di Andrea Cabassi

DANZARE SULLE SOGLIE, SPROFONDARE NEI PAESAGGI

foto recensione luglio

Recensione al libro di Frederic Pajak

“Manifesto incerto. Con Walter Benjamin sognatore sprofondato nel paesaggio” (L’orma)

Manifesto incerto

Gaston Bachelard, Marcel Proust, Walter Benjamin sono autori con cui  mi sono incessantemente confrontato, li ho letti e riletti trovando sempre stimoli nuovi, avendo ogni volta un nuovo arricchimento e influenzando in modo decisivo il mio modo di vedere le cose del mondo, della letteratura, della politica. La loro scrittura, la loro filosofia, i loro interessi sono strettamente intrecciati. Gaston Bachelard, maestro di studi dell’immaginario, scrisse da qualche parte che l’immaginario di Proust era così ricco, così denso che aveva rinunciato a confrontarsi con esso; Walter Benjamin tradusse in tedesco, insieme a Stephen Hessel,  alcuni volumi della Recherche, scrisse un bel saggio su di lui intitolato “Per un ritratto di Proust”, inizialmente contenuto nei saggi di “Avanguardia e Rivoluzione” (Einaudi 1973), scrisse ancora di lui in “Di alcuni motivi in Baudelaire”, inizialmente contenuto in “Angelus Novus” (Einaudi 1995).

Ma che cosa hanno in comune questi tre grandi? Si potrebbe dire con una battuta che hanno in comune il segno zodiacale del Cancro essendo nato Bachelard il 25 giugno, Proust il 10 luglio, Benjamin il 15 luglio. Al di là delle battute hanno in comune di essere degli innovatori nei campi specifici in cui hanno operato e che sono pensatori e scrittori fuori dagli schemi, difficilmente classificabili in una corrente di pensiero (Proust compreso che potrebbe sembrare l’ultimo dei grandi narratori dell’Ottocento). Hanno in comune che affrontano in modo assolutamente originale il concetto di tempo: Bachelard, con una formazione in chimica e studioso della fisica quantistica, tiene in gran conto queste discipline per le sue riflessioni sul tempo e sullo spazio;  la temporalità in Proust è una temporalità in cui il passato sembra non essere irreversibile e sembra assumere il suo senso vero solo nel presente, nella coincidenza dei due tempi, coincidenza possibile grazie alla memoria involontaria e alle intermittenze del cuore. Coincidenza che porta a una sorta di extratemporalità, tipica dell’arte, unico antidoto alla morte; Benjamin analizza in profondità il concetto di tempo e nelle sue famose “Tesi di filosofia della storia” critica aspramente il tempo cumulativo, vuoto e omogeneo, privo di arresti e di ritorni indietro. Non solo. Egli analizza la temporalità in Proust in modo molto acuto. Ne vengono fuori analogie e differenze: se in Proust la ricerca è indirizzata al passato, in Benjamin la ricerca è indirizzata ad un passato che contiene presagi di futuri.

Bachelard, Proust, Benjamin hanno una scrittura densa e fortemente evocativa. Ogni volta che li leggo sento delle profonde risonanze emotive, spesso sensazioni ineffabili, al limite del dicibile, e che paiono sfuggirti come il sapore di una madeleine, il senso dei campanili di Martinville, una fila di alberi a Balbec.

E a proposito di  risonanze emotive non posso dimenticare il giorno in cui mi trovai a Port Bou, il luogo in cui Walter Benjamin si suicidò. Era qualche anno fa. Era il 26 settembre, anniversario della morte di Benjamin. Ero affascinato da questa cittadina, incastonata com’è tra i Pirenei e il Mediterraneo. Il paesaggio era incantevole: a sud la scogliera che precipitava vorticosamente sul mare con le onde che vi si frangevano contro intonando impetuose melodie; a Nord i Pirenei che si ergevano come sentinelle del Mediterraneo.

Port Bou: Port Bou è il confine. E’ la frontiera. Ne è l’archetipo. E’ un luogo saturo di storia e migrazioni. Da là transitavano i miliziani repubblicani sconfitti da Franco che cercavano riparo in Francia, da là transitavano le masse di profughi senza più una casa e una terra. Da là passò il grande poeta sivigliano Antonio Machado che andò a morire a Colliure neppure un mese dopo il suo passaggio. Di là transitò Benjamin, facendo il percorso inverso, nel suo tentativo di raggiungere Lisbona da dove sarebbe salpato per gli Stati Uniti alla disperata ricerca della salvezza.

A Port Bou c’è una cappella dedicata a Benjamin, costruita come una tomba con una placca di marmo grigio in cui è incisa una citazione del filosofo berlinese: “Non esiste testimonianza di cultura che non sia allo stesso tempo testimonianza di barbarie”.

