Dietro Lou Palanca c’è un collettivo di scrittura, dal tono affascinante. Quando ho chiesto loro se potevamo incontrarci per chiacchierare di “Ti ho vista che ridevi” (Rubettino, 2015), il nuovo libro, la risposta è stata:

– Viviamo in città diverse e ci vediamo quando possiamo o quando davvero necessario. L’appuntamento sicuro però è a metà agosto in un paesino calabrese che si chiama Decollatura, dove ci ospita la nostra amica Marinella. Direi, dunque, che ci siamo incontrati nei boschi di Decollatura.

Sicuramente ci avreste visti che ridevamo, invece, come sempre lo scenario è immaginario, ma voi, mentre leggete, pensateci tra i boschi di Decollatura, mentre chiacchieriamo di questo libro emozionante.

 

In “Ti ho vista che ridevi” tra i tanti motivi che mi hanno entusiasmato c’è sicuramente la scrittura. Non omogenea, ma frammentizzata, in perfetta adesione con la narrazione. Come se non cercaste di uniformare le vostre voci, ma al contrario, pur nell’armonia di base della vostra scrittura e dell’intesa che credo vi ha portato a scrivere insieme, ci teneste a sottolineare le diverse sfumature dei vostri timbri narrativi. L’immagine più immediata è sicuramente quella di un’orchestra. La sinfonia è la stessa, ma ciascuno strumento la modula assecondando la propria tonalità. Il risultato finale è un’armonia in cui siano riconoscibili, ma non stonati, i vari e diversi componenti strumentali. 

È consapevole questa scelta? Come lavora il collettivo Lou Palanca? 

La similitudine con l’immagine musicale ci è cara, anche se per l’improvvisazione e la provenienza culturale ci sentiamo più vicini a un gruppo rock che ad un’orchestra. E’ vero, la nostra narrazione è frammentata e sincopata; lo è volutamente, perché una delle nostre caratteristiche (una delle costanti dei nostri primi due lavori) è quella di alternare tempi e personaggi diversi tra loro e, a volte, lontani nel tempo cronologico.

Con il passare degli anni, e con l’esperienza di scrittura e di riflessione accumulata, abbiamo apportato alcune innovazioni nell’organizzazione del lavoro di scrittura. Potremmo dire che all’inizio abbiamo cavalcato la nostra frenesia di “raccontare”, oggi sicuramente cerchiamo di guidare la narrazione preservando però la freschezza e la forza delle storie che scegliamo.

Siamo fortissimi lettori, tra di noi circolano libri di ogni genere, molti suggerimenti ci arrivano dagli amici e da chi apprezza il nostro lavoro, ma alla fine per impastare le suggestioni che ci dettano la storia e il presente sempre imprevedibile del vivere e pensare meridiano, serve comunque un po’ di creatività e un po’ di fatica. Una cosa è certa: non stiamo (e non staremo) seduti davanti ad un pc in cerca dell’ispirazione. Siamo abituati a cercare le storie nascoste, negate, dimenticate, offese. E il mondo dei vinti è zeppo di storie così. Basta fare come gli archeologi: avere pazienza, sapere cercare, togliere la polvere dallo splendore.

Con “Ti ho vista che ridevi” abbiamo provato a suddividere rigorosamente la scrittura dei personaggi principali, ma senza rinunciare a mescolare costantemente il nostro apporto: ciascuno corregge e integra i pezzi degli altri e fino ad ora, dalle risposte della critica e dei lettori, ci sembra che questa cosa abbia funzionato.

 

Sì, cari Lou Palanca, ha funzionato. Con originalità e commozione. Mi sono ritrovata a piangere, sorridere, ridere, con i brividi sulla pelle e con il cuore in gola. Tutto tra le vostre pagine, andando su e giù per l’Italia: dal mare della Calabria con i suoi sapori intensi alle colline delle Langhe, di pavesiana memoria con il profumo dei tartufi e la regolarità dei vigneti, per poi spingere lo sguardo all’orizzonte, intravedendo ciò che è oltre il “Mare nostrum” e che tanto ci somiglia, nonostante vogliano convincerci del contrario.

