Copertina

Marta Zura-Puntaroni, dopo l’esordio scoppiettante con il romanzo Grande Era Onirica (QUI la nostra chiacchierata in proposito), torna a raccontarci il suo mondo, a cui finiamo per appartenere tutti, con un secondo romanzo, sempre per Minimum fax, Noi non abbiamo colpa, dalla bellissima copertina: su sfondo nero si stagliano tre tulipani verdi, dalle corolle dei quali spuntano tre figure femminili ritratte in diverse età: la maturità, la vecchiaia e l’infanzia. Troppo facile credere che si tratti, nell’ordine da sinistra a destra, della madre Antea, della nonna Carlantonia, e della figlia e nipote Marta, che sono le protagoniste del romanzo.
Ad avallare questa interpretazione, lo sguardo delle tre figure (un applauso per il particolare a Patrizio Marini a cui si deve l’illustrazione insieme ad Agnese Pagliarini, che condivide con lui la progettazione grafica). La madre guarda un punto preciso ma non il lettore, quasi ad indicare che non spetta a lei narrare la storia del libro, ma solo farne parte, inevitabilmente aggiungerei; la nonna è di profilo con lo sguardo perso in un punto imprecisato che il lettore non può condividere, quasi a sottolineare che c’è nella storia ma la cosa non la riguarda, ormai; la bambina, invece, volge il suo sguardo al lettore con perspicacia, ingenuità e un pizzico di perplessità, come a dire che spetta a lei assumere il ruolo di narratore.
Ma è proprio il gioco di sguardi che fa vibrare una diversa ipotesi: ma se fossero invece la stessa persona e la copertina volesse indicare un altro elemento, sottostante e profondo del romanzo: la ricerca spasmodica della propria identità che Marta, narrando in prima persona indaga attraverso le figure della madre e della nonna, perdendosi nel tempo e nei ricordi, per provare a immaginare dove il suo sguardo punterà o si perderà con il passare degli anni?
O tu, Marta, hai un’altra ipotesi che collega la copertina al contenuto e senso del tuo romanzo?

Marta Zura PuntaroniRISPOSTA: Mentre per la copertina di Grande Era Onirica avevo un’idea precisissima che ruotava attorno alla foto di Tomohide Ikeya – foto che infatti è finita per essere la copertina stessa del libro, cosa piuttosto eccezionale per la Nichel di Minimum Fax che solitamente ha illustrazioni – per la copertina di Noi Non Abbiamo Colpa – così come il titolo, devo dire: prima di “nominare” il file ci sono voluti mesi, è stato NuovoLibro.docx per penso due anni – non avevo in mente niente di definito. Volevo che fossero in qualche maniera rappresentate non le tre protagoniste del libro ma in un certo senso le loro tre generazioni, o ancora meglio: più che le tre generazioni volevo fossero rappresentate le tre fasi della vita della donna, la triplice forma della femminilità, la trinità della fanciulla, della madre, della vecchia.

Nonostante le due righe in cui tentavo confusamente di spiegare fossero tutt’altro che chiare Agnese e Patrizio mi hanno mandato in pochissimo tempo quell’illustrazione lì – non c’è stato bisogno di modificarla per nulla o di cercare oltre, era perfetta com’era.

Mi piace molto la prima interpretazione che hai dato – il vedere i tre personaggi del libro nelle tre figure, Marta nella bambina, il suo prendere possesso della storia narrata.

 

Quello che emerge prepotentemente in Noi non abbiamo colpa è la relazione tra le tre donne, che segna visibilmente, e oserei dire storicamente, la figura femminile: la nonna Carlantonia che è figura accudente, con tutti gli spigoli e le asprezze che il suo tempo le ha sedimentato nel cuore e nella mente; la mamma Antea è la donna che ha trovato piena soddisfazione di sé, e che per questo è spinta necessariamente a rinunciare alla cura prima delle figlie e poi della madre, con un senso di colpa che è radicato nel femminile; la figlia Marta che si dibatte tra questi due poli alla ricerca di qualcosa che sia principalmente suo e della sua generazione, e che stenta a trovare: nel lavoro che la porta lontana da casa, ma non necessariamente; nella cura alla nonna, in cui si sente però inadeguata e impropria.

Qual è, se c’è, il nesso tra tre generazioni di donne, che attraversano il Novecento per approdare nel nuovo Millennio con i loro diversi fagotti, o non era questo che lasciavi affiorare nell’intreccio di relazioni, scelte e accidenti tra Carlantonia, Antea e Marta?

