Ormai sono una grande fan di Enrico Macioci, e ogni libro è una sorpresa e una riconferma, come succede talvolta con quegli scrittori che dalla loro hanno una scrittura talentuosa e sicura come la sua, dall’altra hanno un punto di vista di partenza sulla realtà che mi appartiene, forse anche perché anagraficamente si parte dallo stesso punto, ma contemporaneamente riescono a essere ogni volta spiazzanti e sorprendenti.

Con Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia, pubblicato da TerraRossa edizioni, Macioci parte da un fatto di cronaca che nella visione generale della storia del costume e della società italiana ha rappresentato un momento saliente e significativo, ma contemporaneamente è stato un evento di estrema tragicità per quelle generazioni che nel giugno 1981 si sono affacciate sul buco nero del pozzo di Vermicino. La tragedia, per la prima volta in diretta televisiva, di Alfredo Rampi. 

Dopo aver letto il nuovo libro di Enrico Macioci, però, so una cosa importante, della quale ora ho estrema consapevolezza. Per chi come noi era un bambino coetaneo di Alfredo Rampi quella vicenda ha rappresentato, precocemente, la perdita dell’infanzia e l’ingresso in un mondo tenebroso e inquietante, come è sempre la vita per chi la sa guardare senza edulcorazioni. 

Cosa rappresenta per te la vicenda storica che fa da sfondo a Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia, e nel romanzo assurge a metafora di cosa?

RISPOSTA: Il dramma di Alfredo Rampi rappresenta a mio avviso una sorta di spartiacque: nella storia della televisione italiana c’è un prima e un dopo Vermicino. Per la prima volta il fuoco di fila delle telecamere si concentrò a reti unificate su un unico punto, su un’unica persona, su un’unica vicenda; e si dà il caso che questa vicenda fosse oltremodo drammatica, e quindi intrinsecamente attrattiva per il vasto pubblico cui venne offerta. La cosiddetta tv del dolore, sebbene sostanzialmente in buona fede, prendeva piede; ma non solo. Prendeva piede un uso più spericolato dei mass media, capace di tratteggiare un’anticipazione di ciò che viviamo oggi: un’infodemia onnipervasiva e perpetua in cui è davvero difficile rimanere lucidi e conservare la capacità di discernimento.

Nel romanzo invece la caduta nel pozzo di Alfredo rappresenta la perdita dell’innocenza di chi è ancora troppo piccolo per smettere di credere alle favole, ai buoni e al lieto fine; rappresenta inoltre la presa d’atto dell’inadeguatezza degli adulti dinanzi ai grandi temi, la conferma che le loro competenze sono spesso superficiali e che è la fulminante onestà dei bambini, ancora privi di filtri sociali e culturali, a risultare più efficace quando sul tavolo vengono gettati i dadi delle questioni decisive.

La tragedia di Vermicino in Sfondate la porta e entrate nella stanza buia si intreccia alla vicenda dell’io narrante, al quale hai prestato dei chiari riferimenti biografici che ti riguardano come l’età e la città, L’Aquila, e il suo migliore amico dell’epoca, Christian Créoli, che in una sera di giugno, mentre tornava come d’abitudine da solo a casa per poche centinaia di metri, scompare nel nulla. Di più non posso e non voglio dire, perché come sempre nei tuoi romanzi c’è un elemento fortissimo di suspence che non posso svelare ai lettori. Non è un memoir il tuo. Non stai raccontando una vicenda reale, ma il narratore sfonda le porte della pura fiction, perché gioca a nascondersi dietro le pieghe dell’autore.

Ci spieghi chi sono questi due bambini? E che cosa vivono nelle pagine del romanzo senza fare spoiler?

RISPOSTA: Si tratta di due seienni, dunque coetanei di Alfredo Rampi al momento della caduta nel pozzo, che vivono in due palazzi limitrofi alla periferia di una cittadina di provincia, la quale poi sarebbe la mia città (L’Aquila) sotto mentite spoglie. Anche il quartiere in cui i due abitano ricalca il quartiere della mia infanzia, e in effetti il narratore Francesco è una copia attendibile del me stesso che fui e che sono – il romanzo viene narrato da un adulto che torna con la memoria al giugno del 1981. Christian Créoli invece, il migliore amico del narratore, è il risultato dell’incrocio di più persone – un modo di creare un personaggio che credo accada spesso agli scrittori di adoperare, e che nelle mie opere risulta frequente o frequentissimo. Si prende l’aspetto fisico da tizio, il carattere da caio, un certo tic da sempronio… e via via si costruiscono un uomo o una donna nuovi, mai esistiti. È una delle tante magie della scrittura d’immaginazione.

Christian a un certo punto sparisce, e sparisce contemporaneamente alla caduta di Alfredo Rampi nel pozzo. Dunque Francesco si trova ad affrontare due traumi assieme: la sparizione dell’amico e il dramma nazionale di Alfredo, trasmesso in diretta tv a reti unificate. Una sorta di matrioska dell’angoscia, uno choc dentro lo choc che per lui funziona – anche – da acceleratore esistenziale. I tre giorni dell’odissea di Alfredo sono, sebbene in modo assai diverso, tre giorni di odissea pure per Francesco – e in modo ancora diverso lo sono per Christian, come potrà scoprire chi leggerà il libro.

Mentre gli adulti non si dimostrano all’altezza di gestire la matrioska dell’angoscia, nella ricerca incessante di risposte e di soluzioni, Francesco può contare solo su un’altra sua pari, Benedetta:

aveva sei anni – mi sembra che tutti i bambini del mondo nell’estate del 1981 dovessero avere sei anni – e abitava al quarto piano, cioè un piano sopra di me e uno sotto al signor Sciacca. Bionda, capelli lunghi e lisci, occhi azzurri e lineamenti dolci, si meritava appieno il nome che portava.

Una salopette di jeans, calzini fucsia, scarpette da tennis rosa. Era la femmina migliore del palazzo perché non si tirava indietro se si giocava a calcio e correva veloce come un maschio veloce. Oggi, in tempi di ideologie sempre più rigide, le mie parole rischiano di suonare discriminatorie.

Nel 1981 invece i motivi della mia simpatia per Benedetta non avevano bisogno di giustificarsi.

E come Christian è il personaggio che crea una sincrasia con il caso di Alfredo Rampi, così Benedetta fa irrompere nella narrazione un altro elemento del reale di sconvolgente potenza, che credo appartenga sia a te che alla voce narrante: il 6 aprile 2009.

Ancora una volta in Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia si crea un cortocircuito tra reale e immaginario. Non è con questo connubio che come scrittore sfondi la porta del romanzo, per esaltare quel corsivo che fa da incipit al libro: credo quia absurdum?

RISPOSTA: In effetti è così, ma lo riconosco appieno solo adesso che mi ci fai pensare tu. Non è stata una cosa premeditata, né granché portata a un livello di consapevolezza. Mi sono sempre definito uno scrittore di storie d’invenzione, e nei confronti dell’autofiction credo di nutrire anche una certa allergia, dovuta probabilmente alla superfetazione del genere negli ultimi anni o decenni. In ogni caso, qui abbiamo senza dubbio una serie di cortocircuiti fra realtà e invenzione – la quasi/identità tra Francesco il narratore e il sottoscritto autore, la sovrapposizione o meglio il mescolamento tra la scomparsa di Christian e la caduta nel pozzo di Alfredo, poi anche l’irrompere di un altro dramma reale – il sisma che il 6 aprile del 2009 colpì la mia città. Come forse si sarà compreso, mi è venuto naturale regolarmi in questo modo; non sono uno scrittore che pianifica, seguo molto l’istinto, eseguo prime stesure veloci, ciò che m’interessa è appunto disseppellire la storia, di cui in genere ho intravisto quel pezzettino che mi rende inquieto e ansioso di scavare… La scrittura d’immaginazione, lo ribadisco, è un ben strano mondo; un mondo in cui l’autore trascende se stesso, il suo io ordinario, per acquisire, magari solo temporaneamente e solo a motivo delle esigenze della storia, delle competenze che vanno oltre le sue intenzioni consce. Un simile approccio non è di tutti; ci sono scrittori che non si muovono se non hanno pianificato gli sviluppi a tavolino; ma certi altri, me compreso, si costruiscono la strada man mano che avanzano, e in questa asserzione non vi è un briciolo di misticismo a buon mercato, come qualcuno potrebbe sospettare; si tratta semplicemente della presa d’atto di come, organicamente, un determinato processo funziona e si sviluppa.

