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Dove mi invitate, questa volta, per parlare di “Requiem per un’ombra” (66thand2nd)? – chiedo a Laura Toffanello e a Mario Pistacchio, che per la chiacchierata dedicata a “L’estate del cane bambino” mi portarono in una Venezia carnascialesca.

LT: A Torino. Sarebbe bello passare a portare un sigaro a Fred Buscaglione, al Monumentale.

MP: E dopo, visto che la chiacchierata sarà bella lunga, ci vuole un bicchiere al bar Pietro – la piola cui è ispirato Bibi la Miseria – e una margherita alla pizzeria del Borgo, da Hareguweni, la donna senza la quale Lula non sarebbe mai esistita.

Ci seguite?

17352166_1840341256278993_8115488819862316069_nNon lo faccio mai, ma questa volta ne vale la pena: la fascetta. Non solo perché a scriverla è Fabio Stassi, con un ritmo che gli è proprio e che è evidente anche in poche righe, ma anche perché è più vera che più vera non si può. Un investigatore carico di letteratura: dove trovarla una definizione più calzante di questa? Ironia, fondi di caffè e dischi di jazz: un trittico perfetto per rendere il tono, il sapore e la musicalità di “Requiem per un’ombra”. Così che ogni lettore, non può che unirsi in coro al grido di Fabio Stassi: Evviva Sal Puglise! e aggiungo: Evviva Pistacchio e Toffanello, che tornano a farci leggere uno dei romanzi destinati allo scaffale dei libri che non si dimenticano. C’è un elemento tra quelli evidenziati da Stassi che non vi sareste aspettati?

LT: Forse il caffè, anche se più di tutto ci ha spiazzati il riferimento immediato a quanto è stato scritto prima di Sal Puglise, quella parola complessa e ingombrante che è letteratura. In fin dei conti io e Mario volevamo provare a sederci a quel tavolo e giocarci le nostre carte, sapendo che Chandler avrebbe capito al volo che in mano avevamo solo una doppia coppia ma per magnanimità non sarebbe venuto a vedere. D’altronde, da uno come Fabio Stassi che ha praticamente letto tutto travasandolo, per citare il libro che ci ha fatti incontrare, in un personaggio del calibro di Vince Corso, non potevamo aspettarci niente di diverso. Anzi, adesso che mi ci fai pensare, sarei curiosa di sapere se Vince consiglierebbe Requiem per un’ombra ai suoi pazienti, e magari anche perché.

(Tenete a mente questo desiderio di Laura, e state con noi fino alla fine del post!)  

MP: Se posso essere sincero, Giuditta, è proprio la cosa in sé che non mi aspettavo. E invece avrei dovuto, perché la generosità di Fabio Stassi, come quella di tutti i grandi, è proverbiale. Mi ha colpito quell’evviva così spontaneo, una pacca sulla spalla di sei lettere, la sensazione che Puglise fosse uscito per un attimo dall’ombra delle pagine di un libro per diventare qualcosa di carne e sangue e anima. Più o meno il massimo per un romanzo di personaggio come “Requiem per un’ombra”. 

 

È solo un esordio quello di Sal Puglise, oppure è un personaggio che potreste non lasciare andare? Chi sono i suoi invisibili compagni o fratelli letterari?

MP: Chi può dirlo, mi piace pensare che alcuni personaggi siano fatti per restare prima ancora che per tornare, restare attaccati a chi legge e anche a noi che ne abbiamo raccontato la storia. La verità è che a Puglise vogliamo bene. È quella strana fratellanza che accomuna i compagni di mille sconfitte, i sognatori nonostante l’evidenza, la gente che non si prende mai troppo sul serio e scherza con la vita e qualche volta pure con il fuoco. 

LT: In questo senso Sal Puglise è in ottima compagnia. Partendo dall’ultimo arrivato, lo sgangherato Doc Sportello di Pynchon, si può risalire il fiume quasi fino a Marlowe, magari il Marlowe de “Il lungo addio” di Altman, passando per Hap e Leonard, l’Easy Rawlins di Walter Mosley, l’Alligatore di Massimo Carlotto, Nick Belane, il Sughrue de “L’ultimo vero bacio”, Nestor Burma e via controcorrente fino a Sam Spade e ai duri. La forza dei romanzi di genere è il cercare di non dico reinventare ma almeno rivitalizzare il genere che rinasce come l’araba fenice tutte le volte che viene dato per spacciato, slabbrato, consumato e logoro. Esattamente come in “Triste, Solitario y Final” di Osvaldo Soriano: un Marlowe a cui sono rimaste solo tre tarme investiga con Soriano stesso cercando di scoprire perché Stan Laurel – Stanlio – è finito ai margini di Hollywood. Al di là delle citazioni e degli omaggi, queste storie sono spesso un pretesto per parlare di altro, del mondo privato di chi scrive ad esempio, oppure della società in cui viviamo, dello sforzo intellettuale di decifrare un universo smerigliato, cercando ugualmente una fotografia nitida del singolo e della collettività.

