmo le sue armi più efficaci per castigare i costumi del proprio paese. Il popolo, la cultura, la vita quotidiana, la politica del Messico – e i suoi tic, le sue delizie e assurdità – sono distillati in ciascuno dei divertentissimi capitoli di questo libro, che compone una sorta di guida involontaria, per turisti avventurosi o da divano. Un manuale che è al tempo stesso di autoaiuto per messicani e di sopravvivenza per i visitatori e i turisti, grazie al quale cercare una via di uscita dal labirinto della burocrazia e dell’inefficienza dei servizi pubblici, o comprendere le misteriose forme attraverso cui si manifesta la ineludibile «ospitalità a tutti i costi» dei messicani. Un piccolo gioiello a metà fra saggio antropologico e guida di viaggio, fra album di bozzetti folcloristici e giornalismo culturale. Per chi ama il Messico e per chi vuole imparare a conoscerlo.
Andrea SchiavonEsiste una collana della casa editrice Add che si chiama proprio Incendi. Il progetto è curato Fabio Geda e Francesca Mancini. Le passioni incendiano le vite, le muovono e le modificano. Questa collana vuole diffondere passioni, farle dilagare e offrire ai lettori la possibilità di farsi contagiare. I protagonisti della vita culturale italiana e internazionale raccontano la loro passione per scrittori, registi, musicisti, pittori, sportivi, autori teatrali, artisti di ogni sorta: incontri inattesi, generatori di meraviglia. Non sono biografie, anche se racconteranno storie di vita. Non sono saggi, anche se conterranno riflessioni sugli artisti e sulle loro opere. Sono Racconti, soprattutto. Guide appassionate a percorsi di conoscenza. Narrazioni combustibili che, finita la lettura, spingeranno il lettore a fare propria quella passione, o a cercarne altre, ancora più deflagranti. Ho scelto proprio dei passaggi di un libro di questa collana da portare un sabato mattina nell’Aula Magna dell’ITE Melloni di Parma, per fare ad alcune classi dell’istituto una lectio brevis sul valore della Lettura oggi.
Ho scelto di parlare ai ragazzi di Don Lorenzo Milani. Avevo letto, proprio quando avevo l’età di questi ragazzi,il libro di Neera Fallaci “Dalla parte dell’ultimo – Vita del prete Lorenzo Milani” che mi aveva molto colpito e impressionato. Forse il libro che meglio di tutti percorre la vicenda umana e politica di questo prete scomodo esplorandola anche nelle pieghe più sconosciute. Vengono registrate testimonianze, ricordi, opinioni tra coloro che hanno avuto la fortuna di conoscere da vicino il “terribile” parroco toscano, ma vengono ben inquadrati gli avvenimenti nel particolare clima sociale e politico in cui si svolsero, aiutando così a far capire meglio la forza profetica delle idee di don Milani.

Nel panorama di libri pubblicati in occasione del cinquantenario della morte di Don Lorenzo Milani e della pubblicazione di lettera a una professoressa, ho scelto per originalità quello di Andrea Schiavon, pubblicato da Add con il titolo “Don Milani. Parole per timidi e disobbedienti“.
Il sottotitolo, come si vede, è già un programma, perché rimanda a due componenti fondamentali dell’insegnamento e della vita stessa di Don Milani. I timidi sono coloro che non hanno la parola, perché non ne sono attrezzati o perché viene loro negata. La disobbedienza è l’uscire dal solco di una strada già segnata verso il conformismo e la perpetuazione delle classi sociali cristallizzate. Schiavon in questo suo lavoro, oltre a darci conto della sua passione per il personaggio, e del suo rapporto con esso, conduce l’esperimento di mettere a contatto l’insegnamento di Don Milani con i ragazzi di oggi.

Sono passati cinquant’anni dalla pubblicazione di “Lettera a una professoressa”, il libro nato a Barbiana dai ragazzi di don Milani grazie a uno straordinario esercizio di scrittura collettiva; ma cos’è mutato nella scuola in questo tempo? Che cosa succede se quella Lettera viene riportata oggi sui banchi, data da leggere ai ragazzi, anziché essere relegata al mondo dei “libri che si citano ma non si leggono”?
Andrea Schiavon lo ha fatto, intrecciando il racconto della sua passione per don Milani alle scintille nate dai suoi incontri con gli studenti di alcune scuole italiane per parlare di questo prete rivoluzionario e per far dire ai ragazzi cosa cercano nella scuola di oggi.
“E se io non rientrassi in un numero che va dallo zero al dieci?” chiede uno di loro. “Come può funzionare un sistema dove gli insegnanti non hanno voglia di insegnare e gli studenti di imparare?” domanda un altro.
Nel libro si alternano i capitoli che raccontano don Milani, a quelli in cui i ragazzi dicono cosa ha significato per loro scoprire Lettera a una professoressa e cosa di attuale hanno trovato in quelle parole.
Nel cinquantenario della morte di Milani e dell’uscita del suo celebre libro, Andrea Schiavon gli fa l’omaggio più vero: riportare le sue parole dove sono nate, a scuola, ridando loro una vita inattesa.

Nello Zaino di Antonello: Le belle narrazioni che provocano incendi