Ho letto i racconti di Alessandra Sarchi per Minimum fax, Via da qui, e come sempre sono stata affascinata dalla scrittura, dal modo di scandagliare le personalità dei personaggi e di creare atmosfere piene di vita vissuta. Le chiedo, dunque, di confrontarci in uno scambio per mail.

Grazie di avermi letta e di voler dedicare spazio ai miei racconti. – mi risponde. – Ci tengo tanto sebbene il genere racconto sia penalizzante in Italia, dove comunque è considerato minore. Io invece credo che la stoffa di uno scrittore e scrittrice si misuri proprio con la densità, l’intensità e la sintesi che il racconto richiedono.

Come lettrice – aggiungo – il racconto mi dà la possibilità di tornare a quella lentezza che sempre più mi manca nella lettura. Me ne concedo uno al giorno, non di più, perché il ritmo, la voce, l’atmosfera si sedimentino con più forza. Con il romanzo non mi riesce, ed è un entusiasmo diverso: immergermi nella storia quanto più possibile senza soluzione di continuità.

Allora cominciamo!

Via da qui è la nuova raccolta di racconti, pubblicati da Minimum fax, di Alessandra Sarchi, che con i racconti esordì nel 2008 per Diabasis, racchiusi sotto il titolo Segni sottili e clandestini.

Sono cinque i racconti che compongono Via da qui: La tana; L’argine; Il palazzo della principessa; Cherry Street e Fondamenta della Misericordia. I titoli tracciano con nitore un elemento che lega i racconti della raccolta tra loro: i luoghi come protagonisti al pari dei personaggi. E la ricerca attraverso i luoghi di uno spazio proprio, non un semplice rifugio, ma qualcosa di più profondo e intimamente legato alla natura e ai desideri dei personaggi. La casa presa in fitto a Firenze per Monica ed Evelyn; l’argine del fiume dove comprare una casa per Ines; la soffitta, resa speciale dall’estro artistico di Melissa in un palazzo abbandonato; la dolcezza della toponomastica che crea uno stridore con la realtà per Annamaria; e infine la fondamenta della Misericordia dove fare i conti con il tempo che passa e la giovinezza che sfugge per Marta e i suoi amici dei tempi dell’università.

Casualità? O nell’ispirazione e nella selezione del singolo racconto che ha portato alla raccolta la linea rossa come sembrano indicare i titoli sono stati i luoghi?

Foto presa dal blog della scrittrice

RISPOSTA: Ci sono diversi temi che legano i cinque racconti che compongono la raccolta Via da Qui – la ricerca di un altrove, la scoperta che l’altrove forse non è così ideale come lo si era pensato, la perdita delle radici, lo spaesamento, il valore dell’amicizia che è casa più di quella di mattoni – a tenerli insieme è un’idea di geografia materiale e interiore. Siamo i luoghi che abitiamo perché ci modellano, ci influenzano, ci spingono a darci un’identità o cercarne altrove una diversa. In verità noi abitiamo luoghi artificiali, in cui proiettiamo di continuo il nostro bisogno di rassicurazione e di scoperta al tempo stesso, gli animali costruiscono tane più o meno provvisorie, noi erigiamo case e città in cui pretendiamo che siano rispecchiati i nostri valori, la nostra sensibilità estetica e in cui finisce per rivelarsi la trama di potere – economico, sociale, di relazioni – in cui ciascuno individuo è avviluppato. Mentre scrivevo forse non avevo ben chiaro che a legare i miei racconti sarebbe stato un doppio movimento – andare-stare – ma poi mi si è chiarito che si tratta di una cifra del nostro tempo: una spinta inaudita alla globalizzazione, viaggiare, spostarsi, cambiare lingua e una controspinta a recuperare il microcosmo che ci ha cresciuti, perché alla fine, anche se si proviene da una grande città, c’è un bozzolo di esperienza autentica che si restringe via via al quartiere, alla casa, alla scuola frequentate. Poi ci tengo a dire che quando si mettono in relazione gli spazi con l’interiorità di chi li vive si coinvolge inevitabilmente una nozione più complessa che è quella dello spazio-tempo. La scansione del tempo, cosa significa attraversarlo e vedersi cambiati nel tempo è un altro tema collante della raccolta.

Oltre all’incanto della tua scrittura che ha una particolare abilità a dipingere sulle pagine, a far emergere le sfumature dei colori, i repentini cambi di luce, le striature cromatiche dei paesaggi, fisici e interiori, in Via da qui mi ha colpito la maestria nel creare connessioni, che come tu hai mirabilmente elencato, si intrecciano tra un racconto e l’altro.

La composizione della raccolta è sempre un dato che mi cattura e conquista nei libri di racconti, e devo dire che Via da qui è strutturata in modo pregevole.

