di Andrea Cabassi

IL NANO NASCOSTO IN NOI

Recensione al libro di Alfredo Palomba

Quando le belve arriveranno (Wojtek edizioni)

Nel 1951 il Premio Nobel per la Letteratura venne assegnato allo scrittore svedese Par Lagerkvist. Fra i suoi romanzi si annoverano “Barabba”, “La mia parola è no”, “Pellegrino sul mare”, tutti pubblicati in Italia dalla casa editrice Iperborea. Negli anni della Seconda Guerra Mondiale aveva scritto un libro molto bello che rifletteva il periodo storico che stava vivendo: “Il nano”. Anche questo testo è stato pubblicato in Italia – per la prima volta nel 1991 – da Iperborea.

“Il nano” è ambientato in una corte rinascimentale italiana, luogo di intrighi, tradimenti, invidie, gelosie, tragedie. Ha come protagonista la figura inquietante, perturbante di un nano che vive a corte e che non comprende e disprezza la corporeità, l’amore, che non comprende e disprezza la trascendenza in qualsiasi forma essa si manifesti. Nel nano si specchiano  tutti gli altri, donne e uomini della corte perché, secondo il nano, ognuno di noi, nei bassifondi della sua anima, coltiva il suo nano dal volto di scimmia:

“Ho notato che a volte incuto timore. Ma è di se stessi che gli uomini hanno paura. Credono che sia io a spaventarli, e invece è il nano nascosto dentro di loro, quell’essere simile all’uomo, dal volto di scimmia, che leva la testa dal profondo della loro anima. Si spaventano perché non sanno di avere un altro essere dentro di sé. Hanno sempre paura quando qualcosa affiora alla superficie, qualcosa che sale dal loro intimo, dai bassifondi della loro anima, qualcosa che non riconoscono e non ha nulla a che fare con la loro vera vita. Quando nulla appare sulla superficie non hanno paura, non provano la minima inquietudine. Se ne vanno in giro a testa alta, impassibili, con i loro volti lisci senza espressione. Ma c’è sempre dentro di loro qualcos’altro che fingono di ignorare, e vivono senza saperlo molte vite diverse tutte insieme. Sono così stranamente segreti e incoerenti.

E sono deformi senza che ne traspaia nulla”(Pag. 28-29. Il corsivo è mio).

Il nano che è nascosto in noi è uno dei leitmotiv del bellissimo libro di Alfredo Palomba “Quando le belve arriveranno” (Wojtek 2022). Come quello di Lagerkvist, anche il romanzo di Palomba è duro e spietato benché fiammelle di pietas si accendano qua e là fra le pagine, come si vedrà oltre.

Chi è Alfredo Palomba?

Alfredo Palomba è dottore di ricerca in Letterature comparate e docente nella scuola secondaria. Il suo primo romanzo, “Teoria della comprensione profonda delle cose” (Wojtek 2019) è stato segnalato al Premio Calvino, proposto per  il Premio Strega 2020 e scelto per rappresentare il romanzo d’esordio italiano all’ Europaisches Festival des Debutromans 2020 di Kiel. Collabora con il quotidiano “Il Foglio” .

E ora questo romanzo. Di cosa parla e cosa c’entra il nano di Lagerkvist con Alfredo Palomba?   

Un giovane – il narratore – tormentato da una vita familiare miserabile si trasferisce in un’anonima cittadina dove svolge il ruolo di docente di sostegno. In questo luogo e con questo ruolo cerca di costruirsi una nuova dimensione, ma la realtà intorno a lui diventa sempre più allucinata e i colleghi sembrano cambiare e diventare creature sempre più bestiali, meschine, pericolose, prive di un qualsiasi senso di pietas. Cosa è reale? Cosa è onirico? Quale è il rapporto che si instaura tra realtà e allucinazione? Perché frammenti di passato riemergono da zone profonde dell’inconscio del narratore per perseguitarlo? L’unica persona che pare mantenere una dimensione umana è il ragazzino Hoachen, l’alunno che il protagonista segue come insegnante d’appoggio.

Ma cosa c’entra il nano? Cosa c’entra Lagerkvist?

Il narratore, in una delle sue passeggiate nel parco trova, abbandonato su una panchina, il suo libro:

“L’altro ieri ho notato un libro lasciato su una panchina: un romanzo intitolato Il nano, di un certo Par Lagerkvist, uscito a Stoccolma nel 1944. L’edizione è però recente, dallo strano formato stretto e allungato. Sulla copertina telata è raffigurata l’incisione, a tratti grossolani, di un borgo fitto di torrette e pinnacoli. Non so perché fosse lì, se sia stato dimenticato o se qualcuno l’ abbia lasciato apposta. Si tratta del diario di un nano impiegato come bufone in una corte italiana del Rinascimento. Comincia con una rapida e secca descrizione del suo corpo e della sua forza fisica, aggiungendo a riprova che, durante uno scontro organizzato contro l’altro nano di corte, lo ha scaraventato a terra e lo ha strangolato, rimanendo a palazzo l’unico della sua stirpe, che considera diversa, superiore, rispetto a quella umana. ‘La maggior parte dei nani sono buffoni’ c’è scritto nella prima pagina, ‘Devono dire facezie ed eseguire trucchi che inducono al riso i padroni e gli ospiti. Io non mi sono mai abbassato a cose del genere. Né nessuno me lo ha mai nemmeno proposto. Già il mio aspetto d’altra parte impedisce un tale impiego della mia persona. Il mio volto non s’addice a ridicoli scherzi. E io non rido mai.

Non sono un buffone. Sono un nano e niente altro.

Ho invece una lingua tagliente che può, forse procurare un po’ di divertimento a qualcuno tra le persone che mi circondano. Non è la stessa cosa che essere il loro buffone’” (Pag.45).

Qui non è mia intenzione paragonare i due testi, ma sottolineare l’uso sapiente che Palomba fa del romanzo di Lagerkvist che significa anche collegare l’allora con ora. Allora la guerra, i tradimenti, la spietatezza, ora ancora la guerra, la distruzione dell’ambiente, la deriva dei valori, il loro sgretolamento. Non a caso il nano ricomparirà in altre pagine dure e molto efficaci, ad esempio quando in narratore si trova a chiacchierare, in un momento di pausa, con il suo becero collega Amadei:

“Se Amadei ha capito qualcosa di me è che non mi interessa farmi degli amici né le forme varie del pettegolezzo e della delazione. Non sono uno di loro e lui lo ha intuito. Si sente sicuro a sfogarsi. Il nano dice che a volte le persone lo temono ma in realtà non è lyi che temono, è il nano nascosto dentro di loro, un essere simile all’uomo, col volto di scimmia. Quando questo essere viene in superficie, quando qualcosa di estraneo, che gli uomini non riconoscono né possono credere di possedere, affiora, allora hanno paura. Altrimenti, se ne vanno in giro spavaldi a testa alta, ridicoli. Ecco il mio talento, far emergere in chi mi sta vicino il nano dentro di sé. Io sono per gli altri, senza che se ne accorgano, la loro stessa solitudine” (Pag.72).

Ma, al di là di questa velleitaria dichiarazione di intenti, chi è per davvero questo giovane?

È una persona che sembra essere scissa, che sembra abbia paura di provare emozioni, che abbia paura di esserne dominato e, allora, se ne allontana.  Non trova ristoro nell’incontro con gli altri e l’Altro è una potenziale minaccia. Vive una realtà priva di sentimenti, squallida, grottesca, come sono grotteschi il bidello Vanni e la sua compagna Patti. Non prova sentimenti (ma forse risentimento) per la madre alcoolista da cui è fuggito lasciando anche la nonna, che lui chiama la nonna-pianta perché afflitta da una gravissima forma di Alzheimer. Anche il rapporto con i colleghi e le colleghe è alquanto problematico, (lo si è visto più sopra con Amadei), storie d’amore che potrebbero nascere sembrano andare alla deriva nell’espace d’un matin.

In occasione della morte della nonna-pianta il narratore di definisce un involucro e questo ci dà l’idea di come lui si viva:

“La nonna-pianta non è morta, è finita, come se fosse un film e si potesse riavvolgerla e farla ricominciare da capo. Ora è nel letto, ha smesso di respirare, diventa fredda poco a poco e, per il resto, è esattamente uguale a prima. Sua figlia cerca un conforto che non posso darle. E’ tremendo che l’unica persona rimastale al mondo sia io. Non penso quasi mai a lei e, quando succede, non provo niente, nemmeno il disgusto che mi ha spinto a venire qui. E’ come se mia madre si fosse ridotta alle telefonate e ai messaggi a cui non rispondo, alle richieste di vedere l’involucro che sono” (Pag.77).

Al nostro docente di sostegno manca quello che lo psicoanalista tedesco Johannes Cremerius chiamava, nei suoi seminari molto belli e appassionanti, l’appetito alla vita; quell’appetito alla vita che, secondo Cremerius, deve essere uno degli obiettivi fondamentali della psicoanalisi.

Manca l’appetito alla vita a cui si associa un progressivo sgretolamento del reale. O meglio: l’impressione che abbiano noi lettori è che il reale del narratore si stia sfaldando. Mano a mano che si procede nella lettura siamo presi dal dubbio. È reale quello che viene descritto? È reale questa realtà sempre più cupa, sempre più drammatica, sempre più disperata?

C’è una grandissima capacità in Palomba di giocare sull’orlo del borderline e del non-detto. Ci sarà qualche segreto di famiglia da svelare nell’infanzia del nostro giovane insegnante? Ha subito qualche trauma? Sono indicibili segreti di famiglia che lo rendono così apatico, così incapace di reagire? Potrebbe aggrapparsi al loro svelamento, se realmente ci sono, per cambiare?

E ancora, cosa è, cosa significa quella scritta che compare spesso sui muri e che per il narratore diventa un assillo, “Verità per Cristiana”. Chi è Cristiana? Cosa le è successo? Perché non è ancora stato sciolto l’enigma? È una scritta reale o è il frutto di un’allucinazione?

Misteri che si infittiscono, assilli che aumentano. E, poi, cosa sarà mai quel nero che sembra manifestarsi sempre più diffusamente in questo anonimo paese.?  E cosa ne è del progetto del narratore di svelare il nano che ognuno dei suoi colleghi, degli abitanti di questa strana cittadina porta dentro di sé?

C’è una grande capacità in Palomba di farci slittare, senza che ce ne rendiamo conto, sul terreno dell’etica e della politica. Perché, forse, le belve sono già arrivate e non ce ne siamo neppure accorti. Perché, alla fine. L’unico che non è una belva – come si diceva più sopra – è il ragazzino Hoachen:

“Lo invidio. Invidio profondamente le persone come lui e la nonna-pianta, che fanno a meno della coscienza, come maestri zen. Hoachen non ha coscienza di sé né della sua disabilità né della morte. Persegue piccoli piaceri quotidiani quando se ne presenta l’occasione. La società lo considera un disgraziato, per me è il bambino più fortunato della scuola- Sconfitto al pari di tutti gli altri ma senza saperlo, senza potersi pensare, come gli animali. Accudito col minimo necessario di cure, è destinato a vivere una beatitudine costante e perfetta. Immune alla sofferenza di un essere umano. Quando starà per morire, non lo saprà. Se sua madre morirà prima di lui, a stento sarà in grado di accorgersene. Si abituerà all’assenza di Mei Lin alla svelta. Se ne dimenticherà e basta. E’ un illuminato, è davvero felice” (Pag.66-67). Ma è poi davvero così? Benché più umano di tutti gli altri Hoachen è davvero felice? O esiste anche per lui un barlume di coscienza infelice, di hegeliana memoria, prodromo a una consapevolezza di felicità?

Lo Scaffale di Andrea: “Quando le belve arriveranno”