Tutta intera per Einaudi è il primo romanzo, di complessità piena e riuscita, di Espérance Hakuzwimana, ma non è il suo primo libro. Nel 2019 per People aveva scritto, raccontando la sua storia, E poi basta. Manifesto di una donna nera italiana.
Che orgoglio vedere quei due aggettivi posti vicini e innervati l’uno nell’altro.
Mi sono innamorata di Espérance Hakuzwimana, del lavoro di attivista e del modo che ha di porgersi agli altri, durante la versione online del Salone del Libro di Torino, nell’incontro con Loredana Lipperini. Questa occasione di confronto con lei, mi emoziona tantissimo, anche perché nel mezzo c’è stata la presentazione di Tutta intera a InQuiete, il festival che si tiene al Pigneto, a Roma. Era la prima volta che ero presente al Festival e ho aperto con la presentazione di Tutta intera.
Che rapporto c’è tra i due libri? Sono fratelli o lontani parenti?

Foto di Iman Selam

RISPOSTA: Di tutto questo mio scrivere, delle ore passate a fissare i fogli, a chiedere alla testa di darmi le parole giuste, il risultato più bello è sì il testo finale – il titolo, la copertina, il libro come oggetto fisico – ma è anche la sensazione di aver tirato fuori da me una parte profonda. Non a caso sia il primo che il secondo libro li ho presentati come figli di carta; il primo un “bimbo blu elettrico” e il secondo “Nipo” diminutivo di “nipotino” per tutte le persone che l’hanno atteso come me.
Questi due libri sono specchi, sono finestre aperte e labirinto di uno stesso messaggio. Il primo era un manifesto, il secondo ha un manifesto al suo interno, fatto di nomi, di voci e di storie che ho camuffato ma che arrivano dalla vita vera. Sono due libri che si rincorrono, due esperienze di scrittura che si lanciano rimandi continuamente: la prima è multiforme, segue un ordine intimo e sentimentale, la seconda è una storia dalla trama lineare, piccola ma densa di riflessioni.
Sono parenti e discendenti e forse, anche qui, mi piace ritrovare la coerenza che ho nelle cose che porto fuori nel mondo sia come scrittrice che come attivista.
Sono i miei due bimbi, venuti al mondo nell’ordine contrario in cui sono diventati di tutti, degli altri, ma dal valore inestimabile per i punti che hanno messo in luce e che ho tirato fuori in questi ultimi anni di studio, di incontri, di vita ma soprattutto di resistenza a un mondo che troppo spesso mi priva della mia identità. Ma per fortuna scrivo e la mia storia, insieme a quelle che scrivo, non si può cancellare.

Nella quarta di copertina si segnala qual è il contributo, nuovo e urgente, di Tutta intera: ci sono storie che aspettano di essere raccontate.
Ed è certamente vero, ma ancora di più credo che Tutta intera sia un libro necessario per lo sguardo sul mondo.
Ci parlavi dei tuoi libri come parte della tua attività di attivista. Anche nelle pagine di Tutta intera c’è una forte attenzione alla “denuncia” di atteggiamenti e di pregiudizi. Con uno sguardo senza edulcorazioni sulle adozioni. Su una differenza, che diventa anche fisica e geografica, tra un noi e un loro. In mezzo al fiume che taglia in due il paese, e lo divide tra la Città e Basilici c’è Sara, la tua protagonista, adottata da genitori bianchi, un professore di liceo che le ha insegnato il potere delle parole e la cuoca dell’asilo, che ha riempito di dolcezza la sua vita e quella di tanti bambini.
Sara ha vissuto sempre nella parte sbagliata o semplicemente in un posto diverso?
RISPOSTA: In una delle prime presentazioni di questo libro mi hanno chiesto se secondo me fosse un libro politico. La mia risposta ovvia e limpida è stata “Quale libro non lo è?”. Ma forse ho peccato di supponenza, forse ero (e sono) talmente tanto dentro questa storia che mi chiedo come si possano amare e usare le parole senza dare loro il potere di cambiare le cose. Non per forza il mondo, dico io, ma lo sguardo almeno.
Quando ho immaginato Basilici ho preso in prestito l’esperienza vissuta a Castel Volturno e quella legata a moltissimi paesini della provincia che spesso sono divisi da fiumi, stradoni, piazze, vie precise che segnano parti fondamentali dello spazio (le contrade, le zone, le aree specifiche che decretano dove nasci ma soprattutto come rischi di crescere).

