Pensa il risveglio

Sono passati quasi dieci anni, – era il 2012- dall’esordio nella narrativa di Alessandro Cinquegrani con Cacciatori di frodo per Miraggi. Finalmente torna con una seconda prova, Pensa il risveglio per Terrarossa edizioni, ricca di fascino, soprattutto nel tentativo, pienamente riuscito, di battere sentieri insoliti e a tratti scoscesi, come la riflessione sul nazismo attraverso la figura di Speer che si intreccia indissolubilmente, senza mai prendere il sopravvento, alla ricerca dell’amico scomparso, il regista Lorenzo, da parte del protagonista.

[QUI il link della prima chiacchierata con l’autore sull’esordio nella narrativa]

Perché, Alessandro, è passato tanto tempo tra un romanzo e l’altro? o questi sono i tempi della scrittura per Alessandro Cinquegrani?

Alessandro CinquegraniRISPOSTA: Dopo Cacciatori di frodo mi trovavo di fronte a due problemi molto grossi. Il primo riguardava lo stile: avevo la percezione precisa che lo stile del primo romanzo non potesse essere replicato e fosse legato soltanto a quel personaggio, a quella voce. Era una voce umorale, rabbiosa, valida per quel contesto ma forse per nessun altro. Questo ha comportato il fatto che io, dopo Cacciatori, non avevo uno stile mio, e quindi per dirla in modo spiccio, non ero uno scrittore. Da quel momento ho fatto vari tentativi, molti abortiti, perché volevo trovare una voce non banale, non prevedibile, ma totalmente mia. Credo mi abbia aiutato molto la scrittura di racconti che alcuni amici mi hanno chiesto. In particolare credo che il racconto intitolato I fratelli Vendramin incluso in Lettere da Nordest, curato da Cristiano Dorigo e Elisabetta Tiveron, sia il punto in cui ho trovato la mia voce e la giusta distanza dai personaggi. Credo sia il mio miglior racconto, a volte penso che potrebbe anche diventare un romanzo. Ma citerei anche L’uomo che scrive lettere d’amore incluso in Hotel Lagoverde curato da Gianluigi Bodi, in cui compare un personaggio che fa la stessa strana attività che svolge il Bruciato in Pensa il risveglio: è nata lì l’immagine – la visione – dello zoo volante. Questi racconti mi hanno permesso di costruirmi una voce e definire il mio immaginario.

E proprio questo immaginario è il secondo problema a cui mi riferivo all’inizio. Io non sono un narratore, non racconto belle storie, ben confezionate. I miei romanzi si basano su un immaginario molto personale legato strettamente alla mia vita, benché poi non ne resti traccia nel testo e tutto sia trasfigurato in storie inventate. Però questo modo di intendere la scrittura comporta che un romanzo – e in particolare il primo romanzo – provochi una sorta di vuoto di memoria, in cui si mette su carta tutto se stesso e sembra non resti altro da dire. La vita deve in un certo senso ricaricarsi perché si ricarichi l’immaginario e sia pronto a esprimere una seconda storia. Non so dirti se questa “ricarica” avrà bisogno di altri dieci anni, vedremo. Ho la fortuna – che per altri versi è una sfortuna – di non partecipare al tritacarne editoriale che pretende si sfornino libri a ripetizione. Posso prendermi i miei tempi, e del resto per lavoro devo continuare a scrivere anche libri di critica, cosa che porta via molto tempo e ho una grande famiglia (ho quattro figli) molto impegnativa, e un lavoro che richiede dedizione e tempo… Qualcuno inventerà, prima o poi, giornate di almeno 30 ore!

 

Afferro il filo dell’immaginario di cui racconti e lo tiro diritto in Pensa il risveglio.

In modo spiazzante il romanzo si apre con un omaggio così visibile che il lettore si chiede dove tu voglia andare a parare, per poi scoprirti a scartare subitaneamente e trovare un tracciato tutto tuo, in cui reale e onirico, realtà e finzione si fondono e mescolano in un labirinto sempre più intricato di senso e percezioni che tu sciogli in modo mirabolante e per nulla scontato.

Cosa possiamo raccontare ai lettori del Prologo di Pensa il risveglio senza togliere loro alcuna sorpresa che il testo riserva?

RISPOSTA: È una domanda molto stimolante che richiede una risposta molto articolata perché metti in campo molti elementi.

