Parco fabbrico

Ah, bella domanda. Credo che saremmo nel parchetto dove un tempo c’era la casa in cui è nato Pietro.

Pietro è uno dei protagonisti, anche se per i libri di Roberto Camurri è sempre difficile appoggiarsi alle definizioni classiche e scolastiche della narrativa, di “Il nome della madre”, il secondo romanzo dello scrittore di Fabbrico, che in tanti abbiamo già amato con “A misura d’uomo”, l’esordio per NN editore. [QUI la mia chiacchierata con l’autore] Chi conosce la capacità di Camurri di raccontare i luoghi e la provincia come introiezione dell’anima, comprenderà che non c’è luogo più adatto dove poter immaginare di svolgere questa seconda chiacchierata con lui.

Il nome della madreCon “Il nome della madre” in cui ho amato persino le virgole, Roberto Camurri è in stato di grazia. Ritmo cardiaco accelerato, gambe che tremano e vertigini in petto… per me è stato schianto e stupore. Quindi è con gioia moltiplicata che mi ritrovo a Fabbrico insieme a lui.

 

Con “Il nome della madre” non solo Roberto Camurri torna in libreria, dopo l’esordio esplosivo di “A misura d’uomo”, ma riporta i lettori a Fabbrico, il piccolo paese emiliano in cui è nato e da cui è fuggito, come si legge nell’allegra e spiazzante biografia sulla bandella.

In entrambi i romanzi Camurri ha dato voce non solo a personaggi straordinari nella piccolezza delle loro esistenze, che diventano emblematici e familiari per la loro autenticità, ma anche a uno spazio, il paese, Fabbrico, che diventa luogo dell’anima e territorio introspettivo e vitale.

Vorrei partire proprio da Fabbrico, paese reale che la scrittura di Roberto Camurri ha esaltato ed elevato a luogo esistenziale, per marcare la differenza nella continuità tra un romanzo e l’altro, la prima e la seconda prova.

Non sono la prima a definire Fabbrico la Holt italiana. Nessuno come Camurri credo sia riuscito a rendere così intensamente e letterariamente la provincia italiana, ereditandola dal modello americano.

Ma ne “Il nome della madre” Fabbrico prende ormai una connotazione propria e indelebile. Le sfumature dei colori, i rumori e i paesaggi, gli odori e gli orizzonti sono pienamente italiani e nello stesso tempo universali. In perfetta sintonia con le persone, perché i tuoi stento a chiamarli personaggi, che si muovono tra le vie e le case, i cortili e le officine del paese. Quello che hai saputo rendere con estrema esattezza è la dimensione della campagna, il suo sfiorare e perdersi nel centro abitato. Un dato di potente autenticità per chi come me ha abitato ed è cresciuta in un paese, da cui è poi fuggita come te.

Segnano un passo fondamentale e di maggiore consapevolezza narrativa il modo in cui hai attraversato Fabbrico in questo secondo romanzo e il modo in cui lo vivono i tuoi personaggi?

camurri_webRISPOSTA: Credo di essere, per quanto riguarda la mia scrittura, dentro a un percorso, mi piace pensare che ogni libro segni per me un passo in questo senso, nel trovare una maggiore consapevolezza, una maggiore maturità. Non so se ci sono riuscito, ma il mio intento era quello. E non riguarda soltanto Fabbrico, perché in questo caso il paese è qualcosa di solido e con cui avevo già fatto pace, non sentivo, mentre scrivevo, il bisogno di continuare quella lettera d’amore che era stato lo scrivere “A Misura D’Uomo”. Mi sono accorto, perciò, che Fabbrico è diventato, ne “Il Nome Della Madre”, non più il paese reale che esiste davvero, ma il luogo in cui si è formato il mio immaginario, il pozzo in cui andare a pescare le storie che mi interessa raccontare. Un po’ come quello che sono Derry o Castle Rock per Stephen King. 

 

Della Fabbrico reale di “A misura d’uomo” credo che sia rimasta una traccia importante ne “Il nome della madre”. Qualcosa per te di irrinunciabile, che corrisponde a qualcosa di indimenticabile per me lettrice.

Una sedia rossa davanti al bar in cui non si siede più nessuno.