RISPOSTA: Il nesso sicuramente è rappresentato dai “poteri” e dai “doveri” femminili, che sono rimasti gli stessi nonostante tutto attraverso le generazioni. 

Un mio vecchio psicoterapeuta amava dire che gli uomini si muovono nel mondo, ottengono quello che desiderano attraverso due principali armi, i soldi e la violenza, mentre le donne, che fino a un secolo fa raramente potevano gestire i propri soldi e sono in media biologicamente sfavorite a livello di stazza fisica, utilizzano altri due mezzi: il sesso e il senso di colpa, di cui spesso e volentieri sono anche le prime vittime. Come il senso di colpa sia il tema principale del libro credo sia piuttosto ovvio.

Passando, invece, ai “doveri”: il dovere della cura. Ci sono una serie di personaggi che si ammalano – Maddalena, Carla Antonia, Antea – e a subire sia a livello psicologico che strettamente pratico le conseguenze di queste malattie, le persone adibite alla cura sono sempre e comunque le donne. Carla Antonia, Antea, Marta, anche le badanti: viene dato per scontato siano le donne a prendersi cura, a badare ai malati o agli anziani. La quasi assenza di maschi in questo libro non è stata voluta, è semplicemente una proiezione naturale della loro assenza – anche questa, scontata – quando questo tipo di problemi – persone malate, genitori anziani – si manifestano in un nucleo familiare.

Questi sono i due temi principali del racconto, e questi sono i due poli che intrappolano tutti i personaggi principali, personaggi che ognuno a modo suo si dibatte, cerca una via d’uscita da questi “obblighi” femminili.

 

Se già con Grande Era Onirica lo sfondo ambientale era quello della provincia di una città universitaria e cosmopolita, in Noi non abbiamo colpa la nozione di provincia permane ma è come se si restringesse ulteriormente: siamo in un piccolo paese marchigiano che conserva ancora i tratti della civiltà rurale da cui nasce.
Possiamo parlare di una tua attenzione al mondo provinciale, o invece i luoghi trovano la loro significanza nella valenza autobiografica che portano con sé?

RISPOSTA: Quando ho pubblicato per Minimum Fax c’era un’idea di quello che era l’autore Minimum Fax: maschio bianco etero tra i trenta e quarant’anni romano. In certi ambienti quando dicevo “Minimum Fax” mi rispondevano – essendo io, naturalmente, non un maschio bianco etero tra i trenta e i quarant’anni – “beh, ora ti trasferirai a Roma, no?”

Anche io ho odiato la provincia in cui sono nata da adolescente – come tutti i liceali con velleità letterarie mi credevo speciale e mi sentivo incompresa e sognavo una metropoli, una vita eccitante e culturalmente stimolante – e ho comunque fatto la scelta di studiare fuori – la protagonista di GEO, come me, vive a Siena, quindi già negli anni dell’Università questa voglia di cosmopolitismo s’era un po’ placata, avendo scelto una cittadina sì universitaria ma comunque relativamente piccola, accogliente, strutturata in una maniera – il sistema delle Contrade, cuore della società senese – che impedisce quella sensazione di smarrimento che si può provare nelle metropoli.

Ho passato i primi anni della mia età adulta a vergognarmi del mio accento – le Marche – e forse l’Umbria –  è l’unica regione che è lecito sfottere per la parlata: il Nord produttivo, avanzato è fiero del suo dialetto, se fai una battuta a una persona del Sud per il suo accento rischi di scadere nel politicamente scorretto, i Toscani e i Romani hanno una tradizione di attori comici che li rende subito accettabili… poi ci siamo noi, Marchigiani, una regione rurale con centri abitati insignificanti – non penso ci siano città che raggiungano i 100000 abitanti – né nord né sud, difficile da collocare, non memorabile, il vero “Molise” d’Italia. 

Arrivata a trent’anni mi sono trovata a diventare una provinciale che ama la campagna, ama essere riconosciuta per strada dagli amici di famiglia, ama avere una barista o un panettiere che sa il tuo nome, conosce la tua famiglia, sa quali drammi la affliggono così come tu conosci i suoi, di drammi.

