Dieci buoni motivi

di Giulio Mozzi

Giulio Mozzi

per NON leggere l’Oracolo manuale per scrittrici e scrittori, di Giulio Mozzi, illustrato da Lise & Talami, pubblicato da Sonzogno Editori.

Oracolo per scrittrici e scrittori

Uno. «Oracolo» sta, secondo il Tommaseo-Bellini (Dizionario della lingua italiana, 1865-1874, s.v.), per «risposta che i Pagani credevano di ricevere dai loro dei» o – in senso traslato – per «verità infallibile». Ma: che si pretende, questo Giulio Mozzi qua? Crede forse d’essere un dio, o un semidio? Dalle fotografie, peraltro, non lo si direbbe un Adone.  E come può arrogarsi di propinare verità, udite udite, addirittura infallibili? Certo, certo, dirà qualcuno, anche il Tommaseo-Bellini registra l’uso ironico della parola («Senti senti! Ha parlato l’oracolo!»), ma – come dire? – uno scherza, scherza, fa vista di scherzare, ma intanto intanto la parolina «oracolo», l’idea e il concetto di «verità infallibile», l’ha mandato avanti. Basta prendere l’ironia come una litote: vi dico che sono un oracolo per farvi intendere che scherzo, che so di non essere un oracolo, ma intanto che sono un oracolo ve l’ho ben detto… Ah, come sono terribili, questi falsi umili!

Due. Quest’Oracolo è «manuale», e non si capisce nemmeno, a prima vista, se la parola sia da intendersi come aggettivo o come sostantivo (e quindi apposizione di «oracolo»). Se sarà aggettivo, «manuale» varrà per «tascabile» o «portatile», o più esattamente «che sta in una mano». Se sarà sostantivo, ascoltiamo ancora il Tommaseo-Bellini, s.v.: «Titolo che si dà a certi libri e compendii, per annunziare che se ne dee far uso frequente, e averli sempre, per così dire, alla mano». Ed ecco che alla seconda parola del titolo vediamo ripetersi il gioco già attuato nella prima: un’apparente professione di umiltà (libro piccolo, che sta in tasca ecc.) e l’arroganza di proporsi, alla fin fine, come libro indispensabile: da consultare al bisogno, sì, ma il cui bisogno sarà frequente.

Tre. Peraltro il titolo, come ammette l’autore stesso nelle pagine introduttive (e: giocoforza, non si può non ammettere ciò che è sfacciato) è copiato di brutto da quell’Oráculo manual y arte de prudencia che il gesuita (brr!) Baltasar Gracián pubblicò nel 1647 (sotto un trasparentissimo, e a dire il vero imprudentissimo, pseudonimo). Per carità: l’imitare o il copiare un titolo è attività ormai depenalizzata per eccessiva frequenza del reato (pensate a cos’è successo al titolo Cronaca di una morta annunciata di Gabriel García Márquez, milioni di volte più o meno pedissequamente ripreso), ma per andarsi a cercare un libro del Seicento, e spagnolo, e scritto da un gesuita (brr!), bisogna mettersi d’impegno. E in realtà l’Oracolo di Gracián è semplicemente un capolavoro, uno dei libri più influenti nella cultura spagnola, paragonabile ai nostri Principe (di Machiavelli) o Cortegiano (di Castiglione: che oggi non si fila più nessuno, se non per motivi di studio, ma che all’epoca fu lettissimo e tradottissimo). Come dire: faccio un romanzo, e lo chiamo, boh, qualcosa come I miserabili o Delitto e castigo.

Quattro. E poi: ‘sti cactus! Ma che cactus c’entrano, ‘sti cactus? Vabbè: «scrivere è una faccenda spinosa», dice l’autore; ma, al di là dell’ardita metafora: cactus che scrivono, cactus che si suicidano gettandosi nel cesso, cactus che si scompongono e ricompongono, cactus che scopano di brutto, cactus che si nascondono nell’oscurità, cactus dal cui fusto sbucano chele o martelli, cactus matrioska che contengono altri cactus che contengono altri cactus, cactus che proliferano senza ritegno e invadono pagine e pagine, cactus mutanti, cactus matematici, cactus tabellari, cactus in diffrazione. Capisco che agli illustratori debba essere lasciata una certa qual libertà; capisco che un lavoro d’illustrazione troppo didascalico rischia di risultare stucchevole e nella sostanza inutile: ma questi Lise & Talami (si sono pure messi in due!) hanno veramente esagerato. D’altra parte, bastava andare a vedere il loro strampalato romanzo a fumetti di recente pubblicazione, e pure (non c’è più religione!) qua e là premiato, Il futuro è un morbo oscuro, dottor Zurich!, BeccoGiallo, per capire che affidandosi a loro non ne sarebbe venuto fuori niente di buono.

Cinque. E comunque: di libri che pretendono d’insegnare a scrivere sono piene le librerie. Lo stesso Mozzi, per dire, è colpevole di averne sfornati almeno altri cinque, se non sei: Parole private dette in pubblico (Theoria 1997, Fernandel 2001), Lezioni di scrittura (Fernandel 2002), (non) Un corso di scrittura e narrazione (Terre di mezzo 2009), Ricettario di scrittura creativa (Theoria 1997-1998, in due volumi; Zanichelli 2000 in volume unico), L’officina della parola (Sironi 2015): questi ultimi due in collaborazione con Stefano Brugnolo, docente di Letterