Il tempo materiale

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Ci sono dei libri che ti lasciano senza parole, letteralmente. L’impossibilità di trovare i termini lessicali giusti per definire la forza della narrazione, la corposità del linguaggio, l’icasticità delle immagini, la potenza del pensiero. Di fronte a Il tempo materiale di Giorgio Vasta (Minimum Fax 2008) mi riscopro afasica, incapace di dare una definizione che possa rendere il forte impatto della lettura. Anche semplicemente riassumere la trama del romanzo. Stratificato, composito, fortemente introspettivo ma in senso totalmente nuovo. 1978. Palermo. Tre ragazzi di undici anni alle prese con la militanza e una lucidità di pensiero ormai impossibile per i coetanei di oggi. La militanza terroristica passa attraverso la loro mente e purtroppo le loro azioni. L’io narrante è Nimbo, questo il nome da lui scelto all’interno del nucleo operativo brigatista messo in piedi da Scarmiglia-Volo, l’ideologo del gruppo, il più crudele e lucido. Nimbo è un ragazzo introverso e riflessivo, mitopoietico, immaginifico, con un’ancestrale e meditata ferinità. Accanto a loro Bocca, soprannominato nella cellula Raggio, coinvolto e appassionato dalla logica verbale e pragmatica di Volo. La scelta di “fare azioni” esemplari a Palermo, sulla scia delle Brigate Rosse, li vede compatti e concordi, anche se non mancano dissensi e discussioni che cementano ulteriormente il gruppo invece che sfaldarlo. In questo cupo processo di formazione, Nimbo troverà la forza, ma non la fiducia di arrestare il male, nella consapevolezza della fine e della sconfitta.

Osservare il fenomeno del terrorismo attraverso gli occhi e la mente di tre adolescenti ha una forza narrativa potente, che non viene meno di fronte alla maturità di pensiero che per dei ragazzi delle scuole medie sembra oggettivamente superiore alla norma, ma al contrario isolando il fenomeno a un’eccezione ne fa giganteggiare la carica eversiva e tragica.

Nimbo vivrà un lungo intenso anno cruciale, confrontandosi non solo con le persone reali dell’ambiente familiare, scolastico e cittadino, ma anche con figure oniriche, mitiche, da una zanzara allo Storpio, un gatto maltrattato dalla sorte e dalla natura che fa parte del mondo affettivo del Nimbo, a una pozzanghera a forma di cavallo, correlativi oggettivi di uno stato d’animo fortemente materializzato, reificato e selvaggio.

Sullo sfondo una città, Palermo, di cui si evidenziano gli aspetti più scandalosi e violenti, in cui ad esempio carcasse di cani sbudellati vengono bruciati in strada. Una città emblema della crudeltà e del buio che sembra aver avvolto l’Italia in quel terribile anno 1978.

La distanza dalla realtà storica delle Brigate Rosse per ambientazione (Palermo e non Roma), età dei protagonisti (adolescenti invece che adulti), obiettivi (prettamente locali contro la matrice nazionale) consentono a Vasta uno sguardo originale, ma anche lucido e sicuro sulle motivazioni più profonde e personali che possono portare a un disegno terroristico, senza più compassione e commiserazione per la vita umana.

Il linguaggio non solo struttura il romanzo dal punto di vista stilistico e lessicale, con una pregnanza asciutta e tagliente, mitopoietica come il suo protagonista, ma si rivela incisivamente anche un elemento fondamentale a livello ideologico e di pensiero:

Non ho paura di loro, dice Scarmiglia, perché io parlo in italiano. Io, noi tre, parliamo in italiano.

E cioè che cosa gli hai detto?, domando.

Ho chiesto un’informazione usando per tutto il tempo il congiuntivo.

Il sorriso gli diventa più grande e riempie una pausa di silenzio. Poi riprende.

Per loro le parole sono chiodi e martello, dice, cucchiai e coltelli. Servono a dire, solo a dire, e nient’altro.

Capiscono solo il dialetto, dico.

