Il paesaggio dal balcone è desolante. Il sole torpido che traspare dalla nebbia sembra essere stato zitto per anni. La balbuzie di chi impara a parlare daccapo, ogni volta che apre bocca. Alcune fabbrichette chiuse spuntano dal bianco come relitti. C’è la crisi, i lavoratori sono a casa, e la fatica degli anni passati si è trasformata in un monumento funebre. I capannoni abbandonati sono le lapidi. Tra le fabbriche, ecco i condomini geometrici degli anni Sessanta colmi di extracomunitari che vivono di espedienti: e le fattorie dei vecchi contadini con tanto di balle di fieno in bella vista. Il miracolo del Nordest, l’ex miracolo. A completare il quadretto, in fondo si alza il tendone di un circo da quattro soldi. Il circo Medano. Perché la R di Medrano è staccata.

Immaginatemi sul balcone di un condominio alla periferia di Treviso, ovvio e inevitabile sfondo, per chiacchierare con Alberto Garlini di “Piani di vita” (Marsilio 2015).

Piani di vita è uno di quei titoli felici per la polisemia che nasconde e di cui il lettore diventa consapevole solo a lettura ultimata e con pienezza di riflessioni. La polisemia mi sembra la cifra del plot del tuo romanzo, che non solo gioca a nascondino con i generi e i linguaggi (Marco è uno sceneggiatore e nel romanzo si apre un secondo piano di narrazione che è appunto la storia della sceneggiatura che sta scrivendo, per poi scoprire che c’è un ulteriore piano narrativo, insospettato per il lettore, in cui Marco è romanziere), ma è un canto alla forza dirompente della letteratura, non solo quella ufficiale rappresentata dai “Mottetti” di Montale ma anche a quella che si fa vita in alcuni personaggi, come Fatima, il più affascinante e polisemico del romanzo, o il padre di Marco, poeta e bugiardo, per finire alla tigre, correlativo oggettivo ma anche emblema del “realismo magico” che sembra aleggiare nel tuo romanzo nella sua espressione più vera e meno trita. 

Se dovessi tentare una definizione, parlerei di un romanzo pieno di riferimenti letterari e metaletterari, senza essere un romanzo metaletterario. Piani di narrazione che diventano piani di vita, nella concretezza delle vite dei personaggi. Un intreccio equilibrato quanto inestricabile che avvince il lettore, ma nello stesso tempo lo stuzzica.

Sono nati da subito così i personaggi, nella loro suggestiva polisemia, oppure era l’urgenza delle loro esistenze e fragilità a premere per essere raccontata?

RISPOSTA: Più che una domanda, mi sembra un critica, e anche molto intelligente, al mio romanzo. Intanto ti ringrazio. Proverò a essere all’altezza della domanda nella risposta. Credo che tu abbia ragione su quasi tutto: il mio è un romanzo che gioca sull’equivoco, e nel testo questo gioco è esplicitato in molto molto palese: in sostanza tutti noi, per sopravvivere, o anche solo per vivere, ci raccontiamo una storia nella quale ci identifichiamo, ma non è detto che questa storia entri poi in contatto con le storie delle altre persone, o, a un livello diverso, che questa storia abbia a che fare con la realtà. Viviamo in una sorta di costante fiction, che ci fa scegliere lavori, amicizie e amori. Che ci determina, insomma. Una sorta di costante fraintendimento, che ci rende indecifrabili gli uni agli altri, in mezzo a una realtà opaca, che non ne vuole sapere delle nostre storie e che alla fine ci presenta il conto. I personaggi che racconto sono molto lontani gli uni dagli altri: uno sceneggiatore gay che vive a Roma, cosmopolita e ricco, e una coppia di musulmani che vivono un periodo difficile della loro vita e si chiudono ancora di più. Sono destinati a non capirsi, a fraintendersi, e di equivoco in equivoco si sfiora la tragedia. Ma il mio romanzo non è una tragedia: uso i meccanismi della commedia all’italiana, o della commedia tout court. Non è il dolore a portarci a una conoscenza accresciuta di noi e del mondo che ci sta intorno, a una accresciuta saggezza, ma è invece proprio l’equivoco. Di equivoco in equivoco, in qualche modo, miglioriamo come persone, capiamo chi siamo, accresciamo la nostra saggezza. Se  ci pensiamo, il meccanismo narrativo del romanzo è proprio quello della commedia: una ragazza musulmana che si innamora di uno sceneggiatore gay, ma gioco sopra questo schema trito, diciamo pure un cliché, e lo volto invece in tragedia, o ai limiti della tragedia. Dico ai limiti perché non si arriva alle estreme conseguenze dell’equivoco. Sono convinto che noi siamo qui, e qui c’è ancora l’umanità, proprio perché l’equivoco ha una forza salvifica, ci costringe a riavvicinarci alla realtà, a ripatteggiarla, a trovare un equivoco più vicino a ciò che è. Ma tutto questo ha una spesa, un costo. E questo costo è rappresentato simbolicamente dalla tigre. 

