Vigna

Mi sarebbe piaciuto incontrarli nella vigna del nonno di Anita, con i colori e i profumi dell’autunno. Fermarmi a odorare la rosa sentinella, e a cogliere un bocciolo da portare via con me e lasciare seccare tra le pagine di Qui c’è tutto il mondo, edito da Tunuè.

Cristiana Alicata per la sceneggiatura e Filippo Paris per le illustrazioni firmano una storia commovente e lancinante sull’infanzia e la ricerca di uno spazio, fisico ed emotivo, in cui abitare con agio. Testo e disegni si accompagnano mirabilmente. Una poeticità che viene esaltata dal loro connubio.
Una natura prepotente e sfacciata, ma anche elegiaca e nostalgica nelle tavole, che lascia il posto a interni di rurale semplicità disegnati con cura dei dettagli emotivi, e una storia di crescita e formazione che si scontra con la bizzarria e l’infelicità degli adulti. L’amicizia è l’ancora di salvataggio, ma anche la chiave per interpretare e analizzare il mondo degli adulti, sempre più controverso.
C’è una profonda complicità tra testo e immagini: non un semplice sovrapporsi, ma un raccontare a due voci. I disegni non aderiscono al testo ma lo arricchiscono mostrando sempre l’altro o l’ancora che nel testo è implicito.
Come si ottiene? Qual è il segreto della vostra ricetta?

 

Foto di Mary Jet Red
Foto di Mary Jet Red (mp_photo_book)

FILIPPO: “Il segreto della vostra ricetta” è un’espressione che ho apprezzato e mi ha fatto anche sorridere piacevolmente. Purtroppo non c’è un segreto e neanche una ricetta. Simona Binni, che è la curatrice della collana Ariel, con grande intuizione ci ha messo insieme. Due perfetti estranei che hanno accettato una sfida, quella di portare avanti un lavoro  che sapevano già non sarebbe stata una passeggiata. È stato un incontro tra due persone con sensibilità affini. In un primo momento non riuscivamo proprio a comprenderci, poi lavorando molto io sugli schizzi e Cristiana sul testo, siamo riusciti a trovarci. 

 

Cristiana AlicataCRISTIANA: È stato un lavoro inizialmente difficile. Io ero abituata a scrivere romanzi e lasciare molte porte aperte ai lettori. Scrivendo in questo modo all’inizio era come non guidare Filippo fino in fondo. Scrivevo, lui disegnava le prime matite, i volti delle bambine e non mi trovavo. Poi abbiamo avuto un momento di quasi rottura e invece di rompere siamo cambiati entrambi. Io ho cominciato a scrivere in modo che quello che scrivevo fosse definito, avesse prospettiva, abitasse lo spazio, relazionasse i personaggi nelle loro espressioni, smorfie, emozioni e Filippo finalmente vedeva quello che volevo raccontare. La cosa bella è che malgrado avessi cominciato a togliere gradi di libertà, lui ha continuato a metterci del suo e quindi è diventato un lavoro di arricchimento e scambio continuo. È stato così per tantissime tavole.

 

Con il vostro libro è stato un colpo di fulmine dalle prime tavole: la vigna del nonno, i colori autunnali e la rosa sentinella, che diventa un amuleto con i semi che il nonno regala alla nipotina Anita che si sta trasferendo in provincia di Bergamo, a Stezzano, e un vaticinio nella tavola in cui un bocciolo di rosa è spampinato a terra.

Amore che si è mantenuto costante tavola dopo tavola. Negli interni della casa di Anita e Filippo, soli con il papà perché la mamma come scopriremo poco più avanti è chiusa nella sua stanza. La ragione sarà affidata a un lungo flashback che ci riporta all’inverno di sei mesi prima, quando la mamma cominciò a comportarsi in modo strano.

Come mi sono commossa alla leggerezza delle parole per descrivere il disagio della mamma, a cui i disegni danno spessore e approfondimento introspettivo.