 

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Un pretesto per parlare d’altro: questo credo che sia la cifra più profonda della vostra scrittura, già da “L’estate del cane bambino”. La trama, che pure avvince, è un pretesto per affondare un bisturi, adamantino e affilato, in altri temi, ricongiungerli insieme, afferrarli e intrecciarli, senza mai voler giudicare o ammaestrare.

Sal somiglia per certi aspetti a Vittorio, soprattutto nello sguardo alla diversa umanità che lo circonda e nella fiducia, seppur guardinga, verso il genere umano. Ma ancora di più nella solitudine, volontaria e ricercata in cui avvolgono la loro vita come una nebbia, per far scomparire le tracce di sé.

La scomparsa, l’ombra, la perdita: sono forse questi i temi che più vi appartengono? Lidia Ravera sostiene che ogni scrittore crede di scrivere diversi libri, ma in realtà scrive un solo romanzo, che tutti li contiene. Hanno scritto due romanzi, Mario Pistacchio e Laura Toffanello, o ne stanno scrivendo uno solo?

MP: Un giorno dopo l’altro scompariamo un po’ tutti, è nell’ordine naturale delle cose, restano solo da vedere il come e il quando, capricci del destino. Ci si saluta dopo una birra e non ci si rivede mai più, senza sospettarlo finché gli arrivederci non si trasformano in addii, e allora è tardi, troppo tardi per tutto.

LT: Quello che accomuna più di ogni altra cosa i nostri due romanzi è che mentre scrivevamo qualcuno ci ha lasciati. Il dolore non è prerogativa della scrittura, men che meno degli scrittori, è parte della vita, pura e semplice vita. Requiem per un’ombra, da questo punto di vista, è come le risa dei condannati al patibolo, sguaiate, prive di allegria, una reazione uguale e contraria al pianto, mentre “L’estate del cane bambino” era un urlo in cerca di una bocca, come diceva di se stesso Hubert Selby Jr.

MP: Poi c’è l’ombra, il non detto, il rimosso, il tabù, tutto quello che si sedimenta in fondo al pozzo e che nel silenzio cresce, lontano dagli sguardi, sguardi a volte distolti di proposito. Puglise ha i suoi peccati, Vittorio Boscolo anche, l’uno è inseguito nei suoi sogni da un’ombra malevola in technicolor, l’altro ha semplicemente smesso di vivere, esiste sì, ma la vita è un desiderio che non ha più il coraggio di esprimere.

LT: Entrambi sanno di meritarsi in pieno i giorni che sono toccati loro in sorte e affogano nel senso di colpa: indegni come figli, traditori degli amici, confinati nel limbo. C’è una parte di loro, però, che spera ancora, forse senza sbandierarlo ai quattro venti, senza avere il coraggio di ammetterlo neanche a se stessi. È da quell’atomo che parte tutto. Tornare indietro, a un’estate lontana durante la quale un uomo venne ucciso, un bambino scomparve e un gruppo di amici che credevano non si sarebbero mai separati si dissolse nel tempo di uno sparo. Oppure andare avanti, controvento, contromano, contro ogni pronostico in una presa diretta di 43 giorni come fa Puglise.

MP: Se questo è il filo che tiene insieme i nostri libri cucendoli in una storia più grande, in quell’unico romanzo di cui parla Lidia Ravera, io non lo so. Credo sia un fatto di poetica e punto di vista, i nostri, che trascendono dalle vicende biografiche personali.

LT: E comunque è presto per dirlo. Come diceva nonno Cestilio, per capire il senso di una storia, chi aveva torto e chi ragione, devi prima arrivare alla fine. 

Mario Pistacchio e Laura Toffanello

Da Houdini a Rico, dalla poesia metafisica di un cane creduto un bambino, che mai più tornerà, all’ironia sfacciata e sfaccendata di un pappagallo, appassionato di soap opera, bizzoso e bizzarro.

Rico è uno dei tanti personaggi secondari di “Requiem per un’ombra”, così pieni e marcati che sembrano veri e reali. Voi ci fate davvero credere che esistano da qualche parte, che sia Brondolo o una Torino che risuona di jazz, animali così umani da essere fondamentali nella vita di Vittorio o di Sal. E non sono i soli, perché anche altri “strani” animali si incontrano nelle pagine dei vostri romanzi.