 

Piani di vita, piani di narrazione e continuando l’immagine così saliente dei piani, piani di relazioni umane nella loro gamma più vasta e completa: genitoriali, amorose, erotiche, filiali, di semplice conoscenza. Ma non ti sei fermato a descrivere la casistica nella sua completezza, perché i rapporti sono sempre complicati e sfumati, e toccano insieme ai sentimenti temi di grande attualità: l’omosessualità, l’handicap, l’integrazione, l’eutanasia. Ma il tuo non è un romanzo sociologico, perché i temi sono strettamente legati al romanzesco e alla narrazione. Intrecciati profondamente al tema dell’equivoco, che tu hai così ben delineato. 

Come sono entrati temi così complessi, e sfiorati con forza, in “Piani di vita”? Sono frutto dell’urgenza di toccarli o connaturati alla narrazione, come spuntati da sé all’interno del romanzo?

RISPOSTA: In realtà, il tema di ogni nuovo romanzo nasce da domande lasciate irrisolte nel romanzo precedente, o che si sviluppano dal romanzo precedente. Nella “Legge dell’odio” avevo trattato il fanatismo politico, e in particolare il fascismo, cercando di delinearlo non in modo mostruoso, ma come qualcosa di antropologico, in qualche modo connaturato all’uomo, come un suo lato oscuro e malvagio. Il personaggio principale era Stefano Guerra che vedeva l’eroismo in una declinazione apocalittica, ma che era effettivamente coraggioso, anche se di un coraggio legato alla negatività della morte. Nei romanzi precedenti avevo scelto sempre dei protagonisti coraggiosi, che sfidavano la società in nome di una loro verità interiore, sostenuta fino alle estreme conseguenze. Con Stefano Guerra ho cominciato a dubitare dell’esistenza di questa verità interiore, sostituendola con il concetto di narrazione, o di falsificazione interiore. Il coraggio di Stefano e degli altri miei protagonisti non aveva più niente di positivo, era fedeltà a una fiction personale. In “Piani di vita” sviluppo questo tema, cercando appunto personaggi fedeli alle loro narrazioni, sordi alle narrazioni altrui e ai segnali di avvertimento che la realtà manda loro. Diciamo che il piano teorico era molto chiaro all’inizio, ma non credo che un romanzo molto pensato “filosoficamente” possa essere interessante, si rischia di essere meccanici. Per cui, quando penso la storia mi fido molto del mio istinto, cerco i simboli che mi paiono adatti, i gesti che mi fanno squillare in testa qualcosa, le relazioni, le frasi. È come una sorta di mare dove ondeggiano diverse possibilità, fino a quando quella migliore diventa più luminosa. Quindi, avevo tutto chiaro, ma nello scrivere ho seguito l’istinto e non il ragionamento.

 

Il piano più fascinoso dei tuoi personaggi è senza dubbio la capacità di narrarsi e di credere alla propria narrazione come alternativa alla realtà quando questa si fa irrespirabile. La tigre è emblematica: sembrerebbe il tratto fiabesco, irreale, fittizio, magico e invece ogni volta è lei a riportare la narrazione sul binario della concretezza. Come un deus ex machina che riporta i personaggi che si intrecciano e sovrappongono nel romanzo al piano principale, senza districare i nodi.

