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Dobbiamo inventarci un luogo? Vero o finto? Se fosse una panetteria? – mi chiede Costanza Rizzacasa d’Orsogna, quando le spiego della tradizione del Chiacchierando di “inventare” un luogo ideale in cui avremmo potuto svolgere la chiacchierata che vi accingete a leggere.

La panetteria è perfetta. Quanto amo il pane appena sfornato. Potrei vivere solo di quello. #IosonoMatilde – è la mia risposta entusiastica.

Siamo in una panetteria romana, non quelle di grido al centro, alcune delle quali vivono di fama, ma defilata, e però buonissima – specifica la scrittrice, e così sia.

Non superare le dosi consigliateNon superare le dosi consigliate” è il primo romanzo di Costanza Rizzacasa d’Orsogna, che ha esordito nella narrativa con una favola nel 2018 sempre per Guanda, che ha riscosso un grande successo e moltissima simpatia anche fuori dall’Italia: “Storia di Milo, il gatto che non sapeva saltare”. Ma le prime cose che ho letto di Costanza Rizzacasa d’Orsogna sono le puntuali e brillanti interviste che scrive sull’inserto culturale la Lettura, oltre agli articoli sul Corriere della Sera e le riflessioni della rubrica anyBody – Ogni corpo vale sul settimanale 7. Un curriculum di grande spessore, all’interno del quale il romanzo “Non superare le dosi consigliate” è un approdo necessario, straziante e straniante. Decisamente importante. Uno sguardo torbido e per questo ossimoricamente lucido.

Mi chiamo Matilde, ho quarantaquattro anni e peso 130 chili. Quasi 131, per la verità. 130 e mezzo, secondo la bilancia della farmacia di via Cavour, l’unica dove non possono vedermi. A casa la bilancia non ce l’ho. Peso 130 chili, quasi 131, e non so come ci sono arrivata.

Questo è l’assunto di partenza, ripetuto come un ritornello stonato, che accompagna il lettore nelle pieghe della vita di Matilde, la protagonista e voce narrante, presente insistita prepotente, di “Non superare le dosi consigliate”. Con questo peso che grava sempre più sul cuore, si percorre la vita di Matilde senza seguire nessun filo cronologico, ma con un andamento ondivago e zigzagante che ora appesantisce il lettore ora lo alleggerisce insieme a lei, vivendo in combinazione errori e felicità, successi e fallimenti, secondo il percorso memoriale ed esperienzale di Matilde, che si scopre sempre più e in ogni pagina si aggroviglia nel cuore e nel pensiero di chi legge, con sensazioni fisiche pressanti e sconcertanti. Sì, si avverte un malessere fisico tangibile, opprimente, invasivo che Costanza Rizzacasa d’Orsogna riesce a rendere con straordinaria potenza.

I 131 chili di Matilde sono un punto di arrivo o di partenza per il romanzo? E come sei riuscita a fare arrivare la tua protagonista così immediata sulle pagine e così diretta al lettore?

costan1RISPOSTA: I 131 chili di Matilde sono solo un punto – né quello iniziale, né finale, perché un inizio e una fine in questo libro non ci sono. Il romanzo, che si sviluppa come un foglietto illustrativo (il cosiddetto “bugiardino”), con ogni capitolo che ha il titolo di una voce del foglietto illustrativo, va continuamente avanti e indietro. Una fatica in più per il lettore, forse, che è costretto a prestare più attenzione del solito (chi l’ha detto che la lettura debba essere semplice, debba “non disturbare troppo”?), ma uno strumento narrativo utile a fare sentire il lettore in bilico, destabilizzato, come destabilizzante è il contenuto del romanzo. Che è crudo, spietato, perché così doveva essere. Anche se ho prestato a Matilde, la mia protagonista, il mio vissuto di disturbi alimentari, il mio rapporto con una madre bulimica che riversa sulla figlia tutte le sue ansie di perfezione, questo libro è un’opera narrativa, è un romanzo. E però, nell’essere romanzo è più vero del vero. C’è una frase di Bacone che dice, più o meno: “Io non voglio che la mia pittura sia realistica, che faccia del realismo; io voglio che essa SIA la realtà”. Ed essere la realtà vuol dire anche descrivere tutto nel dettaglio, in modo crudo e autentico. Parliamo di vomito e lassativi? Facciamo vedere di cosa parliamo. Facciamo vedere quello che succede. Ecco, volevo sbattere in faccia al lettore tutto questo dolore. Affinché non ci fossero dubbi, non ci fossero alibi.

Ma il libro è anche fortemente ironico, sarcastico, come la madre di Matilde. Il romanzo s’intitola “Non superare le dosi consigliate”, da una voce del foglietto illustrativo, ma tutto il libro, tutta la vita di Matilde, come lei stessa dice, è un continuo superarle. Perché prendere una pasticca se puoi prenderne due, tre, quattro? Se una pasticca dà un certo effetto, due daranno l’effetto doppio, pensa Matilde. Il doppio dell’effetto desiderato. Il triplo dell’effetto desiderato. Un vantaggio. Matilde è sempre in cerca di un vantaggio, perché si sente così indietro, perché è una perfezionista in tutto. Ed è una ragazza che soffre di dipendenze. La dipendenza dal cibo e quella dai farmaci, entrambe attualissime oggi.

Il continuo avanti e indietro (tecnica peraltro usata anche da grandissimi autori, tra cui Toni Morrison, forse la scrittrice che mi ha influenzata di più) serve anche a un altro scopo: la menzogna, uno dei temi fondamentali del romanzo. La menzogna è un tratto comune a molti disturbi alimentari. C’è la menzogna dell’anoressico, che mente su quello che non ha mangiato, c’è quella del binge eater, che mangia tre brioche a colazione in tre pasticcerie diverse ma dice che ha mangiato due fette biscottate. Il binge eater non ha in realtà l’intento di mentire, ma perde la cognizione di ciò che sta mangiando – tre, quattromila calorie in pochi minuti (poi è chiaro che una certa consapevolezza c’è sempre, altrimenti Matilde le brioche le mangerebbe tutte nella stessa pasticceria). E c’è la menzogna di sopravvivenza dell’obeso, che inventa malattie per non uscire di casa e non sottoporsi così al giudizio degli altri, inventa furti di documenti per non prendere un aereo sapendo o temendo che non entrerà nel sedile. Volevo quindi insinuare la menzogna nella struttura del libro. E l’ho fatto anche attraverso i continui sbalzi temporali. Matilde confonde i tempi, mescola passato, presente e trapassato nello stesso paragrafo, si contraddice spesso. Perché volevo creare un narratore inaffidabile. Credere a Matilde oppure no? Tutte queste cose che racconta sono successe davvero? A un certo punto Matilde dice “E se vi stessi mentendo anche adesso?” D’altronde la precisione del ricordo, i dettagli, non lasciano dubbi: quelle cose sono successe davvero.

Ma la menzogna di Matilde è anche lo strumento del suo perfezionismo e delle sue insicurezze. Matilde mente sempre. Quando gli amici di famiglia le chiedono di suonare qualcosa al pianoforte e registrarsi per loro, lei – temendo di non essere all’altezza – registra invece un grande pianista, e poi se la ride quando l’amico dei genitori (che amico in realtà non è) ne criticherà la performance perché lui la critica sempre, non sapendo che non è Matilde al piano ma Vladimir Ashkenazy. Matilde mente sulle cose più futili, creando un universo alternativo, un universo migliore, dove tutte quelle cose che le sono accadute, per esempio l’essere stata molestata quattro volte, la prima a tre anni, un’altra dall'”amico di famiglia”, non sono successe davvero. La versione di Matilde, che dice: la mia versione è meglio.

Un’altra sensazione che volevo dare al lettore era quella di trovarsi sulle sabbie mobili. Risucchiato dalla e avviluppato nella realtà di Matilde fino a non potersene più staccare. Volevo portare l’angoscia nella struttura del romanzo, e l’ho fatto anche attraverso le frasi molto lunghe che quasi non permettono di respirare.

