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Facciamo Lindos in Grecia, un posto che adoro.

Questa è la risposta di Alberto Garlini, quando gli ricordo, avendo già una volta chiacchierato con lui QUI per “Piani di vita” (Marsilio), il filo conduttore che lega i diversi chiacchierando da sempre: un luogo in cui ci saremmo potuti dare appuntamento per chiacchierare dal vivo.

foto presa dall'account twitter di Alberto Garlini
foto presa dall’account twitter di Alberto Garlini

Il nuovo romanzo di Alberto Garlini, “Il canto dell’ippopotamo” (Mondadori), è particolarmente nelle mie corde perché racconto, pieno di poesia e di letteratura, di un’amicizia con il passo di un memoir e il ritmo di un romanzo. “Il canto dell’ippopotamo” infatti ha l’introspezione ficcante del memoir unito al procedere romanzesco; il passo doppio di una storia d’amicizia e le volute del racconto di un momento culminante e decisivo dell’esistenza.

Per uscire dallo stallo ci piaceva usare la metafora del canto dell’ippopotamo, che rubammo a Ester: ci piaceva considerarci degli animali sgraziati, degli ippopotami appunto, che però possono cantare con una voce vera. Un canto che all’alba, col sorgere del sole sulla Pozza d’acqua in mezzo alla savana, ti fa pensare che la vita ha un senso ah, che la vita è una povera e misera cosa Ma esiste ed è bella, ed è bella in modo stupefacente proprio perché noi ippopotami la cantiamo e la lodiamo sporchi di tutto il fango che si può trovare in questo mondo di merda. Ecco cosa pensavamo per uscire dallo stallo, e devo dire che ci sentivamo davvero a nostro agio nei panni degli ippopotami a bagnomaria nel fango tropicale. la lordura ci piaceva, ci liberava.

Chi sono gli ippopotami? vorrei che lo spiegassi tu, proprio all’inizio di questa chiacchierata. 

GarliniGli ippopotami erano parte di un gioco che facevamo con Pierluigi. Una notte, durante una festa, mentre parlavamo di cose altissime e super poetiche o filosofiche, perché minimo minimo io e lui parlavano di Dante o di Heidegger o di qualunque cosa conoscevamo in modo tanto approssimativo da dare giudizi trancianti, una ragazza molto carina, una di quelle ragazze di una bellezza che è già una critica del creato contro le astrazioni, e che si faceva un punto d’onore di riportare a terra i nostri discorsi troppo intellettuali, ci disse, per scherzare, che non sapevamo nemmeno di cosa stavamo parlando. Una frase del tipo: “Parlate parlate ma non sapete nemmeno di cosa”. Allora Pierluigi le chiese di spiegarcelo: “Di cosa stiamo parlando, diccelo tu…” e lei, “Del canto dell’ippopotamo!”. C’era anche altra gente che ci ascoltava e tutti si misero a ridere, o così ricordo, perché in fondo ci stava prendendo per il culo, ma ridemmo anche noi parecchio di gusto. Era una frase un po’ folle ma nei giorni successivi scoprimmo che c’aveva azzeccato, che in fondo eravamo proprio degli ippopotami, animali sgraziati che volevano cantare, e così in seguito tutte le volte che volavamo troppo alti coi nostri discorsi ci davamo degli ippopotami, perché ricordare quella frase ci riportava in modo salutare a terra.

Pierluigi Cappello

Pierluigi è Pierluigi Cappello, una delle voci poetiche contemporanee più feconde e interessanti, di cui in “Il canto dell’ippopotamo” tu proponi una lettura dell’opera e della personalità che si intreccia con il romanzesco e con il memoir della vostra amicizia in maniera fascinosa e originale.

Pierluigi era originale e irripetibile e cercava l’unicità del suo sentire, io non ero originale e irripetibile e cercavo la pace nel fiume delle vite che scorrevano fuori di me. Punto di sublimazione e punto di fusione. cerca dentro di te o cerca fuori di te. Narciso e Boccadoro. vecchia storia insomma. Non avevo ancora capito, e se lo avessi capito mi sarei risparmiato tanto lavoro, fatica e dolore, che questa vecchia storia segnava la distinzione tra poesia e prosa, tra versi e romanzo. Sia detto senza delirio: il poeta lirico deve raccontare la sua unicità, sublimandola in materia universale; il romanziere, consapevole di non essere unico, deve raccontare la vita che scorre fuori da sé, fondendosi con essa. Due visioni antitetiche del mondo, tutte e due vere tutti e due che rispondono una voce, ha una chiamata, a una “vocazione”, insomma.

Non è questo il senso più intimo e anche il movimento narrativo più originale e inedito del romanzo: vita e letteratura, amicizia e “vocazione” che si intrecciano in un racconto che ha il passo lieve dell’introspezione, la profondità dell’analisi e l’agilità della narrazione?
Il canto dell’ippopotamo è il racconto della “vocazione” di due giovani, la loro formazione letteraria ed esistenziale?
Che cosa ha rappresentato per Alberto Garlini, uomo e scrittore, l’amicizia con Cappello? Quale il nesso delle vostre esistenze?