Sbaglio? Che cosa ci fa lì?

RISPOSTA: Una delle cose più difficili nello scrivere “Il Nome Della Madre” è stato il tornare alla mia voce, ritrovarmi, non rinnegare chi ero quando ho scritto “A Misura D’Uomo”. Mi è venuto istintivo farlo, allontanarmi da quel modo di scrivere, anche, come se volessi dimostrare qualcosa, a me soltanto. Nella seconda parte della scrittura, quando ho finito la prima bozza, mi sono reso conto di quanto fosse assurdo, così nelle versioni successive, tornando a riconoscermi, mi è venuto naturale riallacciarmi alla Fabbrico di “A Misura D’Uomo”, ritrovarne i personaggi, inserirli in piccoli cameo qui, ne “Il Nome Della Madre”. E volevo che in qualche modo anche Giuseppe potesse tornare, e mettere Ettore che guarda la sua sedia, quella su cui nessuno si siede mai, mi sembrava un bell’omaggio. 

 

Un altro, determinante passo nella tua scrittura sono i personaggi. Se in “A misura d’uomo” il protagonista era Fabbrico con la sua diversa umanità, in “Il nome della madre” i protagonisti sono Pietro e Miriam insieme alle persone che li amano: il padre Ettore, la madre assente, i nonni materni Ester e Livio, e gli altri con cui incroceranno il loro cammino, tutti incredibilmente delineati nell’introspezione accurata con cui li hai donati a noi lettori. 

Come se nel primo romanzo avessi preso la misura per dare uno spazio “vitale” ai tuoi personaggi che percorresse interamente le loro esistenze e non solo i frammenti esplosivi delle loro vite.

Che cosa hanno insegnato le figure di “A misura d’uomo” agli uomini e alle donne di “Il nome della madre”?

RISPOSTA: Per quanto riguarda questa domanda non saprei risponderti, non ho scritto i due libri come se fossero un seguito, mi piace pensare che si muovano in contemporanea, che siano un diverso modo di vedere lo stesso mondo. Ne “Il Nome Della Madre” l’idea era quella di provare a raccontare l’altra faccia della stessa medaglia, partire da premesse opposte, da una figura femminile che, abbandonandoli, costringe Ettore e Pietro a essere soli, senza la possibilità di aggrapparsi a nessuno. Andare più a fondo nel tema della fragilità maschile, lasciarli soli, senza una possibilità di salvezza che non fossero loro stessi, attraverso un inevitabile confronto tra loro due. 

 

C’è una scena iniziale piena di pathos nella sua naturalistica essenzialità in “Il nome della madre”: una passeggiata solitaria di Ettore nel bosco che lo porta a un incontro ravvicinato con una famiglia di orsi. Uno di quegli stupori inattesi e straordinari che si aprono a pochi fortunati che bazzicano la natura immergendosi rispettosamente in essa.

Era grande, imponente, il pelo marrone e bagnato. Ettore si aprì in un sorriso infantile, un sorriso che si spalancò quando vide oltre quella figura enorme: un cucciolo si rotolava sulla schiena, si rialzava, trotterellando, raggiungeva l’adulto che, adesso, lo aspettava.

Da quel momento dentro di lui è come se si aprisse una crepa.
Ho vissuto tutto il resto del romanzo con questo senso di vuoto, di cui quella scena è come una prefigurazione.
È mancato ad Ettore l’esplosione di quel ruggito con cui il terzo orso protegge i suoi e da quel momento non è riuscito che ad abitare “nel più completo silenzio attorno a lui”?

RISPOSTA: Mi piaceva molto mettere i personaggi del libro a stretto contatto con la natura, con gli animali e il paesaggio, mi piaceva perché in qualche modo volevo che il loro comportarsi istintivamente fosse connesso al mondo che hanno attorno, un mondo che si muove insieme a loro, come se ne fossero estensione. Mi piaceva, inoltre, che in tutto il libro ci fosse questo senso di preannuncio, seminare momenti che avrebbero poi spiegato ciò che sarebbe successo in seguito, in qualche modo formativi, che mostrassero Ettore, e anche Pietro, nel loro lato più profondo, quello nascosto dietro ai silenzi che li accompagnano per tutta la vita, silenzi che sono sia corazza, sia autodifesa per qualcosa che emotivamente è troppo grande da poterlo spiegare, qualcosa che, contemporaneamente vogliono entrambi custodire. 