Il primo è che è molto difficile parlare nel dettaglio del romanzo a chi non l’ha ancora letto. Ho cercato di costruire un romanzo con molti elementi inaspettati per il lettore, e una storia che si riscrive continuamente e cambia aspetto e fisionomia. Credo che il lettore debba accettare il gioco e costruire insieme a me il senso. Mentre scrivevo avevo sempre in mente questo tipo di lettore che vuole avere una parte attiva e porsi sempre domande, mettersi in crisi, rivedere quello che aveva pensato prima. Credo che questo tipo di lettore sia quello che davvero scava, per dissotterrare qualcosa di bello e importante (nelle intenzioni, poi sugli esiti giudicherete voi). Ma tu dici bene che tutto si scioglie alla fine: non voglio sottrarmi dal chiudere le storie, non credo nei cosiddetti finali aperti, penso che l’autore, pur lasciando il giusto spazio al lettore, debba comunque assumersi la responsabilità del suo testo.

Il secondo punto è il prologo. Ti confesso che è la parte che ho scritto e riscritto più volte ed è l’ultima ad aver trovato la forma definitiva. Volevo uno stile che fosse diverso dal resto del libro, addirittura all’inizio avevo scelto volutamente uno stile abbastanza dimesso e forse banale, ma poi, anche confrontandomi con l’editore, ho capito che non si poteva iniziare con una parte scritta male, anche se questo avrebbe avuto un senso nell’economia del romanzo. Comunque è rimasto uno stile e un tono diverso dal resto. È una storia distopica, ma il mio non è un libro distopico, anzi alla fine potrebbe avere persino un aspetto realistico e molto concreto. Parla di un mondo del futuro, nel quale la priorità è superare la sovrappopolazione con una selezione rigorosa delle nascite. Un mondo molto razionale in cui si disperde la naturalezza del sentimento e – come diceva Primo Levi – “l’impurezza che genera la vita”. Sembra una parte del tutto isolata, ma poi si torna a ragionare più volte e tenacemente sul senso di quella storia e assume luce e significato (spero) continuando a leggere.

Il terzo punto è la fusione di reale e onirico. Io credo che la realtà sia sopravvalutata, e credo che il realismo inteso nel senso più rigido e banale sia sopravvalutato. Da lettore chiedo a un romanzo di mostrarmi il rovescio della realtà, ciò che vi si nasconde dietro. Ed è quello che tento di fare come autore. La visione onirica non è separata dalla percezione della realtà, sono due universi che si contaminano continuamente. Esattamente come il mio personaggio, anch’io tendo a fuggire in un mondo onirico, tutto interiore, nascosto, in cui la realtà svapora in visione. Tenderei a farlo troppo perdendo il contatto con la realtà. Come autore perciò so che devo ancorarmi alla realtà e alla fine, se potessimo fare una sinossi del romanzo partendo dalla fine e andando a ritroso troveremmo una storia molto concreta. Ma per farlo, per l’appunto, devo ancorarmi a una realtà prima che svanisca. C’è un verso di Ermanno Krumm che da molti anni tengo davanti agli occhi quasi come un manifesto: “se non zavorri la luce vola tutto”. È quasi un’indicazione di poetica, e forse anche una piccola sinossi del romanzo. Un’ipotesi di titolo che mi era venuta in mente era proprio Se non zavorri la luce. Ma poi mi pareva troppo bello, troppo perfetto, rischiava di essere ammiccante, come nel romanzo si dice del titolo del film “La nostalgia dell’acqua”. Ho preferito Pensa il risveglio che per chi ha letto il libro risulta molto chiaro, molto interno alla trama.

 

Molto interessante la definizione di lettore attivo, che si amplia anche nella cognizione del protagonista. Lui stesso si accorge che alcuni conti non tornano. La realtà gli produce indizi che mondi diversi si sovrappongano, come nell’esperimento del gatto di Scrödinger.

Confessa la propria inattendibilità che è chiara a se stesso prima ancora che al lettore.

Questo mi sembra uno di quei sentieri narrativi scoscesi e scivolosi che tu hai affrontato con perfetta e piena padronanza.

Che ruolo ha il tuo protagonista e che rapporto intesse con l’oggetto della sua ricerca: l’amico regista Lorenzo?