Che voce ha Rico nel romanzo? qual è l’importanza della sua figura? Da dove nasce questa vostra attenzione per l’umanità del mondo animale?

LT: Non lo so, di sicuro non è qualcosa di premeditato. C’è un momento durante il quale gli animali entrano nelle nostre storie. È un fatto di poetica, riguarda il livello profondo delle storie e dell’inconscio di chi le scrive dove ricordi, desideri, delusioni sono sovrapposti, indistinguibili, inseparabili e vorticano intorno al provare e riprovare a dare voce a chi una voce non ce l’ha. Non è una questione di sfumature, quelle vanno bene per la politica, ma di bianco e nero puro e semplice. Partendo da questo punto di vista, è naturale arrivare a Houdini, a Rico, a Orso. Rico è l’alter ego, la spalla di Puglise, quella che deve avere ogni investigatore privato degno di questo nome. Essendo sotto sotto in una commedia, però, Rico interpreta il ruolo a modo suo. Se Puglise è quasi una controfigura, lo stuntman che interpreta le scene ad alto rischio sì, ma di grottesco, il suo aiutante non poteva che essere un’imitazione dell’imitazione, un Ara Macao intravisto per la prima volta in Grecia, anni fa, capitano di lungo corso che aveva abbandonato il mare per limiti di età ritrovandosi a diventare, suo malgrado, l’attrazione di un alberghetto.

MP: Si chiamava Hook, parlava sporco e mangiava Ringo dalla mattina alla sera. Gli animali sono più che umani, basta volerli ascoltare. Il vero mistero è come faccia qualcosa di così lontano nel tempo come l’incontro con Hook a non perdere un grammo di vividezza, il vero mistero è la pazienza, lo scorrere del tempo che pesa i giorni passati uno dopo l’altro finché una notte ti restituisce un’immagine, un pappagallo che ha girato il mondo appollaiato sul trespolo con un biscotto nel becco, e da quell’immagine nasce tutto. Senza il sentimento, però, sentimento inteso come atto politico, le immagini restano mute. Se Puglise non facesse quello che nessuno ha fatto con Rico, cioè volergli bene, e volergli bene perché è esattamente quello di cui entrambi hanno bisogno, Rico sarebbe un dettaglio dai bellissimi colori e poco più. Questo sentimento che nasce dal bisogno e non per questo è meno puro, è cosa comune tra le persone sole, tra quelli che non hanno più motivi per tornare a casa perché non c’è nessuno ad aspettarli. Sentimento, tutto qui. Non è poco. Anzi, per qualcuno è tutto.  

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C’è un ritmo nella vostra scrittura che serpeggia nelle parole e aleggia nelle atmosfere di una Torino, piena di musica. Quelle musicali, numerosissime, non sembrano essere semplicemente notazioni d’ambiente, ma qualcosa di più profondo che ha animato la vostra narrazione fin nello scheletro della lingua. Sono una lettrice e non voglio usare un lessico tecnico e critico, ma mi sembra che l’ossatura dello “stile” di “Requiem per un’ombra” sia stata la  musica, un ritmo jazz malinconico e passionale, che trascina senza sommergere il lettore, ma invece immergerdolo nella vicenda.

Sì, forse, è questa la nota predominante della vostra scrittura, anche in “L’estate del cane bambino”, far in modo che il lettore si immerga nella storia, senza essere sommerso e schiacciato da impalcature ideologiche, da messaggi precostituiti o da finalità esterne alla storia stessa. 

Che ruolo ha la musica, il jazz in particolare, nell’economia della vita narrativa di Sal Puglisi?

MP: Mi viene da pensare che in questo romanzo, come ogni tanto nella vita, la musica sia una tana, il posto dove tornare, la chiave che non manca mai la toppa, la madre verso la quale corre l’ultimo pensiero. È ambiente e sentimento, conoscenza e immaginazione, metafora e descrizione. Nessuno conosce Puglise quanto Bird o Fatha Hines, soltanto al vecchio Thorens ha confessato i suoi guai e il giradischi ha risposto tutte le volte con un’altra canzone, un altro giro sulla giostra più bella del mondo. Questo libro è il racconto di come ci si sente a non avere più nessuno, il bilancio di quanto si è perduto senza forse nemmeno accorgersene perché la vita, prima, correva veloce ed era bella da vivere.

