di Andrea Cabassi

BIOGRAFIA POLIFONICA DI UN CANTAUTORE/POETA

foto recensione settembre 2021

Recensione al libro di Marco Rovelli

Siamo noi a far ricca la terra.  Romanzo di Claudio Lolli e dei suoi mondi

(Minimum fax)

Siamo noi a far ricca la terra

Era il 77. Frequentavo l’Università di Bologna. Ricordo stupende lezioni di grandi docenti, i lacrimogeni, i blindati, Francesco Lorusso, le rivendicazioni del Movimento, la rivista “Il cerchio di gesso”. Era il 77 e mi ero messo un po’ di lato per capire meglio quello che stava accadendo. Condividevo molto, ma non tutto del Movimento. C’erano ambiguità, c’era una disperazione  che era palpabile, che si cercava di incanalare e spesso non si riusciva. Era il 77 e, al mare, un caro amico di Carrara cantava e suonava le canzoni di Claudio Lolli e noi ad ascoltare, presi, coinvolti. Era il 77 e, quando ero a Bologna o a casa mia, scrivevo lettere (allora non c’erano le mail e i cellulari) alle amiche che abitavano sempre a Marina di Carrara cercando di seguire i ritmi delle canzoni di Claudio Lolli e la sua poesia. Ad ogni riga spuntava l’espressione “zingari felici”, condivisa, glossata, criticata e sempre molto amata.

E, a proposito di questo coinvolgimento, di questo desiderio di seguire i ritmi di Lolli, non si può fare a meno di riflettere sulle parole di Gianfranco Contini quando viene citato dal poeta e paroliere Gianni d’Elia nel bellissimo romanzo di Marco Rovelli “Siamo noi a far ricca la terra. Romanzo di Claudio Lolli e dei suoi mondi” (Minimum Fax 2021) :

“ … è proprio il suono degli ‘Zingari’, della canzone, che evoca, come dice Contini, il fatto che quella stagione vada tradotta in epoca. È il suono dell’epoca. E il suono di quell’epoca è il suono del 77” (Pag.285).

Ho parlato del romanzo di Marco Rovelli. Prima di continuare a farlo, due parole sull’autore.

Marco Rovelli è nato a Massa Carrara nel 1969. È cantautore, narratore, saggista. Come scrittore ha pubblicato i reportage narrativi “Lager italiani” (BUR 2006);  “Lavorare uccide” (BUR 2008); Servi (Feltrinelli 2009); il bellissimo, suggestivo, coinvolgente “Il contro in testa. Gente di marmo e d’anarchia”(Laterza 2012); “La meravigliosa vita di Jovica Jovic (con Moni Ovadia. Feltrinelli 2013). Ha pubblicato vari romanzi tra cui “La guerriera dagli occhio verdi” (Giunti 2016); “Il tempo delle ciliegie” (Eleuthera 2018); “La parte del fuoco” (Terrarossa 2020). È autore di raccolte poetiche ed è stato cantante e autore nel gruppo Les Anarchistes prima di intraprendere un percorso da solista, con gli album “LibertAria” (2009); “Tutto inizia sempre” (2015); “Bella una serpe con le spoglie d’oro” (2018); “Portami al confine” (2020).

“Siamo noi a far ricca la terra” è un romanzo polifonico. Sono convocati a parlare di Lolli, della sua vita, della sua musica, delle sue canzoni, dei suoi libri, della sua poesia amici e amiche, collaboratori e colleghi, i suoi studenti. Ma, in modo molto originale, sono parimenti convocati a parlare di lui i suoi dischi, i personaggi dei suoi dischi, le sue fotografie, la sua chitarra, la finestra dalla quale guardava il mondo.

Il romanzo prende il titolo  da una parte del testo “Ho visto degli zingari felici” e dallo splendido lavoro teatrale di Peter Weiss “Cantata del fantoccio lusitano” (Einaudi 1973), in cui il drammaturgo tedesco denuncia il colonialismo portoghese, ogni colonialismo, ogni tipo di sfruttamento.

Nell’Atto I, Scena III il coro dà voce ai colonialisti portoghesi:

“Ma siamo noi a far ricca l’Africa

Noi che combattiamo

La malattia del sonno e la malaria

Da noi sono i tesori alla terra carpiti

Con che poi tanti altri  restano favoriti

Noi  muoviamo al raccolto di cotone riso e grano

E noi piantiamo il mais su tutto l’altipiano

Caffè zucchero sesamo tabacco coltiviamo

Diamanti ferro ed altro dalla roccia caviamo

Noi produciamo il sale impiantando saline

E trivelliamo pozzi stendiamo traversine

Noi abbattiamo foreste dissodiamo savane

Le navi nostre arrivano ogni volta più lontane

E tutto questo con l’aiuto di compagnie e monopoli lo si fa

Per questa terra a generale vantaggio della sua civiltà

(Pag. 25-26).

Un inciso: Peter Weiss è anche, o soprattutto, l’autore de “L’istruttoria”, capolavoro del teatro documentario europeo, messo in scena al Teatro Due di Parma nel 1984 e che da trent’anni torna sul palcoscenico parmense. Allestimento che è stato diretto, fino allo scorso anno, dal compianto Gigi Dall’Aglio che, nel dicembre 2020,  se ne andato a causa del Covid lasciandoci come testimonianza e memoria del suo impegno nel teatro un bellissimo libro “Il teatro dall’interno della sua pupilla” (Nuova Editrice Berti 2021).

Ma torniamo, ora, a Lolli e Rovelli. Dopo aver citato il testo di Weiss il fantoccio stesso spiega il rovesciamento attuato da Lolli :

“Erano le parole che nel testo di Weiss, rovesciando la realtà, cantavano i dominatori portoghesi. Claudio le strappa ai dominatori e le restituisce agli zingari

Riprendiamola in mano, riprendiamola intera, riprendiamoci la vita, la terra, la luna e l’abbondanza.

Sono il fantoccio del colonialismo, io, un simulacro felice di essere crepato facendo svolazzare paglia qua e là e mostrando il proprio vuoto, felice per aver anticipato il canto di liberazione degli zingari felici. Così finiva la cantata:

Già in molti nelle città

e nei boschi e sui monti

ammucchiano le armi e preparano con cura

la liberazione

che è vicina” (Pag. 86).

Le voci delle amiche, amici, colleghi, collaboratori scandiscono le tappe della vita di Lolli: le complesse infanzia e adolescenza; gli anni 70 con Bologna, il Movimento, gli zingari felici. Le disperate speranze (perché, come dice Walter Benjamin, la speranza è data solo ai disperati). Le utopie, il desiderio di cambiare tutto, il partire da “il personale è politico” – che, forse, aveva le sue lontane radici nella rivista “Re Nudo”; gli anni  ottanta e il riflusso con il tracollo dei valori e di ogni tensione etica, un tracollo così grande che era difficile ri/trovare un proprio posto nel mondo; ed ecco l’extraneità di Lolli che è, anche, il titolo di un suo album (Pag.163) e che nel libro ci parla direttamente. Dove, forse, l’accento va posto su quell’ex perché ognuno d noi è un ex di qualcosa, qualcuno, qualcuna, perché ognuno di noi – per parafrasare il titolo di un album dei Perigeo – ha un suo blues da piangere. Anni di extraneità dove, però, Claudio Lolli, continua a comporre, scrivere, pubblicare dischi. Poi la ripresa degli anni novanta e duemila, la moglie, i figli, l’insegnamento, la lettura, la scrittura.

Ne viene fuori un immagine a tutto tondo di Claudio Lolli, cantautore e poeta, uomo molto timido e apparentemente spigoloso, triste e allegro, sempre abitato da una grande tensione etica, padre e marito, professore molto amato dai suoi studenti, uomo attraversato da mille pulsioni, desideri, emozioni, utopie, illusioni, disillusioni, uomo, alla fine, abitato dalla malattia, ma che non rinuncia alla musica.

Un altro grande pregio di questo romanzo polifonico è aver posto l’attenzione, in più punti, sugli aspetti tecnici della composizione, all’annoso rapporto tra musica e poesia. Sostiene Alberto Bertoni, poeta, saggista, docente di letteratura contemporanea all’Università di Bologna e che, nella sua raccolta, “L’isola dei topi”  (Einaudi 2021) ha dedicato la poesia “Per Claudio Lolli, la sua voce” a Claudio Lolli:

“Capite, poesia e canzone sono sfere contigue. Negli anni settanta la poesia ha preso strade sperimentali e ha tagliato il cordone con il pubblico, nessuno ricorda a memoria Sanguineti, Balestrini, Porta. I cantautori, invece, li ricordano. La funzione poetica come esigenza civile e sentimentale si trasferisce dalla poesia alla canzone. Certo, come diceva Pessoa, la poesia accoglie la musica nelle parole. La canzone invece ha bisogno dell’accompagnamento musicale; ma in certi casi i due mondi si avvicinano molto. ‘Keaton’, per esempio: quella è più una poesia, un testo letterario che non il testo di una canzone. E poi già Extranei, lì c’era la costruzione delle immagini in modo cinematografico, era un montaggio, e la letteratura del novecento è arte del montaggio, non della sequenza naturale, non della mimesi…” (Pag.230).

Ed ancora sui rapporti tra musica, poesia e letteratura scrive non a caso  Gianni d’Elia  che è poeta ed è stato collaboratore di Lolli:

“… secondo me Claudio Lolli è stato un po’ il Giacomo Leopardi della canzone italiana, di questa canzone generazionale dell’ultimo quarto del Novecento, scrivendo e cantando e ascoltando e rinviando la sua angoscia cosciente. Non tanto la sua angoscia personale. Proprio perché mentre i tempi della politica e della lotta offrivano certi temi e certe canzoni, lui suggeriva il controcampo o il controcanto che era appunto la crisi di questa generazione mentre lottava, era la sua metamorfosi e la sua resistenza. Assieme alla lotta c’era la coscienza di una crisi, c’era la metamorfosi che ci ha fatti arrivare oggi qui, forse camuffati, ma non nel sorriso e non nel cuore … Passando agli ‘Zingari’ proprio come canzone, essa è, in questo gioco di comparazione leopardiana, un po’ La ginestra di Lolli. E’ come se dalle canzoni, dalle liriche intime si arrivasse al poemetto. Infatti è una canzone lunga, una macrosequenza, e ha dei temi secondo me vicini alla Ginestra. ‘Zingari’ credo stia per ‘diversi’; la canzone di Lolli parla infatti dell’economia politica del pianeta. E’ una canzone che corrisponde al canto di Leopardi, il quale non a caso aveva chiamato canzoni le sue prime dieci poesie. E direi che c’è, nella canzone degli ‘Zingari’ la ripresa del motivo fondante della Ginestra. La confederazione umana contro la guerra imperialista. Tanto è vero che gli Zingari è forse la summa di un’ampia sinfonia pop, disco e album da sfogliare come un libro, in sintonia con la ricerca poematica di altri, io direi soprattutto di quella che Roberto Roversi in quegli anni sviluppava per Dalla. Cioè, di un altro poeta” (Pag. 285-86)

Per quanto concerne le strofe ispirate dal lavoro di Weiss – quelle che iniziano con “Siamo noi a far ricca la terra” – scrive ancora Gianni d’Elia:

“Questa ballata trobadorica è a ritmo  baciato e alternato, con un metro molto agile e variato che va dal novenario d’attacco – il primo verso è un novenario – al decasillabo e all’endecasillabo dominanti per tutta la canzone, fino però a degli inserti di alessandrini, cioè versi di quattordici sillabe, doppi settenari, più lunghi, di cui è possibile estrarre la metà – cioè settenari . che sono più veloci e dinamici.

Questa canzone è governata dalla luna. Ancora Giacomo Leopardi. La luna; ‘la terra, la luna, l’abbondanza’. E’ già una luna globale. E questa canzone di Lolli è infatti di una contemporaneità luminosa e di una nostalgia lancinante, come l’attacco al sax a cui ho dedicato, anni fa, un omaggio in versi.

C’è la nostra epoca, c’è la nostra stagione, la presente e viva e il suon di lei, c’è l’infinito di una generazione, quella del 77, che già era nella riserva indiana dopo la vendetta e la guerra perduta, di cui secondo noi resta la luna lolliana, come quella leopardiana. Resta questa luna alla fine – la terra, l’abbondanza – con le morte stagioni e il nostro sogno vitale, che è ancora qui” (Pag. 287).

Con queste parole piene di poesia vorrei fermarmi, ma l’autobiografia interferisce continuamente con la recensione, la valutazione di quanto accadde e di come finì il Movimento con la lettura di questo libro, che è di una densità tale da avermi fatto vivere ogni sua pagina in ogni mia fibra. Non è semplice fermare il ricordo, sostare per un’analisi. E, forse, non è neppure il contesto giusto. Comunque due parole vorrei dirle lo stesso: non so cosa ci abbia lasciato il Movimento. Alcune frange aderirono, non molto tempo dopo, al Psi e, dopo quel passaggio, si ritrovarono in Forza Italia, altre fecero la scelta tragica della lotta armata, altre ancora, probabilmente la maggioranza, si re/inventarono in altre lotte (quelle ambientali ad esempio) o passarono il testimone a altri movimenti, a altri zingari non so quanto felici, ma consapevoli dei pericoli incombenti su questa nostra terra.

Infine la fine. La fine nel senso letterale del termine, quella che ci porta al delta del fiume.  Ci sono pagine struggenti dedicate alla malattia e alla morte di Claudio Lolli che, prima di morire, ebbe la soddisfazione, con il suo ultimo disco, “Il Grande freddo”, di essere premiato con la Targa Tenco per il miglior album dell’anno.

La fine, il funerale. E qui , in questo epilogo, è proprio Marco Rovelli a parlare:

“E poi il funerale, dove ho cantato davanti alla bara senza piangere, e quel giorno a fare musica in quella camera ardente ci furono anche Nicola Alesini, Alessio Lega, Rocco Rosignoli. E c’era una folla di persone commosse, che anche se era agosto riempivano la sala, e la fila fuori si allungava fino alla piazza, perché Bologna aveva davvero perso il suo poeta” (Pag. 327).

Fu davvero un momento di grande commozione, un momento in cui ci si rese conto che la piazza, la bella piazza e tutte le piazze di Bologna avevano perso davvero il loro poeta.

Rocco Rosignoli, che è un ottimo musicista, ma soprattutto un caro amico, mi raccontò qualche tempo dopo, quanto si fosse commosso e  quanto fosse emozionato – e quanto emozionato ero io ad ascoltare la sua narrazione – a  suonare per e in memoria di quel cantautore/ poeta che si chiamava Claudio Lolli.

Quel Claudio Lolli che non fu solo simbolo di una generazione, ma anche colonna sonora di una fase importante della mia vita.

 

Lo Scaffale di Andrea: Siamo noi a far ricca la terra.