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Sul lungomare di Reggio Calabria, di fronte al busto di Ciccio Franco.

Può sembrare un invito strano nella seconda parte, quello dei Lou Palanca, ma dopo che avrete seguito la nostra chiacchierata vi accorgerete di quanto, invece, sia congruente e coerente.

“Ma a te questa storia interessa per curiosità, come giornalista, come storica, come calabrese o solo per farmi incazzare?”

Clicca sulla copertina per accedere al sito della casa editrice.
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Così Vincenzo Dattilo risponde alle sollecitazioni di Margherita Frangipane, che gli chiede informazioni e precisazioni sul suicidio di Orsola Fallara, collaboratrice del sindaco reggino Giuseppe Scopelliti, accusata di abuso d’ufficio: uno dei tanti fatti veri all’interno della struttura narrativa di “A schema libero”, il nuovo romanzo, o come loro stessi lo definiscono docufiction, edito come sempre da Rubbettino, con cui tornano in libreria dopo lo strepitoso e meritato successo di “Ti ho vista che ridevi”, romanzo da me molto amato e che ha il doppio merito di avermeli fatti conoscere. (QUI la mia chiacchierata con loro sul romanzo precedente)

La sera del 15 dicembre 2010 Orsola Fallara si suicida, o almeno così si vuol far credere, ingurgitando una bottiglia di acido muriatico. Fa in tempo però a chiamare i carabinieri per dir loro dove si trova. Morirà in ospedale il 17 dicembre, dopo inutili tentativi da parte dei medici di porre chirurgicamente rimedio ai danni che l’acido ha provocato all’interno degli organi. 

Margherita è una giovane giornalista free-lance, originaria di Soverato, che vive a Roma e che decide di occuparsi del caso della Fallara. Vincenzo Dattilo, un professore “mezzo matto”, che si occupa di storia locale, come il caso dei cinque ragazzi anarchici di Reggio misteriosamente morti sull’autostrada in una notte dei primi anni ’70:

uno attento, uno che non si ferma alla notizia del giornale ma che scava, scava finché non trova un senso alle cose e alle persone.

2012-2010-1970: tre momenti della storia narrata, tenuti insieme straordinariamente dalla figura dell’Enigmista su cui torneremo, e che investono con la loro carica “esplosiva” la vita di Margherita e di chi le sta accanto.

Cosa ha spinto i Lou Palanca a occuparsi di questa storia? Come risponderebbero alla domanda di Vincenzo Dattilo, se fosse loro rivolta?

Questa storia è la storia degli ultimi quarantasette anni della Calabria. Un lungo periodo di tempo fatto di trame, segreti, alleanze torbide, misteri, intrecci tra neofascismo, servizi deviati e criminalità organizzata che hanno trasformato la ndrangheta in una delle più potenti organizzazioni criminali del mondo, che hanno costruito la fortuna di una nuova classe sociale (la borghesia mafiosa) e che hanno incatenato la Calabria ad un destino più rosso sangue che grigio. Questo possente grumo criminale contiene tutti gli elementi per rappresentare il Romanzo Criminale della nostra terra, ma non essendo magistrati come De Cataldo abbiamo cercato di raccontarlo a modo nostro, annacquando il materiale che la cronaca giudiziaria e il giornalismo d’inchiesta ci forniscono da decenni in un libro che mescola i generi, che gioca con la finzione e con i colpi di scena, che si serve di protagonisti inventati per rendere credibile la realtà.

Questo nostro terzo lavoro è certamente quello più complesso, più studiato e più scomodo. Ma, in qualche modo, tutto quello che abbiamo scritto prima non è stato altro che una lunga preparazione verso “A schema libero”.

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Andando con i piedi di piombo, che potrebbero ben essere un’allusione, proviamo a tracciare gli elementi romanzeschi, che come sapete fare voi, e come piace tantissimo a me, avete inserito all’interno della storia:

L’oro della Banca d’Italia, la verità su Piazza Fontana, i primi vagiti della massoneria deviata…

e tutto quello che da questa storia è partito e che sembra culminare, o comunque portare alla rivolta urbana del 1970/71 a Reggio Calabria, e di lì alla nostra storia recente.

Si può dire che le due traiettorie siano affidate a due diversi personaggi, i protagonisti direi, del romanzo: Margherita, che nel 1978 aveva tre anni (come me!) e l’enigmistica, che la rivolta di Reggio Calabria e tutto ciò che ne è conseguito l’ha vissuto sulle proprie spalle. All’una la parte romanzesca, e all’altro la parte storica, intrecciati saldamente come è cifra della vostra scrittura?

Proviamo a tracciare un identikit dei due?