GarliniSì certo, il libro è proprio questo, il tentativo di narrare un periodo difficile della mia vita, in cui ho deciso di lasciare gli studi in giurisprudenza e la pratica forense, per dedicarmi a una assurda carriera letteraria, ammesso che si possano accostare i termini carriera e letteratura. Vivevo in provincia, nella provincia friulana, ed ero staccato da tutto se non dai miei sogni e dai libri che leggevo fino a sfinirmi, ogni giorno andavo in studio con il magone, e sognavo di stare in Spagna con Hemingway. In quel periodo feci l’obiettore di coscienza a Ruda, e organizzai una serata di poesia, fu lì che incontrai Pierluigi, che aveva già letto un mio racconto che gli aveva passato un critico udinese, Mario Turello. Pierluigi lesse qualche poesia tra la luce, le volute di fumo e i fogli che planavano a terra. Pierluigi leggeva benissimo e fu come se quella sera ci fosse apparso il dio della poesia, una specie di incarnazione di quella forza tellurica, carsica, che attraversa l’intera storia dell’umanità. Ci riconoscemmo quasi subito e rimanemmo tutta la notte a parlare, era la prima volta che incontravo una persona che parlava il mio stesso linguaggio, che non aveva paura dell’altezza e del ridicolo della poesia. Ed era la prima volta che sentivo apprezzamenti positivi su qualcosa che avevo scritto. Per molte ragioni, sia io che Pierluigi venivamo da periodi complicati, pieni di costrizioni e di dolore (anche se il dolore vero sarebbe sbocciato di lì a poco), ed era la prima volta che ci sentivamo davvero liberi, liberi di far festa, liberi di inseguire i nostri sogni letterari. Lui era già un poeta, sapeva di avere dentro un luogo dove esisteva una sorgente d’acqua purissima, doveva solo trovarlo. Io invece da allora, prendendo molte strade sbagliate, ho cercato di essere un romanziere. Lui cercava dentro di sé, io fuori di me. Lui sapeva di avere una originalità, io volevo abbandonarmi dentro le storie altrui. Questa era la nostra complementarità. E anche la bellezza credo di una amicizia che non ha mai avuto tentennamenti.

 

Mi sembra, Alberto, che nella tua ultima produzione narrativa ci sia un’attenzione alla narrazione in sé. Già nel precedente romanzo, “Piani di vita” (Marsilio) mi era parso di intravedere la cura e l’attenzione prestata al come narrare gli eventi, proponendo diversi piani narrativi. In questo nuovo libro mi sembra che invece il punto focale della tua attenzione sia il rapporto che può intercorrere tra autobiografia e finzione, tra memoria e narrazione, tra verità e romanzesco. Elemento di riflessione e indagine che si incarna in un personaggio principalmente: Esther, che in una nota finale al testo riveli essere l’unico personaggio di finzione dell’intero romanzo.
Che ruolo spetta ad Esther sia nell’economia dell’intero romanzo che nel formare una triade tra un rapporto vero e vissuto come quello che ha unito te e Pierluigi, e quello con Esther che come tu affermi condensa, senza nessun appiglio con dati reali, diverse vicende amorose del periodo che racconti?

GarliniEsther era un personaggio necessario per raccontare un altro aspetto molto ricco di quegli anni e cioè la vita sentimentale e affettiva, che è stata molto turbolenta, molto appassionata, e per certi aspetti venata di follia ingenua. Forse a distanza mi vedo come una specie di eroe romantico, ma in realtà era solo uno sprovveduto, un ingenuo che si buttava in tanti amori senza avere il bandolo di nulla, in modo autodistruttivo. Esther è il personaggio di fantasia che in forma di fiction racconta questo aspetto di me. Esther forse è stata violata, e comunque è travolta da un dolore, che però la disgrega, in un certo senso è l’altra faccia di Pierluigi, che soffre ma che mette a frutto il dolore nella poesia, lo cristallizza in bellezza, mentre Esther (un po’ come me all’epoca) è vittima del dolore e ne viene disgregata. Detta così sembra una soluzione facile o troppo lineare, però credo di essere davvero stato al centro di questa dicotomia, potevo andare da una parte o dall’altra, poi per fortuna sono andato dalla parte giusta ma non era detto. Ora che rileggo, visto che sono in una fase di ricostruzione di me, e ogni tanto devo riconoscermi anche qualche merito, forse la locuzione “per fortuna” è riduttiva, c’ho messo anche del mio se da venti anni faccio un festival importante e se sempre da venti anni pubblico.

 

Con “Parole povere”, Pierluigi era riuscito a sanare la ferita tra uomo e parola.