Sì, fa Scarmiglia, e non capiscono quello che diciamo in italiano.

Adesso Bocca ha messo a fuoco; non solo: quello di cui stiamo discutendo gli piace molto.

Noi conosciamo il piacere del linguaggio, dice. Non soltanto il congiuntivo: il piacere delle frasi.

Mentre Bocca parla tocco il filo spinato, vivo, nella tasca del giubbotto.

Parlare in italiano, dice Scarmiglia, parlare complesso, per noi vuol dire andarcene.

Mi torna in mente la maestra che quasi un anni fa, durante gli esami, ironica e realistica mi aveva detto che sono mitopoietico, quanto ero stato contento di scoprire che cosa voleva dire, quale piacere può dare muoversi dentro le parole, passare il tempo nel linguaggio. Andarsene via costruendo frasi. Isolarsi. Perchè la conseguenza del nostro modo di esprimerci – il tono sommesso, il volume basso, ogni parola piatta, ritagliata, calma eppure sediziosa – è che i nostri compagni di classe non ci riconoscono. Per loro siamo delle anomalie. Degli idioti. Quando poi sentono di che cosa stiamo parlando – le larghe analisi del presente politico italiano, la critica spregiudicata del potere – ci fanno le battute, ci lasciano soli.

Ce ne andiamo via da Palermo, continua Scarmiglia, semplicemente parlando.

Siamo colpevoli di lunguaggio, esclama Bocca.

Sì, fa Scarmiglia. Il linguaggio è la nostra colpa.

Nessuno parla come noi, dice Bocca orgoglioso. Oggi, adesso, specifica.

Non è vero, dice Scarmiglia. Qualcuno c’è.

Bocca aspetta incuriosito, quasi dispiaciuto che possa esserci qualcuno che al linguaggio dedica la nostra stessa attenzione.

Le Brigate Rosse, dice Scarmiglia. Loro parlano – o meglio scrivono – come noi. I loro comunicati sono complessi, le frasi lunghe e potenti. Sono gli unici in Italia a scrivere così.

Il linguaggio crea empatia e spinge all’emulazione, fa da detonatore di assonnanze e consonanze, elegge a modello e rende visibile il legame sottile della fratellanza, ma anche il linguaggio che differenzia per sottilineare esclusività e appropriazione della lotta:

Nel secondo articolo si fa riferimento al comunicato che abbiamo scritto con la Lettera 22 che sta a casa del compagno Volo, sopra un armadio, e che nessuno usa mai. Per redigerlo abbiamo impiegato tre giorni, una minuta dopo l’altra, un tasto alla volta, su della carta marrone, da pane, aspettando che in casa non ci fosse nessuno, alternandoci a scrivere quando il polpastrello dell’indice non ce la faceva più, le dita sudate dentri i guanti di gomma. La forma del testo l’ho definita in gran parte io. Mi sono messo d’impegno a studiare i comunicati delle Br – ogni pomeriggio, da solo, alla radura del porno, seduto in mezzo ai ritagli, le forbici in mano – ad analizzarli ancora più approfonditamente di come abbiamo fatto a maggio. Ho cercato di smontarli e rimontarli, di torcere la sintassi e immaginare un altro lessico. Volevo modificarne lo stile, una lingua diversa; tecnica e violenta, sì, ma anche autonoma rispetto a quella delle Brigate Rosse, con un valore esclusivamente nostro. Quando mi rileggo sul giornale mi rendo conto di avere fallito. Mio malgrado sono rimasto imprigionato nella fraseologia che intendevo riformare.

Infine è proprio il linguaggio nella sua infinitezza a dover essere superato nella militanza per dare senso e valore:

Tu avevi il linguaggio, dice. Adesso hai l’alfamuto.

Faccio segno di sì.

Ne valeva la pena?

Era necessario.

Perché necessario?

Perché il linguaggio, quello di prima, quello in cui c’era tutto, era troppo.

Cosa vuoi dire?