RISPOSTA: “Lorenzo è scomparso”: è questa la frase che dà origine al filo dell’intreccio più forte. È scomparso per un motivo apparentemente futile e il protagonista cerca di seguirne le tracce. Ma via via si comprende che – se mi permetti il paradosso – questa assenza è una presenza fortissima nella vita del protagonista. Una presenza che lo attrae inevitabilmente tanto da inglobarne la vita, ma anche una presenza da esorcizzare in qualche modo, da respingere. Comunque una presenza alla quale lui resta legato fino alla fine.

A differenza di Cacciatori di frodo che nasceva da un’immagine nitida che avevo in mente, come dico nella nota finale, Pensa il risveglio nasce da una frase che a un certo punto compresi essere decisiva per definire la mia identità: “ho sempre sentito il bisogno di scomparire”. Scomparire – non fisicamente ma metaforicamente – è sempre stata un’opzione nella mia vita, una tentazione, un bisogno, un desiderio, ma anche un fantasma, un nemico da respingere, da esorcizzare soprattutto quando è entrata nella mia vita la responsabilità verso i miei figli. Questa condizione o consapevolezza è diventata una storia in cui dei due personaggi principali l’uno rappresenta la scomparsa, l’altro la resistenza o la responsabilità. Ma il loro rapporto è ovviamente meno chiaro di così, ci sono continue contaminazioni, implicite accuse reciproche, sovrapposizioni. Non c’è nulla di risolto, è un continuo mettersi in crisi dei personaggi, del loro autore, e – spero – anche del lettore. Penso che la crisi sia la premessa necessaria della (buona?) letteratura. 

 

Io credo che ai maestri si chieda soprattutto questo: di essere scomodi e di metterci in difficoltà. O almeno è di questo che io sono loro particolarmente grata. E la letteratura per me è stata sempre maestra in alto grado.

Intrecciata alla scomparsa di Lorenzo e alla ricerca ossessiva del protagonista, come alla necessità di quest’ultimo di prendersi una pausa dalla ricerca stessa in una magnifica isola greca, è l’indagine su Speer, l’architetto di Hitler con un confronto serrato anche con la figura di Mengele.

La riflessione sul nazifascismo, o meglio sulla postura etica ed esistenziale degli aderenti al nazismo, in particolare nel momento del crollo mi sembra che sia il nerbo riflessivo che sostanzia il romanzo e che interroga con forza il lettore.

Che rapporti ha il protagonista con Speer e in che modo vuoi coinvolgere il lettore in questo rapporto con Pensa il risveglio?

RISPOSTA: Dici bene quando ti riferisci alla “postura etica ed esistenziale” in riferimento ai nazisti di cui parlo. Anche in questo caso lavoro non tanto sui fatti ma sui loro significati, sugli archetipi che ci stanno dietro. Così Speer e Mengele significano per i miei personaggi non tanto ciò che sono stati ma ciò che rappresentano. Il punto su cui mi soffermo di più è ciò che è successo dopo la caduta del nazismo. Mengele fugge, scompare, si nasconde, non abbandona mai la sua ideologia e la sua valigia con gli attrezzi con cui commetteva i suoi abomini. Speer invece no, non scappa. Speer lo descrivono come un uomo intelligente, affabile, seducente, empatico, un uomo che grazie a queste qualità riesce ad essere condannato soltanto a venti anni di carcere (ricordiamoci che era tra coloro che ha deciso lo sterminio degli ebrei: il crimine più grande della storia!), diventa uno scrittore famoso, un personaggio che va in televisione a raccontare, un uomo – è orribile ammetterlo – persino stimato. Sono due uomini spregevoli, ma è Speer quello che mette più in crisi il mio personaggio.

Nel romanzo faccio un paragone: quando un uomo si trova davanti a un predatore si dice che non debba scappare. Se scappa il predatore lo riconosce come preda e lo attacca. È quello che fa Mengele: scappa e si nasconde e noi lo facciamo giustamente oggetto del nostro odio e del nostro disprezzo. Ma che succede quando la preda non si comporta da preda? Quando sta lì, davanti a noi e ci sorride affabile e gentile? Cosa fa il predatore? È spiazzato, si chiede se ci sia qualcosa che gli sfugge, magari un’arma segreta, un trabocchetto? Di fronte a Speer siamo in crisi. Ci viene spontaneo ricambiare il sorriso, chiacchierare con lui, imparare delle cose, passare delle ore piacevoli: ma sappiamo che questo stesso sentimento ci fa orrore! Speer è il compromesso, l’uomo che cade sempre in piedi, l’uomo che ce la fa sempre. Il mio protagonista forse vuole essere esattamente come lui, l’uomo che ce la fa nonostante le sue colpe, ma non può, non deve! Oppure non sarà semplicemente un modo di denigrarsi e in fondo non ha colpe così gravi da farsi perdonare? Lo scopriremo noi leggendo, ma lo scoprirà anche lui vivendo la sua esistenza fittizia.