Mi piace particolarmente l’idea di una scrittura basata sull’intuito. Visto che hai concesso di entrare nell’officina dello scrittore, ne approfitto per indagare la lingua. Sorvegliata, introspettiva, lessicalmente accurata. A volte sembra catturare l’ontologia dell’esistenza, raggiungere gli abissi dell’introspezione o librarsi nel sublime della poesia, con l’attenzione cromatica e la metafora.

È anch’essa “intuitiva” o frutto di labor limae? Come scrive Alberto Garlini?

RISPOSTA: Credo che ogni scrittura sia fondamentalmente una ri-scrittura. Non credo al “buona la prima”. Bisogna sempre lavorare, fino a quando non ti sembra il massimo che puoi fare. Come dico io, fino a quando la pagina non si “esaurisce”. Non c’è altro da aggiungere, altro da modificare, il ritmo gira. Ho bisogno di arrivare a questo punto prima di passare alla pagina successiva. E quando ci arrivo è difficile che modifichi. Per cui la prima stesura è molto laboriosa ma è quella definitiva. Non riesco a proseguire se non cammino sul solido, e qualcosa di imperfetto alle spalle spinge a diventare imperfetti anche dopo. Nello scrivere sono ossessivo-compulsivo, per cui mi estraneo dal mondo e vado da qualche parte dentro di me, è come andare in immersione e la mia concentrazione è tale che dopo un po’ devo uscire dall’abisso. Quindi mi immergo, risalgo, mi immergo, risalgo anche trenta quaranta volte in una mattina di scrittura. Certe volte mi viene la paura di rimanere sotto, allora schiocco delle dita mentali e risalgo in superficie. Non so nemmeno se è paura, forse si tratta di una sorta di antipatica attrazione verso la realtà, perché il mondo in immersione, il mondo delle parole, della storia che racconto, è bello e caldo. E forse è il mondo dove vorrei vivere veramente. Un mondo di fiction.

 

Oltre che come scrittore ti ho molto apprezzato come critico e intervistatore, in un librino che di piccolo ha solo il formato ma che è di grande e pesante formato nei contenuti: “L’arte di raccontare” (Nottetempo), scritto a quattro mani con Caterina Bonvicini e che raccoglie le interviste pubblicate da entrambi sul Fatto Quotidiano. 

“Mi piace sentire gli scrittori parlare del loro mestiere” – e si sarà capito dalla precedente domanda che condivido il tuo piacere.

“Volevo entrare nel laboratorio della scrittura, ascoltare le voci degli autori. Ritagliare un piccolo spazio dove rendere onore a chi fa una cosa e la fa bene. Come diavolo hai fatto a scrivere “Addio alle armi” , dottor Hemingway? Adesso me lo spieghi e, se necessario, starò qui fino a notte fonda per tirarti fuori tutto ciò che sai. Alla fine questa è l’unica domanda , vera e ingenua, che ho posto agli scrittori intervistati.”

Colm Toìbìn, John Banville, Emmanuel Carrère, Javier Cercas, Petros Markaris, Luis Sepùlveda… con chi hai tirato fino a notte fonda? Ma soprattutto, se hanno risposto alla tua unica, vera domanda hanno saziato solo la curiosità del lettore, del critico e dell’intervistatore, o hanno anche mutato e condizionato lo scrittore? C’è qualcosa di “Piani di vita” che è un debito o un omaggio agli scrittori che hai intervistato nella tua vita? (ricordiamo che sei tra gli organizzatori di “Pordenonelegge” una delle più interessanti e ricche manifestazioni italiane dedicate alla libri e alla lettura, agli scrittori e ai lettori) oppure lo scrittore è separato dal critico? C’è qualcosa che non avresti potuto scrivere in quel modo senza aver interagito con un altro scrittore?

Aggiungo una piccola curiosità. Tutti scrittori quelli con cui hai dialogato in “L’ arte di raccontare”, invece a quale scrittrice hai fatto un’intervista indimenticabile? o a quale scrittrice vorresti fare la tua unica, vera e ingenua domanda?