Non finiva mai.

Le ventuno posture dell’alfamuto sono più rassicuranti?

L’afamuto finisce.

Ed è meglio?

Il linguaggio è un’esistenza immensa, rispondo. Ma a un certo punto cominci a desiderane un’altra, di esistenza. Più limitata, ma più comprensibile.

Un’esistenza nella quale sia semplice distinguere tra i buoni e i cattivi?, domanda.

Una forma di via che ci dice chi siamo e chi siamo stati, dico.

Chi sarete, aggiunge lei.

Ora la pozzanghera a forma di testa di cavallo tace. Ha ottenuto quello che voleva.

Io non ne potevo più del linguaggio, dico.

E la militanza, dice, è la soluzione.

Non parlo, non so più cosa dire.

Così rinunci al piacere, Nimbo.

Abbasso il capo.

Così rinuncio al dolore, dico.

Pagine di immediata suggestione in cui si indaga obliquamente il fenomeno terroristico in una visuale inedita, pur con un tema ampiamente studiato che è quello del linguaggio brigatista. Ma non è la natura del linguaggio ad interessare Vasta, quanto piuttosto il senso metafisico ed esistenziale che esso assume nell’esperienza brigatista e di cui i protagonisti di Il tempo materiale si fanno interpreti ed esegeti.

Anche la famiglia viene indagata attraverso lo sguardo stranito di Nimbo con una ferocia sottile ma visibile: l’odore, i riti, le gerarchie negli atti semplici della vita quotidiana come la buonanotte, il guardare la televisione, una passeggiata al mare.

La mattina andiamo al mare. Lo Spago, il Cotone e io; la Pietra arriva dopo col giornale. Questo indistruttibile assetto familiare vetero-borghese mi avvilisce. La tradizione che ignara di se stessa consolida forme e procedure definendo le più intime drammartugie del tinello, i posti a tavola, le posture, il ritmo del passo per strada quando il pomeriggio del sabato si compra. I parametri, i paramenti e i paraventi. La tenda del bagno a motivi floreali, i capelli di tutti e quattro avvolti in un bolo sul precipizio dello scarico.

Ferocia dello sguardo e della valutazione, che allarga la percezione dal particolare al generale, consegnandoci l’immagine perfetta della famiglia italiana degli anni Settanta, nei suoi aspetti retrogradi e stereotipati contro cui ribolliva in Italia ribellione e sovversione. Ma nello stesso tempo Vasta non muta l’ottica interna al protagonista, non allarga la visuale al resto dei personaggi. Nella limitatezza dello sguardo, nella sua fissità su Nimbo si gioca la ricchezza e pregnanza delle sensazioni, l’introiezione delle emozioni, la complessità delle riflessioni.

Lo Spago, la Pietra, il Cotone già nei loro nomi sono “mitici” ed emblematici. Nimbo nei loro confronti nutre un’incomunicabilità profonda, radicata, ideologica:

Vuoi parlare?

In effetti, penso, è la domanda giusta. Perchè sì, certo, voglio parlare, io voglio parlare sempre, per sempre, perchè parlando fabbrico qualcosa ma soprattutto perchè parlando impedisco qualcosa. Il problema è l’interlocutore. Io con te, con voi, non voglio parlare.

Eppure alcune pagine sul Cotone, mai definito come fratello, pur conservando la violenza e la crudeltà delle immagini, adombrano un affetto sincero e a tratti struggente. Anche questo elemento rientra nella complessa stratificazione e difformità di un personaggio come il Nimbo, una personalità a tratti malsana, ma estremamente intensa.

Oserei definire Il tempo materiale un “classico” per la potenza narrativa, se non fosse che una simile definizione, con il suo riportarsi alle regole della tradizione narrativa, svilirebbe i tratti più incisivi della stessa narrazione che risiedono nella radicale sovversione di qualsiasi discorso “classico” dal linguaggio al punto di vista, alle complicazioni e interferenze nel tessuto del racconto.

 

Il tempo materiale