In “Il canto dell’ippopotamo” irrompe la potenza della parola di Cappello, e il percorso che l’ha portata a essere tale. Tu la racconti con la competenza del saggista e con la partecipazione dell’amico e del testimone: questa commistione ha una forza esplosiva che lascia il lettore spiazzato e trasformato.
Il farsi della poesia è un miracolo; fermare quel momento in un romanzo ha del miracoloso e credo che questo sia l’incanto del tuo libro.

la grande poesia sembra sia scritta con la collaborazione del mondo intero, e tutti la sentono propria, persino io.

Sì, persino io, mi aggiungo in coro a te, come spero gli altri lettori del libro.

se ho scritto questo libro forse è solo per arrivare a un certo tipo di silenzio e farvi leggere le parole di Pierluigi, parole che provengono dal caos, anche dal mio caos personale, ma che sono riuscite a distillarlo.

Distillare il caos: cos’altro si può aggiungere sulla poesia di Cappello?

GarliniSi potrebbero aggiungere molte cose, credo che ogni persona che abbia letto la poesia di Pierluigi ci abbia trovato qualcosa di vero e di personale, proprio per questo dico che la sua poesia sembra scritta con la collaborazione di ognuno di noi, è nostra in un certo senso tanto quanto è sua. Nel canto dell’ippopotamo ho raccontato quello che ho visto accadere davanti ai miei occhi, come la sua poesia è piano piano maturata, come è riuscita a inglobare il dolore del mondo e anche la sua miseria, come non si è accontentata di essere solo distillata bellezza, ma ha trasformato le parole in un luogo utopico per tutti noi. Strano pensare a un libro come a una forma di silenzio, ma credo che il canto dell’ippopotamo sia proprio questo, tante parole per arrivare a un momento in cui chiedo ai lettori di fare un gesto attivo verso la poesia di Pierluigi, e provare a sentirla al termine di tutte le parole che ho scritto io. È come se avessi voluto abbracciare tutti quelli che sono arrivati a quel punto della lettura, questo libro è anche un abbraccio, a Pierluigi, a chi legge, e anche a me stesso, in un certo senso, un abbraccio che mi perdona di tutta la mia stupidità, ingenuità, vanagloria, assurdità. Solo chi si accetta credo possa abbracciare gli altri senza difese, abbracciarli davvero. È lo stesso meccanismo dell’abbraccio a un amico, è vero proprio perché l’amico ti conosce ti accetta e ti perdona e tu fai lo stesso con lui, nel libro ho cercato di creare questa alchimia, questa verità umana. Questo libro è un abbraccio.

 

C’è un altro elemento che arriva prepotentemente al lettore, ed è la crudezza e la precisione, senza nessuna mistificazione, con cui presenti te stesso nelle pagine. Credo che sia un atto di coraggio denudarsi così in un romanzo insieme con i lettori. Mostrarsi umano, e non solo un uomo.
Per concludere questa nostra seconda chiacchierata, ricca e altrettanto feconda della prima, propongo nuovamente delle righe incisive dal tuo romanzo che mi sembra tocchino il nervo scoperto di ciò che sia il racconto di sé, e del senso e sentimento letterario di cui si fa carico. Le lascio a te per chiarirne senso, direzione, prospettiva e immaginario, o qualsiasi cosa si celi o sia sbandierato in esse:

chissà poi com’è andata veramente, e chissà se c’è un veramente nelle storie che ci raccontiamo. Io provo a essere onesto, di più non posso fare.

GarliniÈ quello che ci chiediamo ogni volta che raccontiamo una storia, raccontiamo quello che vediamo, le impressioni che abbiamo avuto, ma c’è un veramente? c’è qualcosa di vero? Certo che c’è, verrebbe da dire, ma sta in mezzo a questo lavoro di costruzione che facciamo a ogni parola. Sono più vere le vocali, le ripetizioni, o quella che chiamiamo narrazione? quando scrivi poesia o scrivi un romanzo come questo non puoi fare a meno di cercare una verità ulteriore che sta nella pasta sonora, nella microcitazione, nell’alternarsi esperienziale di vuoto e pieno, buio e luce. Ci sono intere sequenze di pagine che io vedo dipanarsi come buio e luce, in un sistema binario che scavalca il senso palese, per così dire. Non voglio proporre teorie misticheggianti, ma dire solo che suoni e immagini formano il senso tanto quanto il senso più propriamente narrativo. Ecco, il veramente sta lì in mezzo, nella partecipazione emotiva di chi legge e di chi scrive, il veramente è un sentimento cristallizzato in parole, che si deve percepire, perché se non si percepisce non c’è letteratura, e non c’è nemmeno una verità, che io vedo umanamente come incontro. Ho cercato di fare questo nel canto dell’ippopotamo, anche se non so se sono riuscito a spiegarlo bene. 

Vi invito a leggere “Il canto dell’ippopotamo” per accertarvi di persona di quanto Alberto Garlini sia riuscito a spiegarlo bene.

Chiacchierando (per la seconda volta) con… Alberto Garlini