E poi ho cercato di replicare nella scrittura del romanzo la bulimia di Matilde, attraverso le continue ripetizioni. Una volta in college lessi un testo di Gertrude Stein, una delle mie autrici preferite, con questa scrittura definita “cubista”, e subito, in un paper che dovevo consegnare su di lei, usai la stessa tecnica. Il divertissement di una studentessa un po’ superba, forse, ma sapevo che un giorno quella tecnica l’avrei recuperata, magari esasperandola, come ho fatto nel mio romanzo. 

 

Tra le varie dipendenze di Matilde, possiamo annoverare anche quella dalla famiglia? “Non superare le dosi consigliate” è anche uno straordinario romanzo sui rapporti famigliari, su come possono essere imprescindibili e dolorosi, complicati e complessi, catena che imbriglia, bavaglio che chiude in silenzio, ma anche nido e rifugio. Matilde potrà contare sul padre e sul fratello nei momenti di difficoltà, soprattutto pratici ed economici più che emotivi e sentimentali; e non avrebbe i successi professionali se non ci fosse il pungolo della ricerca dell’ammirazione materna; non ci sarebbe stato il viaggio in America, senza la presenza del fratello accanto ai genitori. Anche su questo tema costringi il lettore in una posizione scomoda, partecipe e angosciosa. Gli fai vedere e sentire reazioni, sensazioni, comportamenti che di solito si tende a nascondere per convenzione e perbenismo. Relazioni pericolose quelle familiari? E possono essere in qualche modo responsabili delle relazioni sbagliate che Matilde intesse con gli uomini, o invece appartengono a una sfera separata?

RISPOSTA: “Non superare le dosi consigliate” è soprattutto un romanzo sulla famiglia. La fame di Matilde è fame d’amore, la sua dipendenza, dipendenza dall’amore. Tutta la vita di Matilde è una disperata ricerca dell’infanzia, quasi un percorso all’indietro per tornare all’infanzia. Perché anche se l’infanzia di Matilde è stata difficile, distorta, perfino terribile, a volte, è stato anche il momento in cui si è stata più amata, più protetta. Perché l’infanzia è il momento in cui tutti noi siamo più amati e più protetti, in cui altri sono responsabili di noi e noi dobbiamo solo essere amati. E Matilde, con tutto quello che ha passato dopo, lo sa bene. Quello che lei cerca è un amore totale, un amore che solo la famiglia può dare. L’amore totale che chiede al padre e al fratello quando dice “Tutti per uno, cioè tutti per me”. E glielo chiede a discapito delle loro vite personali, non riesce ad accettare, anche a quasi quarant’anni, che il padre abbia una compagna, è felice che il fratello non abbia una compagna. È terribilmente egoista, in questo, e lo sa, ma è anche terribilmente disperata perché ogni volta che ha cercato amore, per esempio dagli uomini, le è stato negato, non solo perché erano uomini sbagliati (uno in particolare malvagio), ma anche perché quell’amore che cerca Matilde, quell’amore totale, nessun uomo, nessun compagno, lo può dare davvero. Sicuramente la famiglia influenza le relazioni che avremo. Matilde cerca l’amore e il conforto che da ragazzina non sentiva più, quando la madre la sferzava e il padre era assente, ma cerca anche delle copie dei propri genitori che non può avere. Cerca di ritrovare suo padre negli uomini e crede di trovarlo in Filippo, simile a suo padre nell’aspetto ma molto più narciso e, si rende conto Matilde, senza i lati positivi del padre. Perché Matilde ha avuto tante storie, ma è anche molto ingenua. E quando incontra Filippo è totalmente impreparata. E con le sue insicurezze, purtroppo, una come Matilde è la vittima prediletta dei narcisi patologici. E così Filippo la distrugge, le asfalta l’autostima, come dice lei. La riduce a una larva d se stessa e lei, accecata, glielo lascia fare, per tanti anni. Anche se poi sarà lei stessa a salvarsi, con una forza e un coraggio grandissimi.

E così Matilde si rifugia nell’unica cosa che le dà quel conforto: il pane. Il pane che, dice Matilde, non tradisce se sai dove prenderlo. Mentre gli uomini sì che ti tradiscono, la famiglia ti tradisce quando il padre e il fratello cercano altre relazioni che non includono Matilde o il ricordo della madre. Il pane invece non ti tradirà mai.