La geografia umana e sentimentale è stata una base fondamentale per capire quali fossero i miei spazi e inevitabilmente è entrata anche dentro questa storia. Volevo parlare della provincia senza renderla chiusa, ma aprendola il più possibile all’altro. La Città (che non ha un nome) diventa il mondo e nascere dalla parte giusta o sbagliata del mondo non è una scelta ma è un insieme di conseguenze che ti segnano e ti lasciano tracce addosso.
Di Sara non sappiamo “il prima” perché in un’esperienza adottiva raccontare il prima significherebbe occuparsi e approfondire una parte importante di una storia grande. Ho scelto di raccontare la Sara del “poi”. Io l’ho immaginata nascere a Basilici e crescere a Bellafonte; due posti che visti da fuori, da lontano potrebbero essere immaginati e scambiati per la stessa cosa ma così non è. Un fiume, un confine più o meno marcato, mettono in chiaro le regole, le dinamiche, le abitudini e anche i privilegi di un futuro che per tutti così accessibile non è. E Sara, come protagonista si ritrova davanti a questa consapevolezza dura, chiara e senza sconti.
Lì nasce la sua crisi: nel momento in cui capisce che dove è cresciuta non l’ha salvata o preservata dal posto da cui è nata, o dal posto in cui sono nate molte delle persone che le assomigliano maggiormente.
Il ponte, il frutteto, il fiume, i quartieri diventano personaggi a loro volta che si plasmano, si appiccicano alla pelle di Sara e di chi le vive attorno. Diventano occasioni di “ascolto”; un ascolto che passa attraverso lo sguardo, la distanza che si manifesta, il “centro” (rappresentato dalla scuola, l’oratorio, il solito bar) che viene decentrato e mostra la realtà sotto altri punti di vista (la questura, il frutteto, Basilici). L’ho immaginato come un continuo rimando dal centro ai margini e al contrario, con “messaggera” una Sara che non ha strumenti, non ha armi e si arrende all’inevitabile che ferisce e che le permette anche di crescere, di scoprirsi. E così diventare.

Spostiamoci insieme con Sara dall’altra parte del fiume. A Basilici. Lì Sara incontra nella classe di recupero pomeridiano che le è stata affidata ragazzi che le somigliano, ma che sono totalmente al suo opposto. Più grintosi e consapevoli, a partire dal loro nome. Per Sara è difficile da memorizzare, ma ce la mette tutta, e anzi comincia a mettere in discussione anche il proprio, soprattutto nella versione vezzeggiativa utilizzata in famiglia di Saranostra.
Sono ragazzi invisibili, che possono sparire senza che nessuno se ne preoccupi. Ma tra di loro si vedono e si capiscono.
Chi sono? Un alter ego per Sara o uno specchio in cui finalmente riflettersi e vedersi davvero?
RISPOSTA: Nell’operazione più sincera che ho provato a mettere in atto con questo libro il passaggio più facile è stato quello di raccontare i ragazzi e le ragazze di Basilici.
Ogni volta che ci penso, che ricordo i mondi che ho creato per loro e che forse nel testo vengono fuori anche in una maniera un po’ limitata (maledetto editing! ahah) io so di aver svolto una delle cose di cui vado più orgogliosa! Una vera e propria operazione di rappresentazione sincera, aperta, disponibile e libera.
Volevo raccontare le vite che esistono nelle nostre scuole, nelle nostre piazze e nelle strade che spesso ignoriamo perché le pensiamo straniere, diffidenti, lontane, diverse e da evitare. Le figlie e i figli di immigrati sono vivi, sono veri e sono in Italia da più di 20 anni, 30 oserei dire e nessuno li racconta. Ci sono i telegiornali, i talk show, le voci e le leggende metropolitane che li hanno condannati ad essere delinquenti, disagiati, ghettizzati per sempre. Invece sono molto di più. E io volevo portarli sulla carta esattamente come io li ho incontrati nella vita vera: a 360° con le loro sfaccettature di realtà, di bellezza e di corpi e anime piene di crepe.
Essere una persona di cosiddetta “seconda generazione” in Italia è dura. È un mondo che non ti accetta, che ti rifiuta, che ti impone di essere ciò che non sei e ti annulla, disintegrando la tua autostima, portando avanti la politica della vergogna e dell’umiliazione come la chiama bell hooks.
Per me mettere sulla strada di Sara queste vite è stato inevitabile e importantissimo. Loro che le assomigliano così tanto apparentemente (per le origini, la pelle, la differenza evidente) in verità hanno le radici ben piantate e l’arroganza degli adolescenti che vogliono tutto e se lo prendono perché possono, perché devono. Sono uno specchio di Sara sì, ma immagino più che altro lo “Specchio delle emarb” di Harry Potter che ti mostra quello che desideri solo se hai un cuore puro. Ecco Sara cerca di sfuggire a ciò che questi ragazzi le mostrano perché fa male, perché chiede impegno, fatica e un lavoro troppo grande per lei e li rifugge. Ma loro restano lì e dall’alto della barriera che hanno costruito per proteggersi dal mondo (e dai sìsì) non smettono mai di metterla alla prova; anche quando provano a legare con lei o la portano nel loro mondo.

