Sono molto felice di essere accolta nello studio di Daniele Petruccioli, traduttore felice ed elegante, e di fermarmi con lui a conversare di una scrittrice sagace e acuta: Dulce Maria Cardoso che dona ai lettori un personaggio straordinario, pieno di sfumature, Eliete. Più di me sarà il traduttore Petruccioli nell’intervista che segue a farvi venire la voglia incontenibile di leggerla.

Daniele Petruccioli

Dal 2007, quando Voland pubblicò in Italia il primo romanzo di Dulce Maria Cardoso, Campo di sangue, e nello stesso anno Le mie condoglianze, ai quali sono seguiti Il compleanno, Il ritorno, la raccolta di racconti Sono tutte storie d’amore, e di recente Eliete. La vita normale, la voce italiana della scrittrice portoghese è Daniele Petruccioli.

In un post su facebook Daniela Di Sora ti attribuisce anche la scoperta di Cardoso per il pubblico di lettori italiano.

Ci racconti com’è stato il vostro primo “incontro”?

RISPOSTA: Daniela di Sora, editrice della Voland, è troppo generosa nei miei confronti. In realtà era stata proprio la Voland a richiedere Campo de sangue in lettura, credo nel 2005, e come da prassi editoriale lo aveva dato da valutare a tre traduttori dal portoghese, tra cui me. La mia scheda editoriale era stata molto buona, le altre molto più dubbiose, e così Di Sora decise di non pubblicare il romanzo.

L’anno dopo però la casa editrice ricevette anche Le mie condoglianze, secondo romanzo di Cardoso, e siccome il primo mi era tanto piaciuto mi fu chiesto di valutare anche questo. Lo lessi, poi feci una cosa non proprio ortodossa. Scrissi una scheda di valutazione molto personale, probabilmente anche forse un po’ presuntuosa, in cui sottolineavo il fatto che fare l’editore significa anche correre dei rischi, assumersi la responsabilità di pubblicare quello che (se non altro ai miei occhi) era un capolavoro anche eventualmente contro certe considerazioni di opportunità editoriale ed economica. Sapevo di poter stizzire l’editrice ed eventualmente giocarmi le possibilità di future collaborazioni ma, se lo pretendevo da lei, anch’io dovevo assumermi i miei rischi. Allora non conoscevo ancora bene Daniela Di Sora, ma il mio istinto non aveva sbagliato: la Voland è una casa editrice che non ha paura di correre rischi, a volte anche pagando un prezzo salato ma anche ricavandone non solo grandi soddisfazioni ma grazie al cielo anche successo e denaro, come dimostra il caso di Amélie Nothomb e come spero dimostri col tempo quello di Dulce Maria Cardoso.

Daniela Di Sora decise di fidarsi, comprò addirittura i diritti di traduzione per entrambi i romanzi e mi fece tradurre subito Le mie condoglianze (che è veramente un capolavoro), lasciandogli anche il titolo non proprio allettante ma che (nella mia follia) caldeggiavo. Dopo aver letto la traduzione, Di Sora mi telefonò per dirmi che avevo ragione, il romanzo era stupendo davvero, e decise di pubblicare, da allora, tutto quello Dulce Maria Cardoso aveva e avrebbe scritto. E così è stato.

E io tengo a sottolineare questo atteggiamento così raro, così lontano dagli uffici marketing che tanta voce in capitolo hanno nel propinarci novità-fotocopia ormai da più di dieci anni. È un modo di fare editoria, questo della Voland, secondo me importantissimo – e lo dico non solo da traduttore ma anche e forse soprattutto come lettore.

 

Essere l’unico traduttore di una scrittrice: un privilegio o una responsabilità?

RISPOSTA: Secondo me è un diritto, non tanto del traduttore quanto della scrittrice. Ogni artista dovrebbe avere, almeno all’inizio, la garanzia di non passare di mano in mano ma di poter contare su una voce, uno sguardo interpretativo che si adatti, si aggiusti, si immerga nella sua arte con l’attenzione e la lentezza dovute. Certo, può capitare e capita che per esigenze di piano editoriale si cambi traduttore (per esempio se un libro deve uscire in una certa data e la traduttrice abituale di quell’autore è già impegnata) ma di solito questo avviene per autori già molto affermati, e in questi casi è magari anche bello sentire voci diverse, leggere un certo stile conclamato sotto una diversa luce – come è bello sentire Beethoven suonato da Pollini e da Horowitz, o vedere uno Shakespeare di Strehler e di Peter Brook. Ma quando un’autrice entra in una cultura nuova secondo me ha bisogno di una voce che l’accompagni, e sia accompagnata da lei, almeno all’inizio del viaggio.

 

C’è un’affinità più profonda che è scattata tra te come traduttore e Dulce Maria Cardoso come scrittrice, oltre alla volontà dell’editora di continuare a sceglierti (sappiamo che non sempre capita per gli scrittori tradotti)? Qualcosa che ti appartiene e che è connaturato alla scrittura di Cardoso?

RISPOSTA: No. Siamo molto diversi, in realtà. E infatti per me la sua scrittura è difficilissima da tradurre. Più la traduco e più mi sento inadeguato. Più la conosco, più tempo ci metto ogni volta a tradurre un suo romanzo. Ma è proprio questa diversità, credo, a legarci e ad aver fatto nascere tra noi, e poi crescere nel tempo, quella che mi sembra una vera amicizia. L’ho capito leggendo anni fa una sua intervista in un giornale portoghese a proposito del suo romanzo Il ritorno, che ha per protagonista un ragazzo di quindici anni. Alla domanda se fosse stato difficile, per una donna adulta, costruire il personaggio di un maschio adolescente, rispose più o meno che il mestiere di scrittore comincia dalla curiosità di esplorare il diverso, il lontano, perché è solo così che impariamo a conoscerci meglio. Ecco, per me con lei è stato esattamente così. Ho capito, leggendola, che immergermi nelle sue storie, nel suo stile, mi avrebbe migliorato, mi avrebbe costretto ad attingere a parti di me rimosse o poco frequentate che mi avrebbero aiutato a crescere creativamente ed umanamente. Ed è proprio così. Ogni volta, traducendo un romanzo di Dulce, mi sembra di diventare una persona migliore.

 

Entriamo nel vivo di questo nuovo, splendido e complesso romanzo, da poco nelle mani dei lettori italiani e pubblicato in Portogallo nel 2018: Eliete. La vita normale, titolo che ricalca perfettamente quello originale, Eliete. A vida normal. Come suona in portoghese il nome della protagonista: dolce, suggestivo e insolito come in italiano?

RISPOSTA: Sì, e no. Nel senso che per noi è un nome straniero, in portoghese no. Eliete, nome di origine ebraica, significa qualcosa come Consacrata, si potrebbe tradurre con Eletta, oppure – con altra etimologia ma sonorità molto vicina – con Lietta. Personalmente però sono contento che oggi non usi più tradurre i nomi propri. Eliete vive a Cascais, in Portogallo, ed è giusto che abbia un nome portoghese. In questo caso, poi, trattandosi di un nome abbastanza insolito anche lì (come dice la protagonista stessa a un certo punto), la distanza linguistica, come dire?, casca a fagiolo.

 

Spieghiamo un dettaglio, che sembra piccolo e in realtà potrebbe essere di straordinaria importanza. Solo nel frontespizio del romanzo al sottotitolo La vita normale, è aggiunta un’indicazione: Parte I. La vita normale.

Il finale del romanzo per quanto aperto conclude la trama e appaga tutte le aspettative del lettore, fermo stante che una protagonista indelebile come Eliete è così familiare e autentica che come per le persone reali a cui si vuole bene, si è sempre avidi di conoscere qual è il loro destino e il loro futuro.  Di quante “parti” della vita di Eliete potremo ancora godere? Perché di sicuro dopo la prima parte, ce ne sarà almeno una seconda, vero? Ne sai già qualcosa?

RISPOSTA: Sì, dovrebbe trattarsi di una trilogia. È una storia molto lunga e complessa, che riserverà ai lettori diverse sorprese. Questa prima parte è su una donna “normale” appunto (ma Cardoso, con la sua trama e le sue parole straordinarie, ci invita a non essere troppo sicuri di cosa sia normale e cosa no) e la sua famiglia, ma soprattutto sull’impatto che hanno su di lei i social media. Dulce Maria Cardoso ha iniziato come sceneggiatrice alla televisione e perciò, oltre a uno stile formidabile perché dolce e commovente senza rinunciare alla crudezza di uno sguardo impietoso, ha questa capacità pazzesca di sviluppare trame molto complesse e avvincenti, davvero articolate, oserei dire filmiche. Accade in tutti i suoi romanzi, ma in questa storia lo sviluppo sarà particolarmente avvincente. E mi sembra giusto: la “normalità” è qualcosa di molto più sfuggente, e complesso, e interessante, di quanto tendiamo a pensare.

La seconda “parte”, emergenza Covid permettendo, dovrebbe uscire in Portogallo già quest’anno. E io non vedo l’ora di tradurla.