L’enigmista è la voce più forte del romanzo. A lui e al suo cruciverba affidiamo il compito di guidarci lungo il tempo e i misteri. A volte sembra un Forrest Gump che passeggia dentro la lunga notte della Repubblica, più semplicemente è un giovane poliziotto piemontese che si trova a Reggio Calabria durante i giorni della rivolta e viene reclutato dai servizi segreti. Sceglie in quel momento di servire lo Stato nell’ombra e a quella scelta resterà per sempre fedele, pur chiedendosi per tutta la vita se in effetti stia servendo lo Stato o l’Antistato. Una spia riluttante, potremmo dire, ma anche uno sguardo sulla rivolta di Reggio che ci consente di mantenere distacco e lucidità, non essendo lo sguardo né di un reggino né di un catanzarese, né di un boia chi molla né di un antifascista.

Tanto è costruito e artificiale l’enigmista – e chi leggerà il libro capirà perché così doveva essere questo personaggio – tanto abbiamo cercato di rendere semplice e reale – anche meno consistente se si vuole – Margherita, la nostra giornalista dotata di quel minimo di coscienza civile che le consentirà di accendersi davanti ad alcuni accadimenti ma per il resto tutta immersa nella sua precarietà esistenziale: più impegnata a salvare se stessa che a salvare il mondo, diremmo.

Non dimenticherei però una terza voce, quella di Dattilo, il professore ribelle, a cui affidiamo la parte conclusiva del romanzo. È una voce quantitativamente più limitata, ma che si premura di chiudere tutte le finestre che apriamo nelle duecento pagine precedenti e, soprattutto, che vuole recuperare la dimensione sentimentale del nostro racconto e che, perciò, assume un valore non indifferente nell’economia della narrazione.

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Rimarcherei anche altri due personaggi “secondari” a cui affidate una voce altra di commento alle vicende trattate: una reale e una realistica. Oriana Fallaci che intervista Franco, che si mette a capo della rivolta di Reggio Calabria colorandola decisamente di nero, e il neofascista, a cui è affidato il compito di svelare i rimandi politici e collusivi tra il 1970 e il 2012, che è il momento conclusivo del plot narrativo, con una propaggine nel 2014 in cui si tirano le fila di tutte le esistenze messe in campo e dei fatti narrati.

Piani temporali sagacemente tenuti insieme, che amplificano i colpi di scena, irrorano le vicende storiche e i personaggi reali che si agitano tra le pagine.

Fallaci che serve a dare alla vicenda di Reggio un respiro e un orizzonte internazionale; il neofascista che disegna i contorni interni e nazionali. 

Da dove nascono e da quale esigenza, che non deve puramente narrativa visto che le pagine che li vedono protagonisti sono come una digressione che amplia e arricchisce le vicende trattate?

Oriana Fallaci è una voce del tempo, una testimone della storia, come lo fu Pasolini, che citiamo con i brani dell’editoriale sulle lucciole, con il riferimento alla poesia sugli scontri di Valle Giulia e con l’accenno al suo assassinio. L’intervista a Ciccio Franco è un documento che ha un valore storico intrinseco, che ci è parso opportuno riprendere e valorizzare per accrescere la conoscenza di quegli anni, sempre mescolando fiction e non fiction.

Il neofascista è invece un conglomerato di storie, di vicende, l’emblema di biografie giovanili prorompenti, cresciute cavalcando ideali e passioni forti e ritrovatesi poi nel corso del tempo soprattutto a gestire convenienze  e interessi forti. In questo caso si tratta quasi di un contrappunto sincopato alla storia degli altri personaggi, dove l’epica – eroica o criminale – viene costantemente smontata dalla miseria delle piccole ambizioni e delle velleità personali. Una piccola metanarrazione che fa parte ormai del nostro stile: stessa natura del racconto su come Vittorio Emanuele III seppe della sua ascesa al trono a largo di Capo Spartivento, accolto per la prima volta da re dal popolo di Reggio Calabria, che solo otto anni dopo avrebbe scontato la tragedia del terremoto/maremoto del 1908.

Il gioco della memoria è da sempre il nostro preferito.

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Non è solo un gioco, il vostro, con la memoria. È sapienza narrativa, passione civile, capacità di strutturare storie complesse in modo che siano semplici, alla maniera calviniana, e immediate per i lettori, tali da diventare memoria collettiva.

Qui subentra una mia curiosità (dovuta a personale ignoranza): le registrazioni di Freda, ospite del boss mafioso reggino in cui racconta e si confessa, che sono un nucleo fondamentale della narrazione, fanno parte della fiction o della realtà? Perché la magia delle vostre pagine è quella di creare un mescolio in cui tutto è credibilmente vero, e questa commistione irrora la verità e la rende più chiara e visibile tra le pagine. 

La domanda “vera” è, però, un’altra e la prendo in prestito dalle vostre pagine, come omaggio a un personaggio che voi stessi avete dichiarato marginale ma importantissimo, e che io ho amato profondamente. Perché se pure mi capita spesso di innamorarmi dei vostri personaggi, il prof. Dattilo l’ho sentito particolarmente vicino e simile, forse perché è un collega? Ne approfitto anche per chiedervi, se nel gioco della memoria che vi è proprio, ci sia un omaggio dietro il nome Dattilo.