E quel particolare delle scarpe spaiate, che non svelo nel dettaglio perché è stato per me uno dei momenti più felici della vostra “ricetta”. Con l’illustratore che anticipa e la sceneggiatrice che tavole dopo spiega e rivela. Ho partecipato a quel momento con grande commozione. Quel particolare mi ha mostrato la sensibilità di Anita nei confronti della madre. Io non avevo visto, non avevo fatto caso, non avevo prestato attenzione al dettaglio e quando l’ho trovato espresso mi sono sentita quasi in colpa, per non aver visto e capito. Lascio l’esperienza al lettore. Anche a quello che vedrà e capirà.

Ci raccontate la tavola per Cristiana e il momento narrativo per Filippo che vi ha più sorpreso, perché non credevate che ci fosse quello che leggevate o quello che vedevate, e invece sì, doveva essere proprio così?

CRISTIANA: Doveva essere esattamente così. Non detto, ma “visto” e, infine, raccontato a parole dopo, dalla voce narrante e quindi in qualche modo “realizzato”. La malattia mentale tra le mura famigliari è un po’ così. Fatta di dettagli che sfuggono, poi divengono chiari, ma solo dopo. 

FILIPPO: Grazie Giuditta, le tue parole mi fanno felice. Riguardo a quel passaggio delle scarpe spaiate, posso dirti che, quando chiesi agli amici (prima della stampa), di leggerlo, tutti hanno avuto la tua stessa reazione. Alla vista delle scarpe spaiate, si fermavano e tornavano indietro e con stupore mi dicevano: “ma non mi ero accorto/a”.  Doveva essere così, nel senso che Cristiana ha sceneggiato magistralmente la storia. Precisa nelle indicazioni e riferimenti, ma nello stesso tempo, aperta alla possibilità di lasciare al segno la capacità di raccontare. Questo è un libro molto disegnato, nel senso che affida alla Linea (e poi al colore) la capacità di mostrare un insieme, ma anche il dettaglio, del visibile, ma anche dell’invisibile. Le tavole mute descritte nella sceneggiatura e la profonda immedesimazione alla storia, mi hanno permesso a volte di vedere altro ancora.

 

Un romanzo di crescita e di amicizia. Tre bambine: la protagonista Anita,  le sue amiche Tina ed Elena.

Tre personalità del tutto differenti che anche in questo caso avete arricchito e inspessito nel connubio tra testo e immagini. Differenze fisiche che si vedono e analisi introspettiva che scaturisce dalla sceneggiatura.

Ognuna di loro ha una crepa, qualcosa di sottile che le fa sentire a disagio e alla ricerca di un posto tutto per sé. E un sogno che condividono: andare via costruendo una zattera.

La zattera rimanda ai libri d’avventura, ma qui abbiamo tre ragazzine, cosa piuttosto rara per i viaggi in mare, i sogni di libertà e lo spirito di ribellione. 

A chi ti sei ispirata, Cristiana, scrivendo di loro? E tu, Filippo, chi avevi in mente mentre le disegnavi? o entrambi avete innovato seguendo un’ispirazione più personale? 

CRISTIANA: Sono cresciuta coi libri di mio padre, quindi con la formazione letteraria di un bambino maschio borghese degli anni 40/50. Verne, Salgari, Ivanoe, I ragazzi della via Paal, con qualche incursione nel mondo femminile: Piccole Donne, Pollyanna, dove comunque le bambine erano ribelli (d’altronde le scrittrici per scrivere nella loro epoca non potevano che essere a loro volta ribelli). E poi Pinocchio, la sua Odissea, la sua fuga, la sua ricerca di identità. I miei eroi letterari erano i pirati di Mompracem, il Corsaro nero a cui poi si sovrapposero gli eroi dei cartoni animati giapponesi. Rocky Joe, Remì, Mimì Ayuara, Babil Junior. Tutti dei solitari.