Mi sono trovata poi nauseata da come le narrazioni contemporanee spesso ignorano la provincia per svolgersi sempre negli stessi luoghi: RomaMilanoMilanoRoma, qua e là qualche altra grande città – Bologna, Torino – come se fuori da questi centri non succedesse niente, non esistessero persone, non ci fossero storie degne di essere raccontate, quando alla fine a parte un quattro, cinque milioni di “cittadini” il resto dell’Italia è composto da provinciali come me.

Non avevo esattamente idea di cosa sarebbe diventato Noi Non Abbiamo Colpa, sapevo solo che sarebbe stato ambientato nelle Marche, sarebbe stato un libro dedicato alle Marche.

Penso poi che nell’ultimo anno il valore percepito della campagna – non la campagna “figa” della seconda casa di lusso eh, la campagna quella vera, la casa singola con il giardino poco curato ma anche l’orto, con gli ulivi o le viti attorno, le cataste di legna, i boschi a due passi, con le botteghe del paese nel piccolo centro storico – sia aumentato: ci siamo trovati chiusi nelle mura domestiche, e chi aveva strutturato la vita per passare la maggior parte del tempo fuori da queste mura, pagando prezzi assurdi per il monolocale in centro a Milano nell’ottica di poter però godere di tutto quello che la città poteva offrire si è trovato inaspettatamente a fare i conti con questa scelta.

 

In entrambi i romanzi il tuo io narrativo gioca tra fiction e non fiction. Non è dichiaratamente un memoire né un racconto autobiografico, ma nello stesso tempo ne conserva e mima molti elementi che credo risultino evidenti dalle precedenti risposte.

Su quale categoria di romanzesco si modellano i tuoi libri? o invece è proprio non avere una categoria di riferimento che li rende così innovativi?

RISPOSTA: Io credo che tutta la letteratura sia autobiografica – di solito quando mi chiedono “È autobiografico?” rispondo “I Buddenbrook è autobiografico?”

Ci sono scrittori che parlano evidentemente di loro stessi e poi nell’editing finale fanno un cambio di nomi e sono felici così, ci sono quelli come me che se ne fregano e non sentono il bisogno di distanziarsi dai loro personaggi.

Lo zoccolo duro delle mie lettrici mi segue dal blog e sono persone molto consapevoli di come scrivo e di come Marta-personaggio sia un essere altro rispetto alla Marta-autrice – e come entrambe siano diverse da me, la Marta normale/banale/umana che vive e sta su Instagram e posta foto del gatto. 

Non scrivo per loro, ma sono le uniche persone a cui sento di render conto a libro finito, e per ora non credo siano mai rimaste deluse.

Mi piaceva definire quello che facevo autofiction, poi vari maschi dell’editoria mi hanno fatto presente che l’autofiction era passata di moda, e che comunque io ero troppo poco consapevole nella mia scrittura per poter chiamare quello che faccio autofiction – questo naturalmente perché niente piace al maschio dell’editoria, anche se si spaccia per femminista, quanto mettere le scrittrici nel loro angolino di autobiografismo intimista femminile – chissà per quale motivo in Italia quelli che si possono fregiare del termine autofiction sono sempre i soliti cinque maschi cis.

Ho preso la decisione di smetterla di ragionare troppo su come lo faccio e perché lo faccio e limitarmi a farlo, ma ripeto: non penso che nulla di quello che si scrive, se scritto onestamente – e scrivere libri onesti è l’unica cosa che mi interessa – possa non essere autobiografico.

Per esempio il libro che sto scrivendo adesso è quello che meno sembra parlare di me, eppure già lo sento, se possibile, più autobiografico di NNAC e GEO messi assieme.

 

E in conclusione della nostra chiacchierata, vista anche la notizia che ci regali del tuo prossimo romanzo (se vuoi sbilanciarti di più sono tutta orecchi), cos’è la scrittura per Marta Zura-Puntaroni e come si sta evolvendo?

RISPOSTA: Nello scrivere sto cercando, curiosamente, di tornare indietro, di levarmi di dosso una serie di sovrastrutture e pregiudizi che in questi anni diversi addetti ai lavori dell’editoria mi hanno imposto e che penso siano inutili, anzi dannosi, al fare davvero letteratura. 

Per quel che riguarda il nuovo libro, come sai sono terribilmente scaramantica e già semplicemente dicendoti che sto scrivendo il prossimo mi sento addosso l’invidia divina, quindi evito di approfondire.

Vedremo come andrà.

Chiacchierando (di nuovo) con… Marta Zura-Puntaroni