La storia di questa città va obbligatoriamente raccontata, scrivere di Reggio è una necessità, ma ciascuno ha il suo ruolo. Io resto il suggeritore invisibile, il differenziatore dell’immondizia accumulata in questi anni, quello che ancora distingue tra speranze e ricatti, tra ribellione e ‘ndragheta, tra neofascismo di allora e neofascismo di ora. Io resto ai margini, di questa storia e della sua vita.

C’è stato anche per i Lou Palanca un suggeritore, che ha fatto sì che questa storia dovesse necessariamente essere raccontata?

E ancora:

Che ne faremo delle parole glaciali di Freda, della voce di Barreca, il vecchio boss mafioso che lo nascondeva nella sua casa e gli faceva compagnia durante le lunghe giornate reggine, che ne faremo di quello che sapremo di nuovo. che ne abbiamo fatto di tutto quello che già sappiamo.

Se i lettori di “A schema libero” rivolgessero a voi le domande  appena citate, quali sarebbero le vostre risposte?

Quante (belle) cose in una sola domanda … Iniziamo dalla curiosità: le cassette di Freda nascono da una frase, apparentemente marginale, contenuta nella sentenza di condanna di Paolo Romeo, allora senatore del Psdi. In quel provvedimento si riporta la deposizione di Barreca – una sorta di Buscetta calabrese – che ospitava e nascondeva Freda durante la sua latitanza e che, per l’appunto, aggiunge di aver registrato le conversazioni con il neonazista padovano. Tutto qui. Questo è il “vero”. Niente altro si sa di queste registrazioni, nessuno – almeno ufficialmente – le ha cercate. Ma devono essere esistite, e potrebbero essere state utilizzate come arma di ricatto, come merce di scambio, come tesoro informativo da parte della ndrangheta. Questo almeno è quello che immaginiamo noi e per immaginarlo insieme al lettore facciamo spuntare le cassette nella seconda parte del libro.

Dattilo era già presente in “Blocco 52” e rappresentava la voce di Fabio Cuzzola uno dei fondatori dei Lou Palanca. Fabio è stato fondamentale per tutto quello che abbiamo pensato, scritto e detto. Se possibile, lo è stato ancor di più in questo libro che si apre con il richiamo alla vicenda dei cinque anarchici del sud – che lui raccontò prima che ci incontrassimo – e che si chiude con le parole di un personaggio che lui ha creato.  Una scelta che abbiamo voluto mantenere ferma anche se ad un certo punto del percorso Fabio ha deciso di voler abbandonare il progetto Lou Palanca per dedicarsi ad altro.

Ed infine, l’ultima citazione è un modo per dire che non abbiamo bisogno di più verità – sappiamo già molto, sappiamo già l’essenziale – ma di più di coraggio e lucidità per trarre le conseguenze da quel che sappiamo. Non dobbiamo trovare le cassette di Freda per sapere chi è Freda, che rapporti hanno avuto i neofascisti e la mafia calabrese, che trame hanno intessuto insieme a pezzi dello stato, come la mafia abbia “scalato” la politica fino a farsi direttamente classe dirigente di questa terra. 

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Per chiudere, torniamo nell’officina della vostra scrittura. La definizione che vi appartiene è collettivo di scrittura “a geometria variabile”, che non poteva che portare a (uno) schema libero.

Qual è la sfida più impegnativa che avete dovuto affrontare per costruire “A schema libero”? e come si è articolata all’interno del romanzo la vostra “geometria variabile”? registrate delle diversità da un romanzo all’altro, oppure la “procedura” di scrittura rimane invariata?

La geometria variabile esiste perché ci sono camere d’albergo prenotate a nome di Palanca Lou, ma nessuna delle cose che Lou Palanca ha scritto (e ormai sono piuttosto numerose) ha mai conosciuto la stessa matrice autorale. Le penne cambiano per definizione: è questa la nostra esperienza.

La procedura di scrittura è sempre diversa. Certo: è stata più spontanea all’inizio; più progettata e definita in seguito. Ma – fortuna vuole – abbiamo conservato la carica iniziale di spontaneità, passione civile e anche divertimento, ed è da questa miscela – crediamo – che sgorga lo spunto particolare, la trovata decisiva, il “quid” che fa meritare a Lou Palanca di vivere al di là delle biografie dei suoi (variabili) componenti.

Anche ora, in questi giorni, abbiamo deciso di rispondere ad un input, di misurarci, a modo nostro, con una piccola sfida e di farlo solo per la gioia di scrivere e di far sì che in qualche albergo, da qualche parte, prenotino una camera a nome del signor Lou Palanca e lo invitino a rap-presentare quel che ha scritto.

E ci lasciamo così: con la curiosità e la voglia di sapere.

Chiacchierando (di nuovo) con… Lou Palanca
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