Provo ad aggiungere un altro tassello della composizione generale: le relazioni. In ogni racconto, al di là della voce narrante, c’è sempre una relazione in primo piano che muove la narrazione e che la trasforma in un prisma di situazioni, riflessioni, reazioni e sentimenti. Ma ancora più interessante è come questa relazione si apra all’esterno e venga interpretata, vissuta, considerata da un altro che irrompe. Penso ad esempio ai genitori di Evelyn in La tana, o alla piccola Giorgia nel rapporto tra sorelle, che si dispiega in L’argine, o ancora all’architetto Piero Boni, che risolve almeno apparentemente l’impasse per Filippo e Melissa in Il palazzo della principessa; ma anche l’amica Monty che fa da grillo parlante per Annamaria e Giovanni, ormai in crisi; e infine una moltiplicazione di ruoli in Fondamenta della Misericordia intorno a Marta e Guido, nel racconto che chiude la raccolta, il più polifonico e quello che a mio avviso conclude e conchiude tutte le suggestioni messe in campo negli altri racconti e che crea una composizione ad anello con il primo racconto per tanti motivi che si riflettono come a chiudere un cerchio, perfetto aggiungerei.

Sono le relazioni tra i personaggi a intessere la trama dei racconti di Via da qui? Ed è uno spazio di indagine particolarmente congeniale ad Alessandra Sarchi? Penso al Dono di Antonia, e a quanto anche in quel romanzo l’indagine sulle diverse relazioni e il riverberarsi dell’una sulle altre fosse preponderante nella narrazione.

RISPOSTA: Se c’è una cosa che mi fa chiudere le pagine di un libro è la piattezza dei personaggi, il loro non avere dimensione, l’essere riconducibili a etichette o idee uniche.

Amo invece e credo che la letteratura si nutra di personaggi prismatici che non solo hanno in sé luci e ombre, ma si rivelano in relazione agli altri, perché gli individui sono così: non dei monoliti, ma esseri che si dispiegano nelle loro sfaccettature nel rapporto col prossimo. Per questo nei racconti di Via da qui ho voluto avere più focalizzazioni, cioè consentire ai personaggi di raccontarsi ma anche di essere raccontati da altri. Nella narrativa ci sono diverse possibilità: personaggi che aderiscono e si appiattiscono in tutto per tutto con le loro azioni e i loro pensieri, oppure personaggi che vivono in uno spazio intermedio che è lo scarto fra ciò che pensano e percepiscono come reale e la realtà stessa. Io preferisco la seconda possibilità, perché il relativismo prospettico mi pare meglio adattarsi al racconto della vita. Ad esempio ne L’argine, il secondo racconto della raccolta, il punto di vista della bambina fa slittare la narrazione sentimentale e nostalgica della zia su un piano leggermente diverso e il dono del suo diario alla fine, conferisce un orizzonte e un’apertura forse altrimenti impensabili per Ines, protagonista del racconto.

Nei tuoi racconti si indugia in particolare sull’introspezione delle protagoniste. Io la trovo una cosa salutare per la narrativa contemporanea dopo secoli in cui l’anima femminile è stata indagata quasi esclusivamente dal punto di vista maschile. Penso anche alle eroine tragiche del bellissimo podcast che curi per storielibere.fm con Federica Fracassi, dal titolo Vive! – dove la punteggiatura è di senso e di spessore.

Non credo che la letteratura abbia un genere, ma noto una particolare vivacità e novità nelle pagine delle scrittrici. Forse perché fino al Novecento la loro voce è stata davvero sommersa e frastornata quasi da quella maschile.

C’è una preponderanza di donne nei racconti di Via da qui? è casuale, voluta o programmatica?

RISPOSTA: Hemingway diceva di scrivere di cose che si conoscono. Forse non è un precetto valido sempre e per tutti, ma in questa raccolta la prevalenza di protagoniste femminili è il risultato di una mia adesione a un mondo che conosco nelle sue dinamiche, nelle sue forme di rappresentazione. Mi interessano le donne per una questione identitaria, essendo io donna, ma anche perché lo spazio di espressione concesso a loro è relativamente recente nella letteratura e c’è ancora molto da esplorare. Ci sono figure e situazioni di cui capovolgere il punto di vista. Ad esempio, nel racconto Cherry Street la protagonista, Annamaria, dopo aver letto Rubbit Run di Updike, teme di diventare come Janice la moglie di Rabbit, una casalinga che  scivola nella dipendenza da alcol e incidentalmente annega la propria bambina. Grazie al confronto con l’amica Monty si rende conto di essere lei stessa scivolata in un luogo comune della condizione femminile e capisce che una svolta è possibile. Per fare un paragone storico: le eroine delle sorelle Brönte o di Austen non sono meno travagliate o complesse di quelle messe in scena da Flaubert o Dumas, ma hanno una capacità di autodeterminazione che manca a quelle forgiate da penna maschile, e non si tratta di scrittura femminile e/o maschile intesa come qualità essenziale o assoluta, ma di un punto di vista storicamente e socialmente determinato che cambia.

C’è una particolare vividezza nella tua scrittura. Una propensione a fermare la forma degli oggetti e la luce che penetra, illumina, ritaglia gli spazi e i personaggi. Per restare dentro Via da qui, ma è una caratteristica che mi aveva già colpito nel romanzo precedente, Il dono di Antonia: Il sandalo di Marta che sporca i pantaloni bianchi di Giorgio ad esempio; la vernice scrostata dell’infisso della casa di Monica e Evelyn; la variazione prospettica dei pioppi sull’argine raggiunto in bici dalle due sorelle in L’argine; il pulviscolo illuminato dalla luce degli abbaini nella casa di Monica e Filippo; il buio e la luce accecante che investe Annamaria al suo arrivo in California.

Non sono mai orpelli narrativi, ma elementi intimamente e introspettivamente legati all’indagine della narrazione, all’atmosfera e allo svelamento dei lati più reconditi dei personaggi.

Cosa guida il tuo occhio quando fermi nella scrittura minuti particolari che servono a rendere più incisiva e autentica la vita e le esistenze che stai fermando tra le pagine?  

RISPOSTA: Non riesco a scrivere nulla se prima non l’ho visivamente fissato dentro di me. Ho bisogno di dare corpo agli oggetti, ai luoghi e ai personaggi. Ovviamente per poterlo fare attingo al serbatoio di tutto quello che osservo e alla memoria. La scrittura si nutre di memoria e osservazione, come ingredienti fondamentali, poi si aggiungono molte altre cose ma qualsiasi forma espressiva non può prescindere dall’osservazione. Mi piacciono le scritture evocative che sanno ricreare sulla pagina il senso delle esperienze sensoriali e percettive vissute.  Partire dai dettagli è un buon modo poiché la nostra percezione dell’esterno è sempre particolareggiate, catturata ora da questo ora da quell’elemento che può costituire lo sfondo o saldarsi in maniera più forte alla sostanza del vissuto. Anche il tempo non è mai un dato meramente atmosferico, ma rispecchia l’umore, i pensieri che ci attraversano. Di fatto la scrittura è per me anche un modo per rivelare la connessione profonda che lega le cose fra di loro.

Siamo giunte, così, all’ultima domanda. In apertura ricordavo il tuo esordio con i racconti, a cui poi sono seguiti i romanzi. Quattro per Einaudi: Violazione nel 2012; L’amore normale nel 2014; La notte ha la mia voce nel 2017 e infine Il dono di Antonia, nel 2020, che ho avuto già modo di ricordare nel corso della conversazione a dimostrazione dell’impronta che ha lasciato nel mio immaginario di lettrice [QUI la mia precedente chiacchierata con la scrittrice su quest’ultimo romanzo].

Come si fa a capire, o meglio come fa a capire Alessandra Sarchi se sta scrivendo un racconto o un romanzo? Ci arriva mentre scrive o lo sa già prima di scrivere? E come la forma lunga e quella breve convivono nella sua scrittura?

RISPOSTA: Racconto e romanzo hanno nature diverse, per me, e difficilmente nascono ibridi; ovvero fin da subito ho chiaro in mente se ciò che sto scrivendo ha il passo di una forma breve o di un romanzo. Ci sono esempi in letteratura di racconti che hanno fornito materiale per successivi romanzi, penso alle novelle di Verga, alcune delle quali contengono già gli spunti e i tratti che saranno dei personaggi de I Malavoglia, o per stare nella contemporaneità ai racconti pubblicati in Italia con il titolo Dopo le fiamme di Fernardo Aramburu che sono un prodromo al suo straordinario romanzo Patria. Sono casi interessanti perché fanno vedere come alcuni personaggi e situazioni, prelevate dai racconti, possano essere inseriti in architetture più vaste come quella del romanzo. Ma è altrettanto evidente che la misura è diversa, che l’attenzione concessa ai singoli dettagli o le torsioni temporali che risolvono le vicende dei racconti debbano essere sacrificate o meglio innestate in una struttura più vasta nel romanzo. In uno dei miei racconti La nuotatrice, pubblicato nel 2016 su Nuovi argomenti, c’è un personaggio che ritorna in un romanzo: è la donnagatto de La notte ha la mia voce, ma mentre nel racconto pur svolgendo un ruolo centrale compare una volta e poi più, nel romanzo diventa la seconda protagonista e occupa buona parte della narrazione. Ovviamente non si tratta di una mera questione di spazio, quanto della possibilità di sviluppare elementi che nel racconto giocano in maniera più miniaturizzata o implicita. Il racconto coglie la vita in maniera rapsodica, il romanzo aspira alla continuità e a un percorso con un fine, e una fine, più meno concertata.

Amo molto i racconti, credo di essere in maggiore sintonia psichica con il loro andamento per frammenti e rivelazioni, ma amo altrettanto l’incedere sinfonico del romanzo, pertanto mi auguro di continuare a esprimermi in entrambi i sensi. 

Chiacchierando (per la seconda volta) con… Alessandra Sarchi
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