Le vite di Basilici, dei bambini e dei ragazzi un po’ esiliati, un po’ feroci permettono a Sara di scoprirsi a pezzi. Non li vede tutti, non li raccoglierà ma con loro, grazie al reale ascolto capirà che si era immaginata e narrata in un modo preciso che non esisteva se non nelle sue convinzioni e nella sua paura di essere diversa. Loro nella loro schiettezza, nella loro crudele onestà nel dichiararsi arrabbiati, stufi e annoiati le insegnano tutto quello che non credeva di aver bisogno di sapere.
E poi sì, sono ragazzi invisibili che ho voluto rendere reali raccontandoli. Perché li conosco e ognuno di loro vive in ogni nome che ho inserito nei ringraziamenti del libro. Ogni nome, ogni mia amica e ogni mio amico, sono stati per me la fonte principale di questa realtà. Di queste vite che esistono da decenni, che hanno studiato qui, si sono innamorate qui e lavorano, vivono, imparano e portano avanti idee, famiglie, lotte qui in Italia, il loro Paese. Era troppo importante che ci fossero tutti, uno per uno, camuffati dietro le storie di Taja, Mihai, Charlie, Raivo, Amina, Rachel, Paul e tutte le altre e tutti gli altri.

Il fiume Sele che taglia in due la città è uno dei pochi toponomastici (o forse l’unico?) che rimanda a una geografia reale e precisa. Per il resto la toponomastica è immaginaria, come i luoghi in cui si muove Saranostra, a dimostrazione che il luogo in cui è ambientato Tutta intera è ovunque e in ogni parte.
Da cosa nasce quel toponomastico così preciso e quale forza rivestono nel romanzo i luoghi immaginari, con il loro stretto aggancio alla realtà fattuale? Penso anche alla piantagione di pesche, ricchezza e caratteristica del paese al di là del fiume, l’oro rosa per tutti gli abitanti.
RISPOSTA: Per assurdo i nomi sono arrivati così, dal nulla.
Sele ho scoperto solo dopo che esisteva realmente in Italia (tant’è che quando mi chiedono se il posto è ispirato a quelle zone sorrido molto!).
Ogni luogo è un personaggio. Lo è l’oratorio san Filippo, il liceo Tasso ma soprattutto lo sono i quartieri: Bellafonte dove Sara cresce, protetta dall’amore; Rossini dove inizia il suo vero percorso di identità ed emancipazione; San Giacomo così lontana da tutto e da tutti, inaccessibile quasi e poi Basilici, che contiene segreti e risposte.
Sono una fan della geografia dei sentimenti. I posti in cui siamo stati che ci hanno segnato. Ancora oggi nelle città in cui ho vissuto ci sono strade, incroci, palazzi, parchetti e sottopassaggi che mi dicono chi sono stata e come sono diventata la persona di ora. Li ho presi tutti e gli ho cambiato nome inventandolo di sana pianta senza chiedermi se esistesse o meno (a parte il Ponte della Pace, perché è un posto che esiste per davvero così come l’ho descritto e chiamato!). Volevo dare a questo libro un ruolo agli spazi, una parte anche a ciò che di solito sta nello sfondo ma che nei paesi, in provincia ha un ruolo fondamentale.

La storia del frutteto è forse il passaggio più reale che questo libro abbia. Ho preso l’ispirazione e lo sguardo dalla situazione dei braccianti del Saluzzese qui in Piemonte e mi sono chiesta come fosse possibile che tutte quelle vite venissero ignorante seppur essendo così visibili, presenti sul territorio cittadino. Ho voluto (ho provato!) a mostrare quanto e come cambia il significato di un bene così grande come l’oro rosa in base a chi lo sta guardando. Da quale parte del fiume si guarda la vita determina anche il modo che abbiamo di guardarla questa vita qui. E per me era importante dirlo, ricordarlo prima di tutto a me.

Siamo arrivate all’ultima domanda. Io chiuderei con il titolo.
Tutta intera è il titolo di questo romanzo così nuovo, travolgente e innovativo. È un augurio? Una speranza? o un invito? e a chi è rivolto?
RISPOSTA: Tutta intera è l’augurio più grande che potessi fare per la protagonista del mio libro, che non ci arriva ad esserlo ma, alla fine, capisce che forse il punto non è tanto riuscirci nella interezza ma capire da cosa è formata.
Mi piaceva l’idea (a partire da una poesia di Patrizia Cavalli) che accanto al mio nome unico, anzi sotto, ci potesse essere un invito così luminoso, potente e bello.
Quando è arrivato questo titolo ho sentito sin da subito che potesse essere lui, contenendo moltitudini e schegge.
Una preghiera prima di andare a dormire e un mantra alla mattina, ecco cos’è per me questo titolo piccolo e gigante.

Chiacchierando con Espérance Hakuzwimana