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In uno dei posti da cui ti ho risposto in questi giorni, in treno (che è anche uno dei miei posti preferiti), oppure nella lavanderia self service dove attendevo si asciugassero i piumoni invernali. 

Perchè comincio dalla fineL’immagine di me e Ginevra Lamberti davanti all’ipnotico movimento circolare di un gigantesco oblò pieno di colori, mentre chiacchieriamo di “Perché comincio dalla fine” con il quale la scrittrice veneta è tornata nelle librerie, mi sembra particolarmente pertinente.

Mi avevi già spiazzata con “La questione più che altro”, il tuo esordio narrativo nel 2015, non solo per il connubio tra la questione lavorativa e il tema della morte, ma anche per la novità sorprendente della voce e del ritmo narrativo. 

Torni a farlo con “Perché comincio dalla fine”, il nuovo libro per Marsilio.

Come lettrice affascinata dalla tua scrittura ti ritrovo tutta intera in questo nuovo romanzo, ma anche cresciuta.

I due perni della narrazione rimangono inalterati rispetto a “La questione più che altro”: la precarietà della tua generazione e la morte. Ma in “Perché comincio dalla fine” è come se tu avessi ulteriormente innalzato l’asticella. Se già nel precedente romanzo l’autobiografismo spingeva per raccontare l’universale, il senso del dolore e della precarietà insito nella vita umana e nella condizione dei nostri tempi, in “Perché comincio dalla fine” si parte da questa intenzione e la si supera, in una visione generale della morte non più ancorata al dolore, ma che si apre alla vita, al modo e al senso che possiamo darle. Come se fosse una questione di caratteri: nel primo romanzo la vita e la morte erano in minuscola, indagati nell’esperienza esistenziale della protagonista; in “Perché comincio dalla fine” la vita e la morte sono analizzati in maiuscola nelle esperienze diverse che si descrivono nel libro, che ci mostrano della morte una visione a suo modo inedita.

Il romanzo mi sembra proceda in climax, innalzando o forse meglio inspessendo la cognizione della morte che diviene sempre più ancoraggio alla vita.

“Perché comincio dalla fine” può essere considerato in un certo senso un sequel di “La questione più che altro” o invece nelle tue intenzioni sono due libri ben distinti?

SONY DSCGrazie dell’analisi puntuale. “Perché comincio dalla fine” non è stato concepito, nelle intenzioni iniziali, come un sequel, ma fin dalle prime pagine ha iniziato a configurarsi come un ibrido che pescava elementi/argomenti accennati ne “La questione più che altro” espandendoli fino a renderli qualcosa di  nuovo e autonomo (come la diamantificazione, la sepoltura biodegradabile, il piccolo cimitero sulla collina, per citarne solo alcuni). 

 

La questione più che altro è perché comincI dalla fine?

Se già il titolo del romanzo precedente aveva una sua carica piena di suggestioni, il titolo del nuovo racchiude in sé con grande forza il nervo scoperto della tua indagine, intesa nel senso più proprio del termine perché il romanzo è una vera e propria ricerca delle esperienze e delle scelte che riguardano la fine della vita, e che culminano nella death  education, che mi appare un approdo e una soluzione dell’indagine stessa. 

La situazione a volte è paradossale, perché da un lato è un tema ampiamente rimosso, eppure quando poi parli di morte hai un riscontro che è quasi certo. Lo vedi negli eventi, nelle serie TV, nei film, nella musica: è un tema che ha un’attrazione tangibile e sta in un certo senso esplodendo.

Poi d’altro canto sulla death education le lacune sono enormi, molte persone non conoscono le cure palliative, non conoscono la legge 38 del 2010. Noi facciamo convegni in ospedale, o negli hospice, anche per informare e sensibilizzare su questi temi.

Oggi è tutto diverso rispetto al mondo in cui noi due siamo cresciuti, ma non lo diciamo con rimpianto. Adesso storicamente siamo nella fase dell’invenzione. Veniamo da qualcosa di tradizionale, forte, unitario, e davanti a noi abbiamo tante possibilità che ci stiamo inventando pur di superare le cose che ci creano angoscia.