In “Ti ho vista che ridevi” (che titolo meraviglioso, con la voce argentina che si sprigiona dal verbo) raccontate una storia in bilico tra il passato e il presente, le tradizioni e le innovazioni, il vecchio e il nuovo. Come siete arrivati alla scoperta di Dora e delle tante calabrotte che si nascondono dietro la sua figura? Che cosa unisce la punta dello Stivale con la sua propaggine settentrionale? E cosa c’è oltre il nostro orizzonte?

Dopo il primo libro (Blocco 52, Rubbettino editore), cercavamo una storia che ci tenesse ancorati alle nostre radici ma ci permettesse contemporaneamente di confrontarci con luoghi e culture più lontane. Restare fedeli a noi stessi significava restare in Calabria ma anche continuare a scandagliare le microstorie di coloro che hanno incrociato i grandi cambiamenti della propria epoca e spesso ne sono rimasti schiacciati, significava continuare a dare voce a chi in vita non l’aveva avuta, continuare a soffiare sull’orgoglio degli umili e la dignità dei miserabili; aprire le ali, invece, significava principalmente guardare a quello stesso pezzo di mondo in un altro contesto, là dove l’immaginazione doveva prendere il posto della mera narrazione. Quando ascoltammo Carlo Petrini accennare alla storie delle calabrotte – le calabresi che tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso andarono in spose ai contadini langaroli, mediante matrimoni combinati dai bacialè, colmando il vuoto aperto dalle donne che preferivano scendere in città in cerca di operai con il posto fisso e il riscaldamento centralizzato – e poi aggiungere che erano state loro a salvare le Langhe dal pericolo dello spopolamento, consentendo a quel territorio di superare la fine della civiltà contadina e di proiettarsi verso il successo enogastronomico degli anni successivi, capimmo subito che quella storia lì era la storia che cercavamo.

E’ una storia potente, commovente, ricca di sorprese, che abbiamo rimesso in sesto attingendo all’opera preziosa di Nuto Revelli e che abbiamo semplicemente cercato di non sciupare. Di nostro ci abbiamo aggiunto poco: qualche tocco di introspezione, una spruzzata di disincanto, un pizzico di complessità nel raccontare i luoghi e i tempi, l’idea che le calabrotte di oggi – gli altri che arrivano in cerca di salvezza ma che alla fine possono salvare chi accoglie – sono le immigrate che si arrampicano sui barconi in cerca di un’altra vita: l’unica possibile. Per questo siamo partiti da Riace – laboratorio ancora vivo di gestione dell’accoglienza e di sperimentazione di nuovi modelli di sviluppo – e a Riace, dopo le Langhe, siamo tornati nelle pagine conclusive del libro.

 

Quel “poco” che avete aggiunto soffia forte nel cuore del lettore. Dopo mesi la commozione su “Ti ho vista che ridevi” non mi abbandona. In realtà per me non c’è mai solo la storia in un libro, anche se è fondamentale, ma quello che rende un libro letteratura è sempre la scrittura, il modo di raccontare, di dire, di “orchestrare” la narrazione. Il vostro è un esperimento perfettamente riuscito, un piccolo gioiello di emozioni sentimenti e abilità. Nel libro omaggiate e sottolineate la presenza di Nuto Revelli come di Carlo Petrini, ma per tornare alla scrittura di chi vi sentite debitori? 

 

Nuto Revelli ha custodito la memoria delle calabrotte e delle ultime protagonista della civiltà contadina, Carlo Petrini è stato il mediatore – il bacialè – tra quella memoria e la nostra energia. Ma, più in generale, ci sentiamo debitori verso tutti coloro che hanno scritto, detto, filmato, cantato il  mondo dei vinti. Inconsapevolmente abbiamo agito l’insegnamento di Italo Calvino, che nella “lezione americana” sulla molteplicità definisce “il romanzo contemporaneo come enciclopedia, come metodo di conoscenza, e soprattutto come rete di connessione tra i fatti, le persone, tra le cose del mondo”. Ci sentiamo debitori verso le terre che nascondono storie dimenticate, a partire dalla Calabria, ma non soltanto. Ci sentiamo debitori, in fondo, verso i libri, le persone, le esperienze che hanno modellato la nostra curiosità.

L’unione del vostro collettivo e la sua ragion d’essere è nella comune origine calabrese o c’è dell’altro? Perché i Lou Palanca scrivono insieme e chi sono?