L’epigrafe di “Non superare le dosi consigliate” è “In tutto c’è stata bellezza”, la frase che dà il titolo all’edizione italiana del romanzo di Manuel Vilas e che per me è la più bella definizione di famiglia mai scritta. “Ci farebbe bene”, dice Vilas, “scrivere delle nostre famiglie, senza nessuna finzione, senza romanzare. Solo raccontando ciò che è successo, o ciò che crediamo sia successo”, ed è quello che ho fatto nel mio romanzo, che stavo scrivendo quando ho letto il suo. E pur se estremamente diversi, ho ritrovato nel suo parte del mio. Il fatto, per esempio, che i legami con la famiglia continuino a sostenerci e a definirci anche quando sono apparentemente allentati o interrotti. Perché nelle famiglie si può litigare, ci si può allontanare, ma alla fine è lì che torni, che devi tornare (“La famiglia è un elastico”, dice Matilde). Come dice Robert Frost, che cito nel romanzo: la casa è il posto dove, se ci devi andare, ti devono accogliere. E alla fine, quando fai il bilancio, come lo fa Matilde, in tutto c’è stata bellezza. Le famiglie sono bellissime, sono organismi vivi, disfunzionali ma bellissime nelle loro imperfezioni, nelle loro unicità.

Questo romanzo è molto crudo, eppure, come dico sempre, non c’è un’oncia di rabbia. Matilde è quasi accecata dall’amore per sua madre, vuole diventare esattamente come lei, quando, aiutata dalla psicoterapeuta, ne inizia a scoprire le imperfezioni non ci crede, non si capacita. Soprattutto, se la Matilde bambina piange perché la madre la chiama “ingorda” e (quando Matilde capisce che non è un vezzeggiativo come la madre voleva farle credere) “cretina”, quando la madre si rifiuta di dirle che è anche lei una bella bambina, facendola sentire diversa, sbagliata, quando le dà i lassativi che la fanno stare male ogni notte, la Matilde adulta capisce che dietro quei comportamenti c’era moltissimo dolore, il dolore che la madre gridava mettendo in bella mostra i lassativi sulla mensola della cucina, e vomitando nuda tre volte al giorno davanti ai bambini spaventati in un bagno senza porte, quel dolore che da bambina Matilde non poteva capire, poteva solo essere spaventata per la mamma. Matilde sa tutto ciò a cui la madre ha rinunciato, ne sente il peso su di sé, nel continuo spronarla della madre a diventare qualcuno, diventare tutto quello che lei avrebbe voluto e non era riuscita a diventare perché da donna degli anni Sessanta aveva dovuto mettere al primo posto la famiglia. E Matilde sa anche quanto questi genitori per certi versi imperfettissimi – perché nessuno t’insegna a diventare genitore – in realtà le abbiano dato, e quanto abbiano fatto per lei, impoverendosi per mandarla a studiare in un’università importante degli Stati Uniti, per esempio, e spingendola sempre a migliorarsi per avere una vita migliore di quella che hanno avuto loro, che a vent’anni avevano dovuto superare moltissimi ostacoli. Ecco, Matilde mette tutto questo sulla bilancia e sa che i genitori hanno fatto davvero tutto il possibile per lei, ed è riconoscente. 

 

Matilde mette sulla bilancia anche il suo corpo… E le sue amicizie. Non le importa perdere l’amicizia di Hilda, su minaccia della madre la signora Ulrika, nella sua fase anoressica. L’importante è essere magri. Magrezza e grassezza, le amicizie si selezionano in base alla taglia. Ma il corpo passa per la percezione che gli altri ne hanno, più ancora che per la propria percezione di sé. Matilde si è mai sentita magra? Si è mai sentita bene con il suo corpo? Perché magrezza e obesità in lei sembrano simili. Un urlo per gli altri e un modo per accomodare il proprio corpo a quello che gli altri vedono. Ma Matilde come si vede e come desidererebbe essere?