LT: La verità è che tutto cambia in fretta, anche per un uomo coriaceo come Puglise, solo la musica resta lì, cristallizzata, una cartolina spedita da un’epoca migliore. Ascolta jazz perché è la sua musica, puro e semplice, ormai è troppo tardi perché possa concedersi il lusso della curiosità, per pensare di aver ancora diritto a una carta buona da pescare dal mazzo. È una scelta, quella del jazz, legata anche al desiderio di raccontare una Torino magica e irripetibile, un tempo in cui le cose duravano come i vinili e l’unica cosa che si consumava, oltre alla giovinezza, erano i solchi. Parker, Mingus, Coltrane, Davis, Armstrong e tutti i grandi non avevano bisogno di impalcature, sovrastrutture, echi di vissuto personale, messaggi precostituiti, finalità esterne e compagnia bella. Suonavano e basta. Noi cerchiamo di fare la stessa cosa, lasciando fuori tutto quello di cui un romanzo, se è buono, non ha bisogno.

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Stiamo per salutare Sal Puglise con l’ultima domanda, pur sapendo che è uno di quei personaggi che si incistano nel cuore e di cui è impossibile sbarazzarsi, poiché prende a far parte per sempre di te.

È lì sulla soglia della letteratura, pronto a chiudersi dietro le spalle le pagine di “Requiem per un’ombra” e ad entrare nell’immaginario dei lettori: cosa gli augurate di trovarci?

MP: Una birra fresca e un letto caldo, se possibile.  

LT: A me, invece, viene in mente la signora Fernandez, quel suo “ci si allontana da qualcuno solo per poterne sentire la mancanza”. Nostalgia e malinconia: sono le coordinate della rotta degli addii e forse anche il miglior augurio che si possa fare a un personaggio letterario. Che, alla fine di tutto, si finisca per sentirne la mancanza. E che magari un giorno, come spesso capita di sentirci chiedere dai lettori, lo si possa incontrare ancora in una nuova storia.

 

Ci sono delle aspettative che gli scrittori hanno sui loro personaggi, o a un certo punto la vita degli scrittori e quella delle loro creature si dividono inesorabilmente e necessariamente?

LT: Mi convince di più la seconda ipotesi.

MP: Anche a me. In generale non mi sono mai aspettato chissà cosa, prima o poi le aspettative finiscono con l’avvelenare la vita. Quando scriviamo chiediamo a noi stessi disciplina, coraggio, onestà. In quel momento può succedere di volere di più, di voler fare meglio. Mettere l’ultimo punto è varare una nave, chi deve salire a bordo sale, chi deve restare a terra resta, si levano gli ormeggi, ci si ferma un po’ sul molo mentre la nave si allontana e si confonde con l’orizzonte. E questo è tutto. 

 

In questo suo viaggio, in compagnia di quali detective (o non detective) lo sentireste al sicuro? A chi vi piacerebbe affidarlo perché lo prenda a braccetto e lo conduca da lettori che, avendolo amato, potrebbero accogliere con favore anche il vostro?

MP: Diciamo che Puglise non è uno a cui piace essere accompagnato troppo in giro.

LT: Altrimenti, come dice a Parodi, non avrebbe la faccia che si ritrova.

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…e poi, spinto dal vento, si incastra tra i nostri bicchieri un biglietto:

Cara Giuditta, 

ho il libro di Mario Pistacchio e Laura Toffanello qui tra le mani. L’ho consigliato un mese fa a una cliente che non sapeva dire addio a nessuno. Ogni volta che si trattava di chiudere una cena o di ripartire dopo un viaggio scappava via. La sua specialità era andarsene senza salutare, sparire, non lasciare tracce. Per questo non usciva più, aveva smesso di lavorare, non aveva più amici, per non doverli perdere. Le ho detto che sarebbe stata una lettrice ideale per Requiem per un’ombra. Perché il problema è proprio questo: non uscire di scena, ma come uscire di scena. C’è sempre un ultimo disco da suonare, un’ultima avventura da vivere, un ultimo amore da incontrare. E Sal Puglise lo sa. Ma sa anche che forse quell’ultimo disco è il primo che si è ascoltato. Basta ritrovarlo e metterlo sul piatto. La sua voce ha il suono della tromba di Chet, quella che si sente nelle scale deserte, negli ascensori vuoti degli alberghi, nelle strade alla fine di un porto. Perché si entra e si esce continuamente in questo teatro, e allora bisogna farlo bene. La mia cliente si è scritta il titolo, poi ha alzato gli occhi. Sì, deve avere imparato molte cose questo personaggio, ha detto. E le ho letto negli occhi che aveva capito. Il requiem che dobbiamo suonare non è per noi, ma per l’ombra che per troppo tempo siamo stati.

Un grande abbraccio

Vince Corso

 

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Chiacchierando (di nuovo)… con Laura Toffanello e Mario Pistacchio