Andammo quasi in un pellegrinaggio laico alla cappella. Dalla cappella c’è una scalinata di 87 gradini di ferro che scendono verso il mare dove si arriva ad una spessa lastra di cristallo trasparente che si apre sul vuoto e precipita nei flutti. Scalinata e lastra di marmo sono opera di Dani Karavan, scultore minimalista israeliano che ha fatto numerosi interventi sui rapporti tra natura e paesaggio. Questo monumento è dedicato a Benjamin. In realtà non si tratta di un vero e proprio monumento, ma di un luogo della memoria. Sulla parete di vetro è incisa un’altra citazione: “E’ più difficile celebrare la memoria dei senza nome che quella degli uomini celebri”.

 Fu una visita di grande suggestione, la nostra, che si concluse al centro culturale dedicato a Benjamin dove comprammo libri e ci fu possibile vedere alcuni filmati.

Se tutte le volte che leggo Bachelard non posso dimenticare le sensazioni che mi danno le sue pagine fortemente evocative di “Poetica dello spazio”; se tutte le volte che leggo in Proust degli alberi di Balbec, dei campanili di Martinville, del rumore delle posate e del selciato diseguale davanti al palazzo dei Guermantes mi vengono in mente le “mie” intermittenze del cuore e la memoria involontaria; quando leggo e penso a Benjamin non posso e non voglio dimenticare quello straordinario luogo, carico di senso, che è Portbou, luogo di confine. Perché Benjamin ha sempre vissuto sul confine, sulle soglie. Benjamin indugia ed è attratto dalle soglie delle case sia in “Cronaca Berlinese” sia in “Infanzia Berlinese agli inizi del millenovecento”, splendide opere ora contenute in “Scritti Autobiografici (Neri Pozza 2019); Benjamin abita sulle soglie delle discipline;  sulla soglie tra marxismo e teologia; muore su una soglia, su un confine: quello tra la Spagna e la Francia; è sepolto su una soglia: quella tra Pirenei e Mediterraneo, tra terra, cielo e mare.

Del resto anche “Manifesto incerto, con Walter Benjamin sognatore sprofondato nel paesaggio” (L’Orma editore. 2020) di Frédéric Pajak, libro pregevolissimo, piccolo capolavoro, è opera di soglia. Un testo sulla soglia. Autobiografico, storico, romanzo, romanzo grafico, saggio grafico, forse un nuovo genere inventato da Pajak. Ma è anche altro, altro che sfugge a qualsiasi definizione. Altro che è magnifico nello stile di scrittura e ottimamente tradotto da Nicolò Petruzzella. Altro che è magnifico con le tavole a china di un bianco e nero intensissimo. Si tratta di un libro che si ha paura di sfogliare per il timore di sciuparlo, ma che lo si sfoglierebbe sempre e lo si leggerebbe e si rileggerebbe. Con quelle chine da guardare e riguardare, bellissime  e stupendamente embricate con il testo.

Ma chi è Frédéric Pajak e cosa è più precisamente “Manifesto Incerto”? 

Frédéric Pajak è nato nel dicembre 1955 a Suresnes, comune dell’Ile de France nella banlieue ovest di Parigi.  E’ disegnatore, scrittore, editore. E’ figlio del pittore Jacques Pajak. Ha avuto una vita assai complicata. Già da bambino sognava di scrivere libri fatti di parole e immagini. A sedici anni è stato ammesso all’Accademia delle Belle Arti, ma vi è rimasto solo un semestre insofferente alle regole a cui doveva attenersi. Ha fatto numerosi mestieri prima di affermarsi: operaio, grafico, cuccettista sui treni notturni, inserviente in un macello industriale, ha conosciuto un grande stato di indigenza che lo ha portato a chiedere l’elemosina nei boulevard di Parigi.

“L’immense solitude avec Friedrich Nietzsche e Cesare Pavese, ophelins sous le ciel de Turin” (PUF 1999) è l’opera che lo ha fatto conoscere. Per questo libro nel 2000 ha ricevuto il premio Michel-Dentan. Il libro è stato pubblicato in italiano nel 2004, con la traduzione di Gabriella Messi  e con il titolo che parafrasa l’originale: “L’immensa solitudine. Con Friedrich Nietzsche e Cesare Pavese, orfani sotto il cielo di Torino” (Silver Spoon. 2004).

Pajak ha inventato una forma originale dove testo e disegno sono intimamente embricati e devono essere letti e guardati insieme perché il disegno interpreta il testo e viceversa, argomento che affronterò anche più avanti.