Pensiamo presuntuosamente di essere parte di un mondo meticcio più che cosmopolita, contemporaneo ma intriso di tradizione. In questo senso ci sentiamo poco collocabili in un territorio delimitato. D’altra parte, per molte cose l’Italia si è calabresizzata  e vale sempre più in generale quella frase che Corrado Alvaro riferiva solo alle gente del Sud: “dei greci, i meridionali hanno preso il loro carattere di mitomani. E inventano favole sulla loro vita che in realtà è disadorna. A chi come me si occupa di dirne i mali e i bisogni, si fa l’accusa di rivelare le piaghe e le miserie, mentre il paesaggio, dicono, è così bello”.

Ma certo, abbiamo un’origine, un luogo in cui viviamo. E proprio nella contraddizione tra l’amare la Calabria e il dovere di non tacerne i profili negativi ondeggia la nostra scrittura. In questo senso forse il collettivo non sarebbe nato e vissuto senza questa sua origine regionale.

Quanto alla nostra ragion d’essere: scriviamo insieme prima di tutto perché ci divertiamo e poi perché quello che viene fuori dal nostro incontro piace a chi lo legge. Non siamo scrittori di professione, ma persone che hanno trovato in una passione comune, quella della scrittura creativa, la ragione principale della loro amicizia. Scriviamo anche perché ci sentiamo intellettuali militanti, impegnati (ci piace usare questi termini un po’ desueti), perché altre forme di impegno e militanza sono oggi del tutto insufficienti per esprimere pienamente la nostra idea di uomini e donne non indifferenti al tempo che vivono.

 

Ma quanto siete bravi, ragazzi!!!

Grazie! E grazie soprattutto per il “ragazzi”, era da un po’ di tempo che non capitava di sentirci appellare così.

Il meticciato che supera il cosmopolitismo: mi sembra che non poteva accadere in luogo diverso che nelle terre della Magna Grecia. 

C’è un personaggio di “Ti ho vista che ridevi” che meglio degli altri interpreta questo nuovo modo di “appartenere” al mondo? Chi è nel romanzo il “meticcio” per antonomasia, oppure ciascuno lo è a modo proprio?

Credo che il personaggio più meticcio del romanzo sia Angiolino Gabetto, il bacialè, il ruffiano che combina matrimoni. Per tante ragioni è stato anche il personaggio più difficile da modellare e scrivere. Inizialmente ci siamo accostati ai bacialè con una certa diffidenza, che è anche aumentata quando abbiamo letto le interviste di alcuni ruffiani che si presentavano come dei benefattori, dei bravi cristiani che avevano fatto incontrare anime solitarie e avevano fatto nascere dei bambini ormai diventati uomini. Ma poi, lentamente, abbiamo apprezzato le doti di umanità, schiettezza, vigore, affidabilità che un buon sensale doveva necessariamente avere. Erano uomini semplici, ma dovevano essere in grado di conoscere in profondità i calabresi come i langaroli, di penetrare nella loro cultura, di appropriarsi delle dinamiche di genere e dei ruoli familiari, di parlare la stessa lingua delle persone con cui entravano in relazione, di sviluppare quell’empatia che consentiva ad una stretta di mano di trasformarsi in un vincolo indissolubile.

Angiolino Gabetto lo abbiamo immaginato così, non troppo scaltro da risultare furbo, non troppo aperto da risultare invadente, ma capace di interiorizzare e replicare l’umanità di chi cercava moglie e di chi abbandonava il proprio mondo. Ecco, il nostro bacialè dopo i suoi mille incontri è ormai qualcosa d’altro, una mescolanza di interessi e di buoni sentimenti, di dialetti, di affari e di speranze, di terre, di sapori, di campagne, di vite.

 

In “Ti ho vista che ridevi” presentate un mondo di valori, intrisi di tradizione e di ritorno alle origini, ma dagli orizzonti illimitati. Un ritorno che non è un semplice tornare indietro, ma un ripartire dalla propria origine con maggiore consapevolezza verso nuove dimensioni geografiche, ma anche e soprattutto personali.

Non voglio raccontare nulla della storia di Dora, lasciando che sia il lettore a scoprire le ragioni che la spingono a decisioni drastiche e definitive, ma è su di esse che voi avete puntato tanti dei temi del romanzo che poi si disperdono senza mai perdersi in numerose ramificazioni narrative. Mi sembra però che ci sia un collante che spinga le tante storie e i numerosi personaggi del romanzo a confluire in un centro poetico e narrativo: l’amore.