Abbiamo pensato che questa fosse la strada, quella di non far più finta di niente, e di cercare di coinvolgere le persone in una condivisione comune, una cosa importante soprattutto in una società individualistica che ti lascia poco spazio per pensare all’altro.

Sono le parole in “Perché comincio dalla fine” di Maria Angela Gelati e Marco Pipitone, ideatori, direttori e curatori della rassegna Il Rumore del Lutto che da 13 anni si svolge a Parma e che ha trovato spazio sul blog grazie allo zaino di Antonello Saiz, libraio dei Diari di bordo, la libreria indipendente di Parma di cui parli anche nel libro. L’ultimo incontro, dei tanti, raccontati nel romanzo.

SONY DSCLa questione più che altro è un percorso che non si è concluso così come non si conclude una vita fintanto che è. In questo senso “Perché comincio dalla fine” è sia un progetto a sé stante che un modo di provare a rispondere a domande che erano rimaste sospese. 

Lo sviluppo della stesura di questo secondo libro è stato sorprendente anche per me e in qualche modo autonomo, come avesse vita propria.

Mi spiego. Quando ho iniziato questa ricerca, partendo da realtà che già conoscevo come Taffo funeral services, Capsula Mundi e Boschi Vivi, è poi accaduto che di persona in persona, di parola in parola, andassero aprendosi nuove porte su nuove realtà. È anche così che sono approdata alla Death education e alle sue protagoniste e protagonisti. Un universo in cui persone con formazioni filosofiche, storiche, psicoterapeutiche e psicologiche mi hanno dato l’occasione di far culminare il libro con contributi e riflessioni che fornissero delle risposte ad alcuni miei perché. Primo fra tutti il perché sia urgente tornare a parlare di morte in modo comunitario. 

 

All’interno di questa ricerca sul senso della vita a partire dalla morte, c’è il tuo protagonismo, se così possiamo definirlo. E ancora una volta il tema del lavoro e della precarietà, non solo professionale ma abitativa, sentimentale e persino di orizzonti. Ginevra di “Perché comincio dalla fine” ha trovato un’occupazione, anche se non ha la percezione vera che sia una professione: affittare stanze ai turisti a Venezia, quelli che lei chiama con una definizione icastica pellegrini globali. 

Prima di procedere col punto principale del paragrafo, ovvero un quadro, ovvero il quadro, volevo dire che questa potrebbe essere interpretata come la narrazione di una situazione frustrante che fotografa alla perfezione il disagio dei trentenni di oggi, ma il fatto è che a me fare le pulizie tutto sommato piace. Nello specifico mi piace avere a che fare con oggetti inanimati rispetto ai quali posso considerare di avere responsabilità limitate. A volte mi piace anche andare a prendere la gente, che è una cosa in contraddizione con la predilezione per gli oggetti inanimati, ma tutto sommato un’altra cosa che mi piace fare è variare.

Le protagoniste o la protagonista dei tuoi romanzi è la fotografia dei trentenni di oggi?

SONY DSCTendo a diffidare delle fotografie generazionali, sono sempre parziali, appiattiscono, non considerano che tra persone e gruppi sociali ci sono differenze enormi (territoriali, famigliari, di formazione, economiche…) che sono anche ricchezza e fanno la molteplicità potenziale delle narrazioni. 

Il mio può essere considerato un pezzo di puzzle in questo quadro complessivo che auspico possa essere sempre più vario.

 

Quello che mi convince e affascina nella tua scrittura è  la capacità  di sdrammatizzare senza mistificazioni. Un’ironia gentile, mai corrosiva, sempre empatica che si poggia quasi sempre sulla protagonista e voce narrante e le esperienze e stati d’animo che la riguardano piuttosto che sugli altri.

Quando esco dalla sala il telefono ricomincia a squillare e a volte non è il lavoro. Succede, per dire, che squilla il telefono ed è Nicola, che non sento da tanto, che a onor del vero non sento quasi mai, ma a volte stai camminando e lui ti sbuca davanti con una macchina fotografica e fa clic. Mi dice sono qui con Giovanni e parlavamo del fatto che domani sarai a Milano per fare delle cose. Perlustro palmo a palmo gli angoli residui di memoria a breve termine, erosi dagli aperitivi e dall’antiproibizionismo. Non trovo niente alla voce Milano, niente neanche alla voce fare cose che non siano pulire appartamenti turistici e consegnare chiavi. Al che dico a Nicola: Nicola, per favore, puoi chiedere a Giovanni di preciso cos’è che devo fare a Milano domani? E Nicola dice te lo passo, e Giovanni con la sua voce convincente, nel senso che è molto bassa, quindi ti concentri bene per capire quello che dice, al punto che poi credi sempre a quello che dice, mi dice domani sei in visita al cimitero Monumentale, l’ho visto su Facebook.

Io allora sospirando di grande sollievo gli dico Giovanni, Nicola, amici cari, voi non dovete guardare mai le mie partecipazioni agli eventi di Facebook, perché appongo la mia partecipazione a qualsiasi cosa, al fine di depistare dal fatto che, in prevalenza, è da un po’ di anni che tendo a chiudermi in casa.

Però, aggiungo, però, c’è da dire che a Milano in effetti dovrei riuscire a recarmici tra due o tre settimane, al fine di intervistare quelli che vogliono seppellire la gente chiudendone le spoglie in un uovo biodegradabile ma non possono ancora perché in Italia è illegale. Dopo un attimo di prevedibile silenzio mi dicono va bene dai, magari poi quando ci vediamo ci spieghi.

L’ironia ci salverà o la bellezza (di una città come Venezia, per esempio)?

SONY DSCCredo che se c’è una salvezza quella viene dalle persone, dall’incontro con l’altro da sé. La bellezza di una città non basta se siamo isolati, e anche l’ironia, non fosse per gli altri, non saprei dove andare a pescarla. Forse anche per questo era importante che un libro sulla fine fosse, tra le altre cose, un libro che chiamava in causa molte voci.

 

Ho però un sistema di blocco collegato alla paura che la scrittura, così come qualsiasi altra forma di espressione creativa, abbia un potenziale proiettivo privo di utilità pratica. Ovvero la scrittura, al pari di qualsiasi altra forma di espressione creativa, mettendo insieme logica e astrazione, può aiutarci a vedere cosa succederà un passo avanti sulla linea temporale così come noi la percepiamo, ma non può aiutarci a cambiare l’inevitabile. Questo mi deprime, e scoraggia, ma è comunque molto meglio di quando avevo paura che fosse la scrittura in sé a far succedere le cose, perlopiù tremende.

Per concludere questa nostra chiacchierata: cos’è la scrittura per Ginevra Lamberti? Quando hai iniziato a scrivere? È cambiata la percezione della tua scrittura con la pubblicazione? 

SONY DSCHo iniziato a scrivere quando ho imparato a scrivere. Banalmente alle scuole elementari con i primi pensierini, testi e temi. In quel momento ho intuito di essere una persona pigra, e che quelle cose là mi riuscivano meglio di altre e con minore sforzo. La mia percezione è cambiata nel senso che quando una pratica diventa anche un lavoro richiede un carico di responsabilità e, in certa misura, di fatica. Poi sto imparando a superare la superstizione, l’idea tra il primitivo e il mitomane che scrivere le cose equivalga a crearle. Cos’è la scrittura per me è difficile dirlo perché è un’idea che è cambiata tante volte. A un certo punto è stata anche un ponte sociale, un modo di connettermi con le persone e di avvicinarle in quell’età adolescenziale e post-adolescenziale in cui comunicare verbalmente mi riusciva complicato. Adesso che non mi serve più in questo senso e che, come accennavo, sto superando la fase dell’averne timore, mi rimane il fare ordine. Io sono davvero molto disordinata, non capisco come collocare le cose nelle tre dimensioni in un modo che sia poi sotto controllo e non esploda in palle di oggetti sparsi in giro. In compenso se non metto in ordine gli eventi e le suggestioni che mi offre questa cosa strana intorno chiamata realtà, se non lo faccio in un modo che mi restituisca un’idea minima di senso, non ho pace. Scrivere mi serve ad avere pace quando ho finito di scrivere. 

Chiacchierando con… Ginevra Lamberti
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