Si sono, poi, susseguite numerose altre opere (per lo più biografie di grandi scrittori, scrittrici, filosofi) per le quali Pajak è stato sovente premiato fino ad arrivare a essere promosso Ufficiale dell’Ordine delle Arti e delle Lettere nel 2014.

“Manifesto incerto” è l’impresa letteraria di una vita, quella che Pajak già vagheggiava quando era un bambino di dieci anni. Si tratta di una serie di libri arrivata all’ottavo volume. Con il terzo, “Manifeste incertain 3. La mort de Walter Benjamin. Ezra Pound mis en cage” (éditions Noir sur Blanc. 2014) ha vinto nel 2014 il Premio Médicis. Con “Manifeste incertain 7. Emily Dickinson, Marina Cvetaeva.  L’immense poésie” (éditions Noir sur Blanc. 2018) ha vinto il Premio Goncourt per al biografia nel 2019 .

In “Manifesto incerto 1. Con Walter Benjamin sognatore sprofondato nel paesaggio sprofondato nel paesaggio” apprendiamo che:

“All’alba, in un bar di Roma accanto alla stazione ho un titolo: Manifesto Incerto”… il libro riprende forma, che è poi la forma di una brutta copia molto lamentosa: lo stato d’animo di un solitario, l’astratta rivalsa di un cuore spezzato, un grido levato contro le ideologie, contro lo spirito dei tempi e contro il tempo che passa” (Pag. 7-8),

Il libro continua con alcune intense note autobiografiche, accompagnate da bellissime tavole a china per arrivare, poi, a parlare del pittore van Velde e di Beckett che hanno in comune le tematiche dello sradicamento e dell’esilio. Infine Benjamin. Il Benjamin che parte  dal porto di Amburgo il 7 aprile 1932 con il cargo Catania, destinazione Barcellona. Che da Barcellona si imbarca per Ibiza con il Ciudad de Valencia. Il Benjamin che arriva di nuovo a Ibiza l’11 aprile 1933 con il Ciudad de Malaga. Una storia inserita nelle drammatiche vicende dell’inarrestabile ascesa del nazismo. La Storia che si intreccia con le storie, quella di Benjamin e quella di Pajak. C’è rispecchiamento nelle vicissitudini di Pajak con quelle di Benjamin; c’è rispecchiamento nelle loro modalità di essere nel mondo, nella genesi delle loro idee. Vite intrecciate che hanno in comune lo sradicamento, la flanerie, il pensiero libero da pesanti zavorre ideologiche, ma sempre impregnato di una forte tensione etica. Pajak e Benjamin sono uomini che danzano sulle soglie. Scrive giustamente Pajak di Benjamin:

“E’ uno scrittore. Scrittore? O forse un pensatore, un lettore, un traduttore?… Di sicuro ha la fama di essere un autore incomprensibile. Un filosofo? Che definizione dà di sé Benjamin nel suo curriculum vitae? Ne redige sei versioni, e ciascuna è il racconto di una vita diversa” (Pag. 44).  

Il fatto è che Benjamin, il flaneur  Benjamin è sempre fuori luogo e, forse, l’unico luogo in cui (s)radicarsi è la parola. Scrive al proposito Pajak:

“Scavatore che scava nella cavità delle parole” (Pag. 52).

Se Benjamin viaggia da Amburgo a Ibiza, poi ancora a Ibiza – ma Pajak ci parla anche dei soggiorni di Benjamin a Capri e a Napoli, un soggiorno che gli ispirò quello straordinario saggio, scritto insieme a Asja Lacis, “Napoli porosa”( Dante &Descartes 2020) – Pajak viaggia tra Roma, Losanna, la Sicilia. Attraversa una Sicilia desolata in un mese di aprile proprio come Benjamin, che in quel mese era arrivato a Ibiza sia nel 1932, sia nel 1933 – aprile il più crudele dei mesi, direbbe Eliot – e passa per Scicli, Ragusa, la barocca Noto. A Losanna  incontrerà due simpatizzanti neonazisti e rifletterà sulla strage alla stazione di Bologna, sul fascismo di allora e quello di oggi. Se Benjamin a Ibiza è sprofondato nella piacevole spensieratezza ispiratagli dal bellezza del paesaggio, il più “intatto” che avesse visto (da qui il titolo del libro), quando è a Capri, nel 1924, può vedere Mussolini. Scrive Pajak:

“Il 16 settembre, a mezzogiorno, Benito Mussolini, il nuovo capo del governo italiano, sbarca sull’isola in pompa magna, attorniato dalla sua guardia personale, dai fedelissimi e da alcune schiere di miliziani. A dispetto delle aspettative, la parata e la scenografia imponenti suscitano nella popolazione una fredda indifferenza.