“Ti ho vista che ridevi” è un romanzo d’amore, nel senso più alto e profondo? Oppure come lo definirebbe il collettivo Lou Palanca?

Alla fin ci hai beccato! Sin dall’inizio il romanzo ha raccolto, in particolare dalle lettrici, giudizi e commenti positivi caratterizzati da una matrice comune: la sua lettura commuoveva fino alle lacrime. Alle presentazioni, sui social, nelle recensioni, questo aspetto è venuto fuori in maniera diffusa e travolgente.

Non era certo questo il nostro intento iniziale, ma in molti hanno sottolineato passaggi e aspetti della narrazione che evocavano forti sensazioni sentimentali. Tanto è vero che a un certo punto abbiamo cominciato a chiederci proprio se per caso  non avessimo scritto un libro d’amore.

E dunque così sia. In Val Susa ci hanno raccontato che nel dialetto piemontese fino agli anni sessanta non esisteva un termine traducibile in italiano con “amore”! E una delle nostre calabrotte ad un certo punto afferma che l’amore vero, quello del batticuore, da lì non era mai passato. Non  raccontiamo storie semplici, non avremmo potuto raccontare amori scontati. Ti ho vista che ridevi è anche un romanzo d’amore, ma sia chiaro: amore in tutte le sue sfaccettature.

C’è l’amore fra marito e moglie: programmato, contrattato e poi costruito nel tempo.

C’è l’amore per gli ideali in cui si crede, basti ricordare il meta-racconto partigiano o l’attualissima resistenza No Tav, dove l’amore per la Terra diventa resistenza attiva, corpi frapposti, vite ingabbiate nel carcere.

C’è l’amore di Luigi, il personaggio maschile principale, che  cerca di schivare l’amore e le sue complicazioni, ma che esplode quando è costretto a sbaraccare le difese e a oltrepassare quelle fragilità che spesso diventano un alibi per non scegliere, per non andare in profondità in un rapporto.

C’è l’amore condensato in quei brevi istanti di passione travolgente che costeranno a  Dora le sofferenze e i sensi di colpa di una vita intera. E accanto c’è l’amore incondizionato per i figli, anche quando non sono come vorremmo, o non stanno dove vorremmo. C’è l’amore per la terra, per i libri e per la vita.

 

Poi c’è la famiglia, che come l’amore, è declinata in tutte le sue accezioni, limiti, arcaismi e novità. Anche in questo caso disegnate una nuova geografia del nucleo familiare, ribadendo l’importanza degli affetti, il bisogno innato di cercare le proprie radici, ma anche la necessità di accoglienza e integrazione. Eppure i legami di sangue sembrano conservare in “Ti ho vista che ridevi” un loro potere ancestrale, archetipo, a cui nessuno dei personaggi principali sfugge, anche se questo concetto è avulso da qualsiasi tipo di religiosità o sentimento trascendentale, ma anzi affonda il suo senso nelle viscere e nel corpo.

Non credo di rovinare nessuna sorpresa al lettore se suggerisco che il romanzo si chiude con un bel matrimonio, che per una patita dei ringraziamenti nei libri come me riserva una sorpresa dilettevole.

È  voluta da parte del collettivo questo sottolineare l’importanza della famiglia, come nodo indissolubile pur se immanente, oppure è una semplice necessità narrativa per tenere insieme tutti i fili delle storie e ridurli a matassa?  

Domanda complicata, impastata di molte cose che effettivamente sentiamo nostre e di altre su cui forse dobbiamo introdurre qualche precisazione.

Ti ho vista che ridevi si basa su un fenomeno storico-sociologico di “emigrazione matrimoniale”: da esso abbiamo tratto lo spunto per costruire l’intera narrazione. Parliamo quindi di un matrimonio combinato –  esatto opposto di un matrimonio fondato sull’amore – che può anche vivere, e modificarsi, attraverso la scoperta di elementi come l’affetto, la solidarietà, la condivisione.