 

Prosa e ritmo affascinanti quelli di Dulce Maria Cardoso: avvolgenti ed eleganti, in cui il tempo scorre con un ritmo tutto suo, in barba alle lancette e alla cronologia; realtà e pensieri si fondono in un unico ragionamento armonico e coerente. La traduzione si piega in maniera stupefacente ad accogliere il lettore italiano, con una punteggiatura poetica, come sa esserlo quella italiana per chi la maneggia con cura e sapienza, come tu mostri di saper fare.

Come si abita da traduttore la prosa di Cardoso? Come si sceglie la punteggiatura nel passaggio dal portoghese all’italiano?

RISPOSTA: Come dicevo, riprodurre il suo stile mi costa molta fatica e ripensamenti. Dulce Maria Cardoso ha questa caratteristica, per me: leggendola in originale è come se vedessi, letteralmente, in filigrana, i vari strati della frase: ritmico, di senso, di risonanze – o, se si preferisce: retorico, filosofico, poetico. Mi sembra del tutto evidente, già lì nella frase. Poi traduco, e non funziona più niente. Restano solo parole vuote, parole morte, senza nessuna intelligenza, nessuna bellezza di immagine, nessuna sonorità. Allora ricomincio, sposto una preposizione, provo un sinonimo, azzardo un’allitterazione… E questo non si ripercuote solo nella frase, ma in tutto il paragrafo, la pagina, il capitolo. Correggo di continuo, fino alle seconde bozze. In generale lavoro sempre così, a mano a mano che traduco la mia interpretazione si consolida, si rafforza, e vado ad aggiustare le prime stesure secondo questa nuova sicurezza. Ma con Cardoso è l’insicurezza a incalzarmi: le riscritture si sovrappongono disperatamente, finché non mi sembra di aver finalmente ricreato l’equilibrio di immagine, di intelligenza e di armonia che subito mi era apparso nell’originale. Non sempre ci riesco, eh. Ma insomma, la creatività è un’approssimazione, un tentativo. “Fallisci meglio”, diceva Beckett.

Quanto alla punteggiatura, personalmente parto sempre da quella dell’originale e cerco di aggiustare pochissimo, soltanto a poco a poco, quando mi sembra che l’uso italiano darebbe una sensazione diversa che in portoghese (come per esempio nel caso di certe virgole, di cui in portoghese è normalissimo abbondare e che se lasciate così darebbero forse alla traduzione una patina un po’ burocratica). In generale vale la stessa cosa che per le parole e l’andamento della frase (che grammaticalmente parlando sarebbero lessico e sintassi): tutto quello che è lingua lo porto di qua, verso il nostro uso; tutto quello che è stile provo a ricrearlo, anche a costo di grandi stranezze e contro ogni uso. Scrivere è un’invenzione, ma non tutto è inventato. Bisogna saper distinguere tra grammatica e creazione.

 

Nella vita e nei sentimenti di Eliete, pur nella differenza di eventi e vicissitudini che ne caratterizzano la trama, mi sono totalmente e pienamente riconosciuta. È merito di quella “normalità” professata già dal titolo, o c’è una sintonia tra la vita portoghese e quella italiana che rende il rispecchiamento più immediato e visibile?

RISPOSTA: Forse un po’ tutt’e due. La “normalità”, dopo tanti anni di globalizzazione, è ormai un fatto molto simile in tutto l’Occidente, almeno da un punto di vista superficiale. Ma secondo me c’è anche un’enorme affinità tra Portogallo e Italia, in questo momento storico. Siamo paesi feriti, malinconici, in piena ricerca di una forte identità che un tempo forse c’era ma che adesso sembra sfuggirci di mano, eppure con un’enorme forza interiore e una capacità di recupero non comune. Personalmente, credo di essermi innamorato del Portogallo un po’ anche per questo, quando avevo vent’anni.

 

Da lettrice mi è sembrato che tu vesta la scrittura di Cardoso con grande naturalezza, come un abito su misura. Ed è qualcosa di contagioso, perché grazie alla tua traduzione, anche come lettrice mi sono sentita perfettamente a mio agio.

È questo il compito del traduttore?

RISPOSTA: Intanto grazie per queste belle parole, non sai la soddisfazione che mi dai. E me la dai proprio perché è una naturalezza piena d’artificio. Non è naturale, la devo costruire a fatica, a costo di tentativi e frustrazioni continui. Come dici giustamente tu, si tratta di prendere le misure.

Se questo sia il compito del traduttore, non so. Direi che, come ogni interprete, il traduttore ha un compito diverso per ogni romanzo, per ogni testo che ricrea – e non lo sai da prima, devi saper leggere il testo, scoprire cos’è che ti chiede. Poi però c’è un dovere fondamentale, ed è quello di imparare a muoversi sullo stretto crinale tra te e un altro: devi partire dall’altro e all’altro ritornare, ma per farlo devi passare da te. Questo cambierà l’altro, in parte, certo, come ogni voce cambia un po’ la canzone che canta. Ma se non lo fai, costruirai un monumento morto. Una lapide. Invece bisogna scolpire una statua che sembri viva. Se la mia mano (la mia voce) ti ha fatto sentire naturalmente qualcosa di vivo e non una cosa magari bella ma rigida, il merito è mio. Se poi però questa cosa viva ti ha commosso, fatto pensare, piangere, ridere, il merito è solo dell’autrice.

 

Più che il mondo e la realtà portoghese, in Eliete. La vita normale è il cosmopolitismo tecnologico e social a prendere il sopravvento e a fare da geografia alla vita di Eliete e della sua famiglia. È un mondo uguale in qualsiasi posto quello di Tinder, Facebook e whatsapp o invece nella traduzione ci sono stati degli adattamenti per il lettore italiano, che diversamente non sarebbe riuscito a riconoscere? La “geografia digitale” è più semplice di quella reale o più complessa da tradurre?

RISPOSTA: Nessun adattamento: lo shock dell’avvento dei social ha proprio la particolarità di essere violento ovunque allo stesso modo, addirittura quasi nello stesso momento. Alcuni network non li conoscevo e sono andato a studiarmeli: le pagine sono uguali per tutti, in inglese o tradotte da un software di traduzione automatica. Qui, a Lisbona, a Oslo, a Nuova Delhi, non cambia assolutamente niente. Siamo noi, casomai, a cambiare. Almeno per ora. Forse è proprio questa, la cosa più spaventosa.

Dal punto di vista della traduzione, però, il procedimento è molto simile. Come uso la rete, le foto, le mappe, per rendermi conto di come è fatto un palazzo prima di tradurne la descrizione (così da capire se è aderente o meno alla realtà e quindi provare a tradurre anche questo aspetto per il lettore italiano), così la uso per capire i meccanismi di pubblicazione, privacy, chat e incontri prima di tradurne le dinamiche. Fa parte del normale processo di studio. Ma è solo una fase preliminare. La cosa complessa è comprendere la posizione dell’autore quanto a queste geografie, e cercare di conservarne luci e ombre, perentorietà e ambiguità, insomma ogni sfumatura che riesco a leggerci.

 

Quando traduci Dulce Maria Cardoso, il tuo studio diventa…?

RISPOSTA: …il mio studio. La stanza dove traduco è solo mia. Qui, sono gli altri a essere miei ospiti. È un luogo magico di per sé, senza bisogno di nessun “originale”.

 

 

Dulce Maria CardosoDulce Maria Cardoso: nata in Portogallo nel 1964, ha trascorso parte della sua infanzia in Angola, per poi tornare a stabilirsi a Lisbona. Il suo primo romanzo, Campo di sangue (Voland 2007), le è valso il prestigioso Grande Prémio Acontece. Da allora ha pubblicato Le mie condoglianze (Voland 2007), vincitore nel 2009 del Premio Letterario dell’Unione Europea, Il compleanno (Voland 2011), Premio Pen Club 2010, e Il ritorno (Voland/Feltrinelli 2013), eletto libro dell’anno dai quotidiani “Público” ed “Expresso” e vincitore dell’English Pen Translate Award 2016 per la “straordinaria qualità letteraria”.

[Biografia della scrittrice presa dal sito della casa editrice]

 

foto dDaniele Petruccioli: è nato a Roma, dove vive. Per anni si è occupato principalmente di teatro. Dal 2005 collabora come traduttore, scout ed editor con diverse case editrici, occupandosi di romanzi e saggi in lingua italiana, francese, inglese e di tutta l’area lusofona, dal Portogallo al Brasile passando per l’Angola e il Mozambico, con particolare attenzione alle aree limite di sperimentazione linguistica e alla letteratura postcoloniale. Tiene regolarmente laboratori di traduzione. Insegna Traduzione dal portoghese all’università di Roma Tor Vergata. È la voce italiana di Dulce Maria Cardoso e Philippe Djian. Fra i suoi autori: Will Self, Luandino Vieira, Anouar Benmalek. Nel 2010 ha vinto il premio “Luciano Bianciardi” per la traduzione del romanzo Ella Minnow Pea di Mark Dunn (Lettere, Voland 2008).

È inoltre autore di due saggi dedicati alla traduzione: Falsi d’autore. Guida pratica per orientarsi nel mondo dei libri tradotti. Macerata: Quodlibet, 2014 e Le pagine nere. Appunti sulla traduzione dei romanzi. Roma: Edizioni La Lepre, 2017.

[biografia del traduttore presa QUI]

Nello studio di… Daniele Petruccioli, traduttore di “Eliete”