Benjamin è colpito dallo scarso carisma del dittatore: ‘Ha un aspetto diverso dal rubacuori che mostrano le cartoline illustrate; torbido, pigro e di un orgoglio untuoso, come se fosse cosparso di olio rancido. Ha il corpo goffo e flaccido come il pugno di un droghiere obeso’”(Pag.46).

Il testo è accompagnato da tavole straordinario tra cui una di Mussolini. 

C’è identificazione tra Benjamin e Pajak. L’esperienza di Pajak, che ha fatto svariati mestieri e che ha vissuto ai margini, lo porta a centrare la sua attenzione su ciò che, nel pensiero benjaminiano, va oltre il marxismo tradizionale:

“Al proletariato eroico  contrappone il Lumpen ma anche la puttana, il flaneur – che guarda ma non compra – , il cenciaiolo che rovista nei cassonetti. E si identifica  con quest’ultimo, che ‘alle prime luci dell’alba solleva col suo bastone gli stracci linguistici, per gettarli nel suo carretto brontolando, caparbio e un po’ ubriaco, non senza agitare nel vento del mattino, ogni tanto, l’una o l’altra di queste mussole sbiadite – l’ ‘umanità’, l’ ‘interiorità’, l’ ‘approfondimento’’’  (Pag. 147).

Il che ci ricorda le citazioni poste sulla cappella e sulla vetrata del monumento dedicati a Benjamin a Port Bou.

Nel testo ci sono riflessioni che riguardano anche il tempo, quel tempo che Benjamin aveva analizzato in tanti suoi scritti, quel concetto di tempo che il filosofo tedesco aveva affrontato traducendo Proust:

“In fondo non ho capito se mi piaccia o no respirare il tempo che passa. Sentirlo colare in me che colo in lui – il corpo a corpo tra il mio essere umido appeso a una gruccia e questa assurdità che è la durata, questa discesa infinita da un inizio a una fine. Inizio di cosa? E dove finisce, la fine?

Certo, scandiamo il tempo in secondi, in giri di lancette; abbiamo architettato questa storia delle ore, dei giorni, delle notti, degli anni e dei secoli per sottrarci alla crudeltà del tempo, il tempo che fa e disfa a suo piacimento. Questo fratello. Questo bambino. Questo padre castigatore. Per quanto si provi a rintuzzare gli enigmi, questi all’alba riaffiorano tra le lenzuola, fantasmi dei nostri fantasmi, presenza onnipresente, famigliare e ostile” (Pag. 86).

Come si può vedere è uno stile denso e intenso. La tavole a china, poi, non illustrano semplicemente il testo, ma lo interpretano.

In una breve ma bella recensione su “L’espresso” dal titolo, in realtà un po’ fuorviante, “Un selfie con Walter Benjamin”, Wlodek Goldkorn scrive:

“(Pajak) ha composto un testo che mescola, anzi abolisce, la divisione per generi. Il libro è sia un romanzo grafico sia un saggio grafico. Non solo: le vicende sulla vita dell’autore e narratore sono intrecciate a quelle del protagonista. Infine il rispecchiamento fra le parole e le immagini (potenti) in bianco e nero (intensissimo) ricalca in modo molto suggestivo le teorie di Benjamin al riguardo. Insomma siamo di fronte a un piccolo capolavoro” (L’Espresso. 83. 10 maggio 2020).    

All’inizio di questa mia recensione ho anticipato alcune considerazioni  che, forse, sarebbero state più pertinenti in occasione dell’uscita di “Manifesto incerto 3”, quello dedicato alla morte di Walter Benjamin a Port Bou. Ma le cose sono così collegate tra di loro, i temi tornano e si ampliano, che ho ritenuto di poter parlare di Port Bou anche recensendo “Manifesto incerto 1”. E va dato grande merito L’Orma Editore che ha deciso di pubblicare l’intera serie di “Manifesto incerto”.

Per chi volesse avere un’idea complessiva della serie rimando al sito https://www.viceversaletteratura.ch/. Vi si potranno trovare riassunti della serie e altre informazioni di grande interesse.

Wlodek Goldkorn parla di rispecchiamento tra narratore e protagonista, tra parole e immagini. Aggiungerei che c’è rispecchiamento tra lettore, narratore e protagonista. Mi si conceda, allora,  di concludere quest’analisi con una citazione di Proust da “Il tempo ritrovato:

“In realtà ogni lettore, quando legge, non è che il lettore di se stesso. L’opera dello scrittore  non è che una sorta di occhiale  da lui offerto al lettore allo scopo di permettergli di scorgere ciò che forse, senza il libro, non avrebbe veduto in se stesso” (Mondadori. 1970. Pag. 221).

Lo Scaffale di Andrea: Manifesto incerto. Con Walter Benjamin sognatore sprofondato nel paesaggio