Ma, come noti correttamente, anche la famiglia, al pari dell’amore, vive nel libro di declinazioni diverse. C’è la famiglia tradizionale, calabrese o araba, che può cifrare come disonore quello che invece è il frutto più naturale dell’amore. C’è la famiglia patriarcale delle Langhe dei decenni trascorsi. C’è la famiglia moderna dell’uomo che abbandona la moglie per una donna più giovane. In sostanza, non c’era alcuna intenzione di affermare il valore della famiglia in sé, che a volte può divenire finanche il luogo delle peggiori nefandezze. Piuttosto, nella ricerca materiale ed esistenziale che Luigi, il protagonista maschile del romanzo, affronta tra madre “sociale” e madre “biologica” alla fine viene fuori la scoperta di una famiglia poco convenzionale, abbastanza lontana dalla modellistica e più basata sul tessuto dei legami, delle solidarietà immediate.
E’ proprio la trama di questo tessuto che ci ha spinto a fare di un matrimonio la scenografia dei ringraziamenti finali, dove abbiamo mescolato, in un quadro che qualcuno ha definito “felliniano”, realtà e finzione per parlare in fondo del valore che ogni unione (al di là dell’etichetta di “familiare” che gli si può appiccicare) può avere. E ci pare chiaro che anche un collettivo di scrittura è un’unione.

Con l’etichetta, forse un po’ vaga, di nuova geografia della famiglia disegnata in “Ti ho vista che ridevi” mi riferivo proprio a quello che voi avete spiegato con minuzia e precisione. Come per l’amore, la famiglia, i rapporti, l’emigrazione e i tanti temi che trattate nel romanzo la cifra vera e portentosa del vostro lavoro mi sembra sia lo snaturarli per renderli naturali. Sulla famiglia, a mio avviso, voi compite il percorso più incisivo, perché stravolgete tutti gli stereotipi, mescolate i diversi modi in cui oggi può intendersi e in questo modo rendete il concetto e il valore di famiglia, che tutti li comprende, qualcosa di naturale, vivo, fondante perché basato sull’amore e i sentimenti, che sono gli unici requisiti perché una famiglia possa esistere e dirsi tale, al di là delle ideologie, delle fedi e dei pregiudizi. Ma c’è anche il tono che mi ha convinto, mai giudicante e mai predicante, pur se straordinariamente veritiero. Forse perché la verità può essere solo osservata, e non discussa e tanto meno reclamizzata.

La verità di “Ti ho vista che ridevi” fa bene al cuore, proprio perché non scansa il dolore, ma lo include e racchiude. In questa verità è la chiave della commozione che sapete suscitare. Il matrimonio finale è una festa, il bisogno di riconoscersi e ritrovarsi, e anche di ricominciare proprio dal punto più doloroso della propria esistenza. Anche in questa occasione i toni sono quelli giusti, con quella nota sfumata che chiude la storia in dissolvenza.

 

E dunque siamo alla fine, al matrimonio che si sovrappone ai ringraziamenti e alla storia che sfuma, per l’appunto, lentamente. Ci abbiamo lavorato molto su quelle due paginette conclusive, per lungo tempo sono rimaste sospese tra un possibile capitolo autonomo e il cestino del computer in cui finiscono i file che non raggiungono l’approvazione collettiva. Poi sono diventate un pezzo ibrido, apparentemente secondario ma in realtà decisivo, perché simbolico, emblematico, riassuntivo di due romanzi e mille e mille ore di lavoro. Lì diventa evidente quello che nei nostri due libri resta sottotraccia, ovvero la continua mescolanza tra il reale e la finzione, il gioco del verosimile, il nostro modo di intendere la verità, che non esiste in forma assoluta e definitiva ma di cui pure non possiamo mai fare a meno. Noi parliamo di memoria, eppure inventiamo, manipoliamo i dati a nostra disposizione, bariamo addirittura a volte, ma lo facciamo sempre per consegnare vigore a quello che diciamo. Come fanno tutti gli scrittori in fondo, ma a noi – che partiamo da storie reali –  pare necessario (urgente, ineludibile) dichiararlo, e allora quelle due pagine conclusive in cui si sovrappongono i personaggi della nostra immaginazione con le persone in carne ed ossa che ci hanno accompagnato nella scrittura sono la cifra reale del nostro percorso di narratori in cerca di forme e di parole adatte a far scintillare lo splendore delle vite che raccontiamo. Eccoci qui, Giuditta, siamo solo naviganti in cerca di “gocce di splendore” da condividere con gli altri. Con tutti gli altri a cui questo interessa.

Chiacchierando con… Lou Palanca
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