RISPOSTA: Non ho tirato a notte fonda con nessuno, anche perché le interviste sono state fatte tutte per telefono, e in alcuni casi anche via mail (che è un metodo che mi piace parecchio proprio perché non ci sono filtri interpretativi). Erano però tutti autori molti significativi per me: Carrère e Cercas soprattutto, per cui è stato un piacere intervistarli, e anche un esercizio di messa a fuoco degli strumenti narrativi. In realtà “Piani di vita” nasce da altri contesti narrativi, e soprattutto dallo studio degli atti unici teatrali e della commedia all’italiana, la commedia dell’equivoco e del fraintendimento (forse ad approfondire e capire meglio il tema mi hanno aiutato il Carrère dell’”Avversario” e il Cercas de “L’impostore”, ma si tratta di qualcosa di abbastanza lontano, anche se utile) e poi ovviamente René Girard e le sue idee sulla rivalità mimetica, il contagio violento e il capro espiatorio.

Per quel che riguarda la scrittrice che intervisterei volentieri: sono tantissime: cito per tutte Maylis de Kerangal e Annie Ernaux.

 

Ultima domanda (anche se tante ne avrei ancora da fare in un flusso infinito). Mi ha colpito particolarmente il percorso esistenziale che tu tracci per Achmet. Mi sembra di stringente e necessaria attualità. Mi è sembrato che tu volessi mostrare cosa sia veramente l’integrazione, spostando l’ottica su chi la vive sulla propria pelle. C’è un Achmet prima e un Achmet dopo, un Achmet frustrato ed emarginato e un Achmet inserito ed integrato. Anche in questo personaggio la scrittura presenta diversi piani. Il gioco è sottile: il lettore prende le distanze, prova quasi repulsione per la sua inettitudine, la sua arroganza, la sua falsità, ma poi il personaggio si trasforma e il lettore muta la percezione che ha di lui. Non è una metamorfosi facile, ma al contrario complicata e difficile. Alla fine però mi sono chiesta se fosse mutato Achmet o le prospettive intorno a lui. Si può interpretare  il finale che riservi al romanzo come una possibile indicazione sulla convivenza con l’altro?

RISPOSTA: È certamente una interpretazione possibile. In realtà credo che ciò che succede a Achmet nel romanzo possa succedere anche a un italiano o a una persona più “integrata”: se perdi il lavoro perdi una parte importante della tua vita, diventi confuso, anche violento, vai in crisi di autostima e reagisci con la recriminazione. Ho scelto una coppia di musulmani come protagonisti, in contrapposizione allo sceneggiatore gay, perché volevo mettere a confronto due mondi che non comunicano, facili al fraintendimento, per rendere trasparente la metafora di fondo. Il finale, per come lo vedo io, è una forma di ripatteggiamento della propria narrazione con l’opaco della realtà. Abbiamo bisogno di crisi per mettere in discussione le nostre narrazioni solipsistiche. E dopo la crisi ricostruiamo una narrazione più aderente alla vita reale. Questa è la saggezza che possiamo avere, che ovviamente arriva con un sacrificio, con una spesa. Il finale non è allegro, anzi, tutti accettano una soluzione al ribasso per le loro vite: Marco vuole scrivere un gran romanzo, e scrive un romanzetto-verità di successo. Achmet non si arricchisce, trova un lavoro che gli permette di continuare. Fatima con tutti i suoi desideri di fuga rimane lì dov’è. Questo credo che sia un miracolo della vita, del perché siamo ancora qui, senza capirci mai. Di fraintendimento in fraintendimento, arriviamo a fare un patto più sensato con la vita, non a una illuminazione non a una epifania, ma solo a qualcosa di opaco come opaca è la vita.

Grazie ancora, Alberto, della tua disponibilità, ma anche della consapevolezza piena che traspare dalle tue risposte. È stato un vero piacere “sentirti parlare del tuo mestiere”!

Chiacchierando con… Alberto Garlini