Il titolo non è casuale. Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia – è la frase che a un certo punto pronunciò Alfredo, durante quei giorni interminabili dentro il pozzo. Ed è una frase che tu smonti più volte nella narrazione, come a intercalarla ai pensieri di Francesco, alla complessità di quello che avviene intorno a lui e di quel mistero così fitto che ha travolto il suo amico Christian.

Per Alfredo fu impossibile sfondare la porta ed entrare nella stanza buia. Un dramma collettivo. Ma nel tuo romanzo la stanza buia è una metafora potente.

Sei partito da quella implorazione di Alfredo per costruire il romanzo, o è subentrata durante la scrittura? Perché a me sembra che racchiuda in maniera particolareggiata un particolare senso del tuo stare nella narrativa. Mi sembra che come narratore tu cerchi ogni volta di sfondare la porta e di entrare nella stanza buia. E mi sembra anche che pochi come te quella stanza buia sappiano abitarla con la voce e la scrittura.

RISPOSTA: Fin dall’inizio mi sono ripromesso di trattare la vicenda di Alfredo con la massima delicatezza e discrezione possibili, ma quando ho letto quella frase ho capito subito che l’avrei usata come titolo. È una frase talmente universale, talmente forte… Nel libro echeggia spesso, e svolge un poco il ruolo di un ritornello: ripetendola, la storia torna ogni volta daccapo alla sua origine e al suo senso, rilanciandosi verso una soluzione che in qualche modo sciolga lo scacco, se non di Alfredo, di Christian.

C’è in effetti, poi, questa convergenza con alcuni temi generali della mia narrativa. Non mi definirei uno scrittore di thriller e tantomeno dell’orrore, però è indubbio che nei miei libri un elemento perturbante e quasi trascendente sia quasi sempre sottinteso, se non proprio in primo piano. È la mia fascinazione per il mistero che si mette all’opera – il mistero, così palmare e spesso così trascurato, di essere al mondo, e che il mondo ci sia, e che noi agiamo all’interno di esso.

C’è un altro elemento che mi sembra sia sempre più connaturato alla tua scrittura. L’infanzia. Per la quale mostri un grande rispetto come momento sapienziale e come capacità di introiettare la realtà, di decodificarla senza sovrastrutture, e quindi di essere parte di quel mistero, che può diventare buio. Come anche in Tommaso e l’algebra del destino (SEM libri) [QUI il link della chiacchierata sul libro precedente] non ti interessa il momento aurorale o vezzeggiante dell’infanzia, l’emblema dell’età dell’oro o del rapporto incontaminato con la natura. Ti interessa mi pare la capacità dei bambini di scorgere i mostri, di aver paura del buio, perché sanno che esiste ed è reale, tangibile anche se imperscrutabile.

C’è un binomio nel tuo immaginario tra il buio e l’infanzia?

RISPOSTA: Senz’altro, e seguendo la grande lezione di IT, per cui solo se si crede che qualcosa possa esistere lo si può affrontare nella maniera giusta. Il libro di King è il vero manuale dell’infanzia della letteratura mondiale; lo trovo insuperabile nel riprodurre i tic, i riti e i miti di quell’età così lontana e così cruciale, e addirittura ne renderei la lettura obbligatoria per chiunque ricopra ruoli di formazione. Tornando a me, l’infanzia è sì un momento aurorale, ma appunto senza illusioni di sorta; si tratta di crescere senza perdere del tutto l’innocenza, il che significa non cedere all’inerzia, alla pesantezza, all’opacità. Ecco, credo che gli adulti via via si opacizzino, che rinuncino a guardare con fermezza e limpidezza, con quell’onestà che è invece propria del bambino. Naturalmente, l’onestà infantile si accompagna a un elevato grado di ingenuità, ed è per questo che avremmo bisogno di adulti più consapevoli, adulti cioè che senza mettere da parte la lezione dell’infanzia riescano a trascenderla in uno sguardo risolto ma non perciò cinico, o distratto, o frustrato.

Chiacchierando (di nuovo) con Enrico Macioci