RISPOSTA: Obesità e magrezza estrema sono simili. Anche nel disturbo: anoressia e binge eating (il disturbo delle abbuffate incontrollate di cui l’obesità è una conseguenza) sono facce della stessa medaglia. L’anoressico, proprio come il binge eater, è ossessionato dal cibo: pensa tutto il giorno a ciò che mangerà. Ma il cibo è sempre un mezzo, non l’obiettivo. La nostra fame è fame d’amore. Il disturbo è un grido di dolore, una richiesta d’amore e d’attenzione. Anche il lassativo, che diventa il centro della vita di Matilde, è un mezzo. Per lei, bulimica figlia di una madre bulimica che ama moltissimo, smettere di prendere i lassativi non è proprio concepibile, perché equivarrebbe a tradire sua madre. Matilde è sempre figlia, e lo è moltissimo nel disturbo.

Matilde ha una percezione molto distorta di sé. L’ha sempre avuta. Il primo fat shaming è in famiglia, ed è in famiglia che Matilde impara che il suo corpo “non va bene”, che non è “normale”, che è ingorda e abulica, come la rimprovera sua madre con tanti punti esclamativi. Il primo esempio, positivo o negativo, è in famiglia. In famiglia prima ancora che a scuola. Vero, le prime amicizie non aiutano: la sorella della migliore amica di Matilde le dice sempre “Sei brutta, però sei simpatica”, e questo contribuisce alle insicurezze di Matilde, ma il primo modello è sempre in famiglia. E anche se non siamo figli per sempre, anche se, come Matilde stessa dice, c’è un limite oltre il quale non possiamo più dare la colpa ai nostri genitori di quello che ci accade, la famiglia ha un enorme potere, un’enorme influenza nel formare la percezione di sé di un bambino, il rispetto di sé, l’accettazione di sé. Matilde ha una madre – una madre che chiaramente non sta bene, ma Matilde non lo sa, né allora, negli anni Settanta, dei disturbi alimentari, che sono disturbi mentali, si parlava mai – che, quando la bambina le chiede se è bella, perché le hanno detto che agli occhi delle mamme i propri figli sono i più belli del mondo, le risponde che sono solo stupidaggini, così Matilde si convince di essere brutta. Una mamma che le dà i lassativi, a cena fa per lei porzioni diverse da tutti gli altri, le nega gelati e merendine e si raccomanda con la bambinaia di non dargliene. Non serve essere Freud per sapere che se neghi una cosa a un bambino, quello vorrà proprio quella cosa, e infatti Matilde elemosina biscotti e merendine a scuola, a casa li prende di nascosto sentendosi in colpa, tanto che sogna sempre che la madre le faccia tagliare la mano. La mano, il polso. Quel polso che la madre di Matilde confronta con quello della sua bambina rallegrandosi, quasi in una rivalsa, di averlo più piccolo. Nella sua malattia, la madre di Matilde non si rende conto della propria crudezza, della propria ferocia.

E poi la madre la chiama cretina. La madre, che ha tutte queste aspettative per Matilde, per la carriera di Matilde, che quando Matilde ha tre anni le insegna Dante, le fa imparare l’Eneide a memoria in latino, l’Iliade a memoria in greco, quasi a dire, in un gioco perverso, che è la testa la cosa più importante, non il fisico, contemporaneamente la chiama cretina. Prima in modo affettuoso, poi, quando sposterà le attenzioni sul fratellino di Matilde, in modo sempre più duro. Questa madre, che non riesce mai a dire a Matilde quanto le vuol bene, che la sferza sempre e si prende gioco di lei: Matilde cresce pensando di essere brutta e cretina. Di essere sbagliata in tutto. La persona più sbagliata del mondo, se neanche i suoi genitori riescono a dirle che è bella, che è brava, che è amata. Che è tutto ciò che una bambina vuole sentirsi dire.

La percezione distorta che Matilde sviluppa di sé da bambina se la porterà dietro per tutta la vita, e quella percezione le impedirà tante cose, tra cui ad esempio la ricerca di relazioni sane. 

Chiacchierando con… Costanza Rizzacasa d’Orsogna