 

Per concludere questa nostra entusiasmante chiacchierata, che riconferma la mia incondizionata stima a te come scrittore ma anche come critico letterario e intellettuale tout court, vorrei soffermarmi sul titolo, che ha l’ambiguità e l’ambivalenza che fanno di un titolo qualcosa di perfetto e azzeccato.

Pensa il risveglio, tu affermavi essere una spia per il lettore alla conclusione del romanzo.

Ma nello stesso tempo c’è qualcosa nel dettato che lo rende quasi un avvertimento per il lettore, visto che quel pensa può essere inteso anche come una seconda persona singolare.

E poi c’è il complemento oggetto che salta all’orecchio e che enfatizza il termine stesso.

Di fatto dopo la lettura del romanzo il lettore che si è lasciato prendere dalla tua storia si è come risvegliato da un torpore critico e investigativo che la nostra società odierna impone come anestetico.

Senza rivelarci nulla che non può essere detto, ci sveli le intenzioni che si nascondono nel titolo per quel patto inscindibile che si crea tra lettore e scrittore? O meglio tra il lettore di Pensa il risveglio e lo scrittore Alessandro Cinquegrani?

RISPOSTA: Sì, il titolo è importante nell’economia del testo. Di solito inizio il romanzo avendo già presente il titolo, non lo do alla fine, perché è parte integrante della storia. E infatti ritorna tre volte nel testo: alla fine del prologo, nel capitolo intitolato appunto “Il risveglio”, e nel finale. È tratto dalla poesia Neve di Umberto Saba, un autore che ho studiato a lungo e su cui ho pubblicato il mio libro di critica più importante. Come sempre per Saba il testo è in apparenza abbastanza semplice ma nasconde significati molto profondi. Racconta di una nevicata, in cui la neve si posa su “la città con le chiese e le case” e avvolge la terra di “una gran pace di morte”. Ma questo velo di silenzio e di morte non ha un’accezione negativa: Saba dice “coprici ancora, all’infinito”. È piuttosto una tentazione, la tentazione di scomparire sotto quel manto bianco. E, come abbiamo detto, scomparire è la tentazione che ha il personaggio e da cui ha preso origine il romanzo. 

Ma ecco, a un certo punto, che questa tentazione è improvvisamente respinta, come se tornare alla vita – in qualsiasi forma sia – diventi necessario. Saba scrive: “il risveglio, / pensa il risveglio, noi due soli, / in tanto squallore”. È come se si ridestasse da quelle malie di pace e di morte e invitasse se stesso a tornare alla vita. È un invito, ma è quasi un ordine, un imperativo. È una seconda persona, esattamente come dici tu. Un imperativo che vale tale e quale per il mio personaggio che deve sempre tenerlo presente perché la sua parabola si svolga, è un imperativo per me come autore che posso scendere negli abissi del mio personaggio soltanto tenendo presente questo, e lo è, infine, per il lettore che può accettare questa sfida, ma sempre pensando al risveglio. È un percorso da fare insieme, proprio per quel patto inscindibile che tu hai molto opportunamente richiamato.

Io spero, come dici tu, e ti ringrazio, che il risveglio sia anche quello del lettore dal torpore o forse dall’inerzia della vita quotidiana. Per me è importante risemantizzare la quotidianità, ridare senso alle cose attraverso la narrazione. Per questo le ultime parole del testo sono “definisci padre, definisci io”, perché se il lettore insieme a me riuscisse a farlo, a comprendere profondamente il valore di queste due semplici parole, il libro avrebbe raggiunto il suo obiettivo. Me lo auguro, mi auguro almeno di aver messo un piccolo tassello per raggiungere questo obiettivo.

Per concludere anch’io ti ringrazio tantissimo. Questa chiacchierata è servita molto anche a me per comprendere un libro per me molto importante e uscito da poco. Ecco il patto inscindibile: il lettore accetta di fare questo percorso con me e io imparo tantissimo incontrando lettori attenti e sensibili come te. È uno scambio, una crescita che facciamo insieme: non posso chiedere di più.

Chiacchierando (per la seconda volta) con… Alessandro Cinquegrani