Mi ritrovavo negli orfani di madre, nei bambini come Remì in cerca di qualcosa, nel Corsaro Nero a spasso per i mari, nei pugni di Rocky Joe, nei salti dell’uomo Tigre. Tantissimo in Nemecsek che prendeva le botte nella lotta per la strada (lui era mingherlino, io femmina). Abitavo una villetta dove l’asfalto arrivò dopo le seconde macchine, mi rotolavo nel fango fuori di casa coi ragazzini della provincia di Bergamo. La vita per me era un’avventura: lo era nei libri, nei personaggi che inventavo quando ero sola in camera, lo era fuori dalla porta. 

 

Che bellissima carrellata di libri e personaggi! Sì, le vostre tre bimbe stanno proprio lì in mezzo.

 

FILIPPO: Uno dei primi ricordi che ho di me, avrò avuto forse quattro anni e stavo nel lettone dei miei genitori, non ero andato all’asilo forse perché stavo male o forse era scesa tanta neve; il mio Paese: Celano, è in montagna e l’inverno era bianco, allora più di adesso. Io avevo in mano il volume delle fiabe dell’enciclopedia per ragazzi “i quindici” (a proposito di sentirsi appartenere alla storia) ed ero concentratissimo a ridisegnare zio lupo intento a salire una scala, per raggiungere il tetto. All’interno della casa, la protagonista spaventata sotto le coperte. Le immagini mi hanno conquistato da subito. L’enciclopedia nel corso di quegli anni si riempì di disegni, goffi studi sulle mani, sulle posizioni delle dita. Mi è sempre piaciuto disegnare le persone, soprattutto le persone adulte. Ecco, una delle prime difficoltà incontrate in Qui c’è tutto il mondo è stato proprio dover avere a che fare con tre bambine. Non è stato facile, prima di arrivare ad Anita, Tina ed Elena, che conosciamo, ci sono stati tante prove, tanti passaggi. In molti, mi hanno detto che, anche se non in modo esplicito, hanno ritrovato un rimando ai Manga e l’osservazione non è del tutto sbagliata. Durante gli anni ottanta la nostra generazione aveva l’età delle protagoniste del libro e ricordo i pomeriggi appiccicati alla tv ad ammirare i cartoni che arrivarono numerosi dal Giappone. L’intenzione di ricordare quello stile c’è, ma non completamente. Nella linea, nei tratteggi, nelle proporzioni, c’è il mio modo di disegnare. Un riferimento importante per me è Hayao Miyazaki, che scoprii più tardi, e che ho voluto omaggiare sin dalla copertina. Nella sceneggiatura i caratteri delle tre bambine sono molto definiti, ho dovuto rendere visibile attraverso la forma, quello che Cristiana è stata capace di farmi “vedere”: la determinazione, la delicatezza, la sofferenza, l’incomprensione. È stato un lavoro sulla memoria, un ritorno al mio essere bambino. 

 

Oh, Filippo, anch’io sono cresciuta con i Quindici! E sai che da grande fan di Miyazaki avevo subito visto qualcosa di caro e famigliare nelle tue figure?
Accanto alle tre giovanissime protagoniste e le persone che ruotano loro intorno: la famiglia di Anita alle prese con il disagio della madre, acuito forse dal trasferimento in un luogo che sente altro da sé, ma che in realtà ha ragioni più profonde che diventano come serpi nel proprio corpo pronte ad aggredire chi le sta intorno, e la nonna di Elena, rimasta tragicamente orfana, un ruolo predominante come già accennavo è il paesaggio interamente affidato ai disegni di Filippo Paris, ma filtrato dall’introspezione che emana dal testo di Cristiana Alicata.

Come sono nati i paesaggi di Qui c’è tutto il mondo? Quali sono state le difficoltà e le sorprese che l’interazione tra sceneggiatura e disegni vi ha regalato? È stato più facile creare il mondo di Anita, Elena e Tina rispetto agli stessi personaggi?

CRISTIANA: I personaggi di Qui c’è tutto il mondo sono i personaggi di Ho dormito con te tutta la notte, in particolare della prima parte che racconta l’infanzia della protagonista che nel libro non ha nome, mentre nel fumetto era necessario dargliene uno. Le difficoltà iniziali sono state conferire un’età alle bambine nel tratto disegnato. Nel libro avevano un’età indefinita per cui il lettore poteva “immaginarle”, nel fumetto era necessario collocarle, vestirle, conferire loro le smorfie commisurate alla loro età. La sorpresa è stata la condivisione di un certo vissuto comune che avevamo io e Filippo e che quindi in qualche modo influenzava il nostro modo di vederle le tre bambine. 

 

È più facile scrivere i paesaggi che scrivere perché vengano rappresentati?

CRISTIANA: Quanto allo scrivere per farsi leggere e allo scrivere per farsi disegnare sono due cose diverse. Ognuna di queste scritture ha le sue scorciatoie e i suoi ostacoli. Di sicuro ho dovuto imparare a scrivere per fare disegnare. Questo sì.

 

FILIPPO: Per il paesaggio, in generale, c’è stato un lavoro di ricerca iniziale. Ho cercato immagini di Stezzano, di Bergamo, di campi coltivati a mais, di fossi, impianti di irrigazione, cascine, stalle e pollai, gli anni ottanta. Insomma di tutto. A tutto questo materiale raccolto, si è poi aggiunto il ricordo, la memoria. Dopo la fase di documentazione, ho iniziato a disegnare paesaggi, soprattutto luoghi chiave della storia: la vigna autunnale, il notturno con la luna gigante (una luna volutamente grande, un pallore notturno alla E.T.), le abitazioni dei personaggi, gli interni (dove avvengono fatti dinamici, le inquadrature scelte avrebbero dovuto restituire uno spazio credibile). Lo spettatore, a fine racconto, ha visitato per intero la casa di Anita. Lo studio sul paesaggio parte dall’alto, poi scende, pian piano, nelle case, tra le vie, nei fossi, nelle vite dei personaggi  e le loro emozioni e proprio in questo momento, il paesaggio fisico cede il posto al paesaggio interiore quello della malattia, del dolore. Un paesaggio fatto di una porta sempre chiusa, o di luoghi che diventano bui o svaniscono del tutto. Cristiana mi ha guidato attraverso la sua scrittura. Più che parlare di difficoltà (lo abbiamo già fatto abbondantemente) parlerei della sorpresa  (per entrambi) che deriva da questa collaborazione. Qui c’è tutto il mondo ha emozionato me e Cristiana allo stesso modo, è il risultato della nostra collaborazione, rappresenta la fusione delle nostre passioni, la scrittura per Cristiana e il disegno per me. Un’eventuale futura collaborazione sarà affrontata con più serenità e fiducia reciproca. 

 

Per chiudere questa entusiasmante chiacchierata, invitando i lettori a immergersi nel mondo di Anita, dov’è il luogo (sì, proprio dov’è e non qual è) in cui potete esclamare: Qui è tutto il (mio) mondo?
Grazie a entrambi per la generosità e l’attenzione che avete mostrato nel rispondere alle mie domande.

CRISTIANA: Ho cercato tanto quel luogo, ho fatto quasi venti traslochi e ho perso l’opportunità della stabilità geografica. Mi sento a casa a Pantelleria, sulle cime dell’Alto Adige, nel quartiere di Amsterdam dove è cresciuta Anna Frank, a Lavinio dove c’è la casa dei miei bisnonni che sto risistemando, a Palermo dove non sono cresciuta ma c’è metà del mio sangue da secoli, a Bergamo, a Roma, a Treviso e a Torino. Ecco. Il mio mondo ormai è tutto il mondo. 

 

FILIPPO: Più che riferirmi ad un luogo geografico (che in ogni caso localizzerei tra l’Abruzzo e il Lazio), penserei al disegno. Ho sempre considerato il disegno un bisogno, una necessità, come quella di respirare. Terapeutico. Le numerose ore trascorse in solitudine sono state sicuramente stancanti, ma nello stesso tempo appaganti. La dimensione del disegno è senz’altro il mio mondo, quello che mi fa sentire a mio agio, che mi regala felicità.

Chiacchierando con… Cristiana Alicata e Filippo Paris