 

Non capiremmo così profondamente Pietro e il senso di perdita che vive nel suo intimo senza la scena del cagnolino, che da quel momento segnerà con la sua presenza i ritorni a casa del figlio e la sua ansia di fuga.

“Il nome della madre” non è semplicemente un libro sulla genitorialità, né tantomeno sulla maternità (non inganni il titolo: la maternità è vista a distanza, e questa distanza mostra prepotentemente, e silenziosamente, tutta la forza di abbattere clichè e stereotipi sul tema in cui ancora in Italia continuiamo ad inciampare in campagne pubblicitarie, posizioni politiche, scelte di vita e opportunità professionali) e non si esaurisce nel tema, pure molto sentito, della paternità. Forse è all’essere figlio e alla difficoltà di smettere di esserlo che “Il nome della madre” presta la sua ricerca e la sua analisi. Perché se genitori si diventa, figli si nasce, senza altra via o possibile scelta. Ed è la condizione, quella di figlio, che accomuna tutti i personaggi, pur nella diversità delle loro reazioni emotive. 

O invece più ancora che le relazioni, è la solitudine che ognuno di noi si porta dietro dalla nascita a fare da fulcro ai personaggi del romanzo?

RISPOSTA: Non so se è un senso di solitudine, lo vedo più come un problema comunicativo. L’essere mandati qui senza gli strumenti necessari per poter capire, spiegarsi, ciò che ci verrà messo davanti.

Non penso a Ettore e a Pietro e a tutti gli altri personaggi del libro come a persone sole, hanno la loro rete di affetti, sono emotivi e hanno tutti slanci istintivi verso il mondo, verso gli altri. Sono slanci che però vengono male interpretati e, forse ancora più spesso, mal eseguiti, sono tentativi goffi di entrare in connessione con gli altri, tentativi sbagliati, anche. Penso a Pietro e alla relazione che ha con le donne della sua vita: Miriam e Gaia, con suo padre, coi suoi nonni. È alla ricerca, continua, di un modo per entrare in connessione con loro, di creare relazioni che siano stabili, che cedono all’egoismo, e più che alla solitudine penso al continuo provare a trovare il proprio spazio nel mondo, il proprio posto. 

 

Passeggiando per la Fabbrico e la pianura di “Il nome della madre” siamo così giunti all’ultima domanda.

Se già con “A misura d’uomo” il timbro della tua voce era piena di fascino, con “Il nome della madre” il ritmo e il passo ha conquistato un’andatura come più certa delle possibilità e potenzialità che la lingua offre a chi la sa maneggiare. A partire dalla punteggiatura: ho amato prima di tutto le virgole in “Il nome della madre”, nonostante non sia un’amante della paratassi. 

Credo che le virgole, le tue virgole, svolgano un compito insostituibile di senso. Non senso grammaticale, che pure è presente necessariamente. Senso esistenziale: traccia della frammentarietà dei gesti e dei casi che costellano l’esistenza, e contemporaneamente nel loro susseguirsi numerose per articolare un unico periodo, lungo e piano, orizzontale come gli spazi in cui i personaggi si muovono, disegnano l’unitarietà della singola esistenza nel caleidoscopico succedersi degli eventi che ci rendono ciò che siamo.

Cosa significano le virgole nella grammatica introspettiva di “Il nome della madre”? e anche dal punto di vista della punteggiatura c’è una diversa sperimentazione rispetto a “A misura d’uomo”?

RISPOSTA: Quando scrivo per me è come se esistessero solo le virgole, è quello il mio ritmo, come se tutto fosse in sequenza, senza stacchi. I punti e, soprattutto, i punti e virgola, sono la conseguenza di un lavoro fatto a posteriori, nelle riletture. E credo che questo libro mi portasse ad avere un ritmo diverso, una punteggiatura diversa rispetto “A Misura D’Uomo”, un ritmo che si adeguasse alla storia, all’avere meno personaggi. 

Chiacchierando per la seconda volta con… Roberto Camurri
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