Il primo giro, da perfetto gentiluomo, l’avrebbe pagato Mario Pistacchio, nel bar in cui ci saremmo incontrati con lui e Laura Toffanello per chiacchierare di “L’estate del cane bambino” (66thand2nd). Lo scenario di fondo, invece, l’avrebbe scelto Laura.

Vite dei personaggi che riscrivono la biografia dei propri autori, alter ego al rovescio, la certezza che, raccontando, la realtà si ricostruisca attraverso la menzogna e che nulla riveli la verità quanto una maschera, infine la città cui appartengo per devozione. Dove potrei darti appuntamento se non al carnevale di Venezia? Sarei davvero curiosa di sapere quale travestimento sceglieresti.

Per svelare il mistero del mio travestimento, Laura dovrà aspettare che davvero li raggiunga a Venezia, durante il carnevale, e chissà se riuscirò a sorprenderla, oppure la mia scelta cadrebbe su ciò che immaginava lei stessa per me.
Sotto quali maschere potrebbe essere avvenuta la chiacchierata che vi propongo con i due splendidi autori di “L’estate del cane bambino”?: alla vostra immaginazione la scelta.

Foto di Antonio Dragonetti

Tra moglie e marito non mettere il dito, ma tra due scrittori si può?
Sono affascinata dall’esito della vostra scrittura. Un tono profondo, cupo, baritonale, dal dettato di estrema bellezza, che non presenta strappi, né smagliature. Le vostre voci sono perfettamente accordate, ma non sembrano i suoni ben orchestrati di due strumenti diversi, bensì due strumenti che si fondono in un unico suono.
Come lavora la ditta Pistacchio&Toffanello? Lo potete svelare o è un segreto?

Laura: Tutti pensano alla scrittura come a un atto separato dalla vita. Come se si vivesse e poi si scrivesse. Invece, più il tempo passa, più mi convinco che le ore alla scrivania, davanti al computer o con la penna in mano, siano solo una parte infinitesimale dello spazio in cui regna la scrittura. Il verbo è il cielo che ci sovrasta e la terra su cui poggiamo i piedi. Le strade, i paesi, le città, gli uomini sono canili dai quali le storie randagie chiedono di essere liberate.
Io e Mario viviamo insieme, ci svegliamo nello stesso letto, mangiamo alla stessa ora, percorriamo le stesse vie, lungo le quali facciamo gli stessi incontri. Abbiamo messo in comune il nostro destino e cerchiamo di non dargliela vinta.
Come una coppia di tango balliamo una canzone che è fuori di noi. E quando balli la stessa canzone abbracciato non devi fare molto altro, se non seguire la musica.
Il nostro lavoro quotidiano consiste nel tenere i piedi ben piantati per terra, non sbilanciare mai l’altro, non lasciarlo cadere, ma nemmeno consentirgli di appoggiarsi, restare in reciproco ascolto, essere sinceri, cercare uno stile comune.
Bisogna essere in due per ballare il tango. Bisogna scrivere in due, quando si è una coppia di scrittori che ha deciso di farlo insieme. Resta vero che viviamo ancora in una società tradizionalmente, intensamente, maschilista e monoteista. Lo scrittore è uno, è dio, è maschio ed è violento. Il conflitto tra retaggi è forte anche nella coppia, ma alla fine valgono le parole di Ginger Rogers: “Sulla scena facevo tutto quello che faceva Fred Astaire, e per lo più lo facevo all’indietro e sui tacchi alti.” (Mi sa che alla fine, Giuditta, il dito ce l’hai messo!)

Mario: Non lo so, più che un segreto è un mistero. Ha a che fare con tante cose diverse: l’ostinazione, la ribellione, l’insoddisfazione di chi ne vuole ancora anche se il bar sta chiudendo, più di tutto la volontà. Mi viene in mente Clint Eastwood, in Gunny, quando dice: “Qui è la mia volontà contro la vostra, e avete già perso in partenza”. Al di là dello scontro, è la consapevolezza di quanto possa essere potente la volontà la cosa che mi piace di questa frase. La certezza che agli esclusi non è dato altro che volere, provare, insistere, cercare e cercare ancora. Perché quando scrivi, in uno o in due non importa, è la solitudine la tua unica compagna. Nella solitudine le storie prendono vita, i personaggi corpo, le parole risuonano e puoi distinguere cosa funziona e cosa no, quali sono le parole della storia e quali quelle dell’ego, dell’assenza di vita, del non avere niente da dire. Ci vuole coraggio. Ogni giorno in cui ti siedi e scrivi qualcosa, devi farti delle domande: sei stato abbastanza onesto? Hai speso tutto quello che avevi? Per chi stai scrivendo? Qual è il motivo? Quante persone, giorni, occasioni, quanti pezzi di vita hai perso finora? E quanti altri ne perderai ancora prima della fine? Ne sta valendo la pena? Cose del genere. Come Orfeo non bisogna voltarsi fino alla porta del’Ade, come Prometeo si deve rubare agli dei, forse non è altro che questo, scrivere, camminare nella città proibita senza girarsi indietro, sapendo che ogni passo è una rivolta, un tradimento, un parricidio, un atto di volontà. Per quello che so, “L’estate del cane bambino” non è stato altro che questo, volontà, rinuncia, abbandono di sé fino alla porta dell’Ade; è stato portare il fuoco misurando l’impresa sulla bilancia del castigo, del prezzo da pagare. Cercando di non dimenticare mai che i libri, se sono buoni, ci sopravvivranno, che le storie non hanno padrone, e che in un giorno buono, con un po’ di fortuna, si può correre più veloci del diavolo.

Foto di Antonio Dragonetti

Visto che mi sono accomodata in mezzo a voi, spero mi consentirete di continuare a indagare e a rovistare nel vostro laboratorio creativo.
I personaggi di “L’estate del cane bambino” sono straordinari, ma nella mia percezione di lettrice, mi è sembrato che ad essere tratteggiati con estrema attenzione siano soprattutto i maschi. A partire dal gruppo di ragazzi, in quella fase straordinaria della vita, che voi racchiudete in un incipit di grande bellezza e icasticità. Genitori, ma è come se l’ultima parola spettasse sempre ai padri. Un nonno, e qui nessuna definizione tiene dietro alla figura che avete delineato. Un prete, con la sua tonaca svolazzante, una delle figure più controverse del romanzo. Poi le donne, che fanno gruppo, spettegolano, arguiscono e nascondono, ma che in un certo modo appaiono sempre vittime o succubi di una forza che le sovrasta, a partire da Ortensia.
Ci sono dei personaggi che appartengono più a l’uno o più all’altra? Non parlo semplicemente di empatia e partecipazione, che posso immaginare a volte scatti tra scrittore e personaggio creato, ma mi riferisco alla fase di germinazione dello stesso, quando si comincia a dargli una voce e uno spessore, se capiti che sia l’uno o l’altra a prestargli più attenzione e perché; o invece come funziona all’interno del vostro sodalizio creativo.

Laura: Nelle storie vige il principio della verosimiglianza. Immaginati il 1961 in un piccolo paesino, le donne senza potere economico, con meno istruzione degli uomini, spose che passano dall’autorità dei padri a quella dei mariti, fattrici di figli robusti e sani, angeli del focolare tuttofare. Sono i tempi in cui la condizione femminile è senza alternative quella auspicata da Pio X all’inizio del Novecento: “La donna che la piasa, che la tasa, che la staga in casa”. Il 1971, anno in cui la Chiesa sancirà la fine dell’antifemminismo radicale, dichiarando la pari dignità tra uomo e donna, è ancora lontano. Basta pensare a questa data (l’altro ieri, diamine) per rispondere alla tua domanda senza aggiungere altro: le donne non appaiono, le donne sono succubi di una forza che le sovrasta. Questa era la realtà del 1961 a Brondolo e, così com’era, noi l’abbiamo descritta. Lo stesso è accaduto con i personaggi. Non li abbiamo scelti. Una volta che abbiamo deciso di raccontare la storia di un ragazzino scomparso e dei suoi amici che si convincono che si sia trasformato in un cane nero, tutto è venuto di conseguenza. Come poteva accadere una cosa del genere? E perché? Dove? Quando? Quale tabù c’era dietro questa rimozione, quali condizioni di vita materiale e relazionale? Chi erano i ragazzini, come erano i loro genitori? Chi comandava in paese?
Come vedi non si tratta di scegliere a chi prestare attenzione. Il romanziere è uno storico che anziché raccontare grandi battaglie, racconta ciò che accade nelle camere da letto, nei confessionali delle chiese, nelle osterie, sempre nel pieno rispetto della verosimiglianza, che poi è la realtà del mondo della storia.

Mario: Capitava di essere in giro e trovarci a fissare un tizio dicendoci subito dopo: “Guarda quello là, è un Ceggion!”. Oppure: “E quella, no dico, l’hai vista? È lei, è la Gondola.” Ecco, i personaggi de “L’estate del cane bambino” sono nati così, vivendo la loro storia nelle nostre vite. Provando e riprovando ancora. O più semplicemente scrivendo. Qualcuno proviene da una fiera di paese, altri stavano pescando sul canale, certi erano alla fermata del tram battendo i piedi per il freddo, qualcuno bestemmiava al bar. Di alcuni era rimasta solo l’eco, di altri un dettaglio, per esempio l’impressione che ci avevano fatto, o il modo che avevano di guardarsi intorno entrando in una stanza; altri erano quanto rimaneva della loro storia, delle conseguenze delle loro scelte, degli errori fatti, del dolore, dei giorni felici. Come se fossero il capo di una gomena sul molo di un porto: devi afferrarla e tirarla a te con tutta la forza che hai per scoprire quanto è lunga, e dove ti porterà, e se all’altra estremità c’è qualcosa, o niente.

Non avrei mai accennato al cane e al bambino scomparso, se non l’avesse fatto Laura. Mai letta una storia così intensa. Tanti sono i cani straordinari da Lessie a Belle a cui sono legati i miei ricordi di bambina, ma incontrare Houdini è stato travolgente. In quale vicolo avete trovato un cane che somigliasse in modo così particolare a un bambino? Ma soprattutto qual è il segreto, o la magia, o l’incantesimo di aver saputo rendere “verisimile”, per usare un concetto sottolineato da Laura come espressione di poetica, un fatto assolutamente inverosimile come quello che lega Houdini al bambino scomparso? Perché è magia quella che si crea per il lettore nelle vostre pagine, tornare a provare quella sorta di onnipotenza, tipica dell’infanzia, in cui
le leggende erano vere, e se qualcuno ci avesse detto che non era possibile che un bambino si trasformasse in cane, ci saremmo stretti nelle spalle, infischiandocene.

Mario: Houdini è l’amico che non ho mai avuto, quello con cui andare alla conquista del mondo sbaragliando con una corsa a perdifiato la solitudine, il dolore, la paura. A volte penso che in fondo sia stato lui a trovare noi. E penso anche che esista una differenza tra credere e voler credere: il bisogno. Ho bisogno di credere a una cosa inverosimile perché non posso accettare la realtà, per non affondare nel male, nell’orrore, nella crudeltà. Perché altrimenti ci si può anche abituare all’ingiustizia e alla prevaricazione. O impazzire. Dove c’è bisogno non esiste libertà, al massimo scelte obbligate, come voler credere, contro tutto e tutti, che un bambino si sia trasformato in cane.

Laura: Degli animali mi interessa l’umanità. Ho incontrato due gatti che erano uguali a Fabrizio Bentivoglio, Milonga (la nostra gatta nera che si è trasformata nel gattocane di Vittorio Boscolo) è identica a Audrey Hepburn, e proprio l’altro ieri dicevo a un’amica sbigottita che tal dei tali era spiccicato un pastore tedesco. Ecco, forse molto nasce da qui: invecchiare senza diventare adulti, nonostante gli anni continuare a guardare il mondo con gli occhi di un bambino. E, si sa, “I cani e i bambini sanno sempre tutto, soprattutto quello che non è detto” (Francoise Dolto). Il resto è solo tecnica.

Vi rubo delle parole:
Il romanzo finisce così. “Che ne pensi?” chiedo a nonno Cestilio. Non so dire se gli sarebbe piaciuto o meno, solo adesso, dopo tutto questo tempo, ne capisco io stesso il senso. Vendicarsi, perdonare, essere perdonati.
Il romanzo è “Il conte di Montecristo”, che il protagonista stava leggendo con il nonno Cestilio, durante quel fatidico e fatale 1961. Non riuscirono a portarlo a termine, e a distanza di anni, di una vita intera direi, il nipote gli racconta la fine, in visita alla sua tomba. E il vostro romanzo come finisce? Non nella trama, che com’è ovvio non si racconta mai e ancora di meno per “L’estate del cane bambino” che gioca con il noir e affascina, senza spingere troppo sul pedale del mistero, ma rendendo quel mistero un elemento esistenziale e metaforico. Qual è il senso del romanzo? L’avete capito voi scrittori, o vi aspettate che lo capiscano da soli e con il tempo i lettori? Perché “L’estate del cane bambino” è uno di quei romanzi che una volta letti, non si dimenticano più. Tracciano una via nel cuore, solcata e definitiva.

Mario: Questo romanzo racconta di quello che eravamo e di chi siamo diventati. È la storia di un esilio, di un lungo addio, delle conseguenze di cinquant’anni di silenzio. Immagina un uomo che una volta era stato ragazzo, che aveva degli amici, che era certo che la morte non l’avrebbe mai raggiunto perché semplicemente, per lui, neanche esisteva. Immagina quel ragazzo che ogni giorno sbircia nella cassetta della posta cercando una lettera che non riceverà mai, osservalo diventato ormai uomo mentre fissa un telefono che non squillerà mai. È questa attesa che sospende la vita, la congela, la lascia passare osservandola come una sconosciuta in mezzo alla strada. Tornare indietro, all’infanzia, alla patria, alla casa del padre, inattesi nella notte per regolare i conti con il proprio passato e dopo vivere quanto rimane è il privilegio di scrivere, il motivo per il quale abbiamo scritto “L’estate del cane bambino”. Nella letteratura chi perde vince, al contrario della vita. È possibile tornare indietro e fare quello che non eravamo stati capaci di fare, scoprirci guerrieri invece che traditori, coraggiosi e non vili, impugnare di nuovo la vecchia spada di cartone e a cavallo di una bicicletta sfidare il drago. Come se il tempo non esistesse e niente finisse mai davvero.

Laura: Nella vita gli accadimenti dell’esistenza si succedono innescando azioni e reazioni talvolta dalle tragiche conseguenze, senza ordine e comprensibilità, ma – scriveva Karen Blixen – “Tutti i dolori sono sopportabili se li si inserisce in una storia o si racconta una storia su di essi”. La storia, ovvero, rivela il significato di ciò che altrimenti rimarrebbe soltanto una sequenza intollerabile di eventi (Anna Arendt).
Questo è ciò che capita a Vittorio Boscolo, il nostro narratore: ricevere una lettera, fare un viaggio a ritroso nella memoria infestata da rovi, tornare a Brondolo e scoprire ciò che accadde veramente in quella tragica estate del 1961, quando lui e i suoi amici si convinsero che un bambino si fosse trasformato in un cane nero. Scoprire chi aveva torto e chi ragione.
Questo è il senso del romanzo per me. Solo raccontando comprendiamo noi stessi e la realtà. Solo comprendendo il nostro passato possiamo cambiare il nostro presente e magari lasciare andare via il dolore. Lasciarlo scivolare via, come farebbe un bambino con una barchetta di carta.

Ultime domande.
Scrittura di diverso spessore, tematiche differenti per scavo e complessità, però “L’estate del cane bambino” può ricordare “Io non ho paura” di Ammaniti. Una comunità isolata, il passaggio dall’adolescenza all’età adulta, il rapporto complicato tra genitori e figli. Sud e nord d’Italia, a dimostrare in un certo senso che “ogni mondo è paese” e l’Italia dei tanti campanili, poi nasconde una sola anima. Avete letto il romanzo di Ammaniti? Se sì, sono più le differenze o le somiglianze tra le due opere?

Laura: La tua domanda mi fa pensare alla parabola dei sei saggi ciechi e dell’elefante. Un elefante, a occhi chiusi, può sembrare un enorme ventaglio rugoso se gli tocchi le orecchie, essere un paio di lunghe ossa se gli tocchi le zanne, assomigliare a una grossa corda, se gli tasti la proboscide. Eppure un elefante è qualcos’altro. “L’estate del cane bambino”, oltre a “Io non ho paura”, che citi tu, è stato accostato a parecchi libri, il racconto “Il corpo” (in “Stagioni diverse”) di Stephen King, “It”, sempre di King, “Il buio oltre la siepe” di Harper Lee, “In fondo alla palude” di Joe Lansdale, qualcuno ha persino scritto che gli ricordava “Agostino” di Moravia, qualcun altro i libri di Eraldo Baldini. Questo lo dico non per screditare il paragone, ma solo per introdurre che, necessariamente, sono più le differenze che le somiglianze. Certamente, tra i due libri ci sono dei motivi comuni, un gruppo di ragazzini, il rito di passaggio, la perdita dell’innocenza, la comunità isolata che poi è anche il confine tra la casa domestica e la natura mai completamente addomesticabile, l’orrore che ne deriva, ma le storie che i due romanzi raccontano, i loro temi, sono completamente differenti, proprio come un elefante è diverso da una grossa corda. Quando penso a “Io non ho paura”, per un processo analogo di focalizzazione su un aspetto a discapito degli altri, personalmente mi viene in mente “Monsieur Verdoux”, immortale atto d’accusa contro la società capitalistica che produce una tale schizofrenia per cui un individuo può essere contemporaneamente un marito premuroso e uno spietato serial killer. E questo, in altri termini, accade anche in “Io non ho paura”: genitori amorevoli con la propria prole che, per un televisore, una bicicletta, un futuro migliore per i propri figli diventano spietati carnefici dei figli altrui. Pare che l’idea del film di Chaplin sia da attribuirsi all’immenso Orson Wells, ma nel libro di Ammaniti è altrettanto radicale, ben sviluppata e magistralmente originale rispetto alla società che illumina attraverso l’elemento di un crimine diverso.

Mario: Per quello che vale il mio parere, Ammaniti è uno scrittore eccezionale. Mi piacciono le storie che racconta, la considerazione che ha del lettore, e forse più di tutto il suo stare lontano dal centro della scena, l’essere defilato, lasciando parlare i libri. Quando un lettore accosta due romanzi, quanto simili in realtà non importa, senza fare troppi calcoli, partendo dal proprio gusto, dal piacere che ha avuto nel leggerli, per me è sempre una festa. In fin dei conti inseguiamo tutti il primo vero bacio.

Nella vostra coppia c’è il sud dei natali di Mario e il nord di Laura, quale dei due ha prevalso o meglio quali caratteristiche della geografia infantile dell’uno e dell’altra è presente nel romanzo?

Mario: La mia infanzia è stata una processione di solitudini, di blue valentine come dice Tom Waits. Sono cresciuto in un paese di campagna, selvaggio, fanfarone, figlio unico per dieci anni. Giocavamo a pallone sotto casa, dopo mangiato quando il Bottegone – il negozio di alimentari – era chiuso e la saracinesca faceva da porta. Avevo una bici di seconda mano, e ai libri, che non c’erano, preferivo i petardi, le motociclette, i coltellini che qualcuno di noi aveva rimediato chissà come. Poi, un pomeriggio, sono diventato grande. Come Vittorio, all’improvviso, perché è così che succede. Scambi i tuoi mezzi sogni con il rancore. Non so quanta parte di questo vecchio me stesso sia finita dentro “L’estate del cane bambino”. Quello che so è che scrivendo questo romanzo abbiamo fatto i conti con quello che eravamo, diluendo il veleno per non scappare più, tornando indietro per darci il perdono. Come il biglietto d’auguri che ricevi a ogni San Valentino, come la tomba sulla quale non hai mai avuto il coraggio di piangere.

Laura: L’infanzia è una terra straniera, un altrove assoluto. Una volta che termina, diventa una proiezione al passato di sé al presente, una miniatura. È un ricordo e i ricordi sono fallaci. A mia memoria, non sono mai stata bambina, solo un’adulta imprigionata in un piccolo corpo tenuto sotto sequestro dall’anagrafe. Sicuramente non ho mai giocato a calcio, questo credo di poterlo dire con relativa certezza. Sono nata a Torino e cresciuta in Piemonte, ma il ramo paterno della mia famiglia è originario di un piccolo paese del Polesine e mio nonno, sfuggito miracolosamente alla fucilazione per aver dichiarato di essere veneziano, mi ha sempre insegnato a fare altrettanto. Nel sangue ho il mal di terra, il blues dei fiumi che scorrono sempre in discesa, le dune di sabbia che da piccola mi sembravano il Grand Canyon. Molte estati le ho trascorse per davvero a Sottomarina. Dopo la stesura del nostro romanzo, però, fatico molto a distinguere la mia infanzia da quella di Pistacchio e la nostra da quella di Vittorio, Menego, Stalino, Ercole, Narciso e Michele. Questo perché uno scrittore è talmente a servizio della propria storia che non sono i suoi ricordi a darle forma, ma piuttosto il contrario.

Cosa altro aggiungere? Leggete “L’estate del cane bambino” se fortunatamente non l’avete ancora fatto (come vi invidio il privilegio di dover ancora incontrare Houdini!) e poi, se vi va, tornate a leggerci.

Chiacchierando con… Mario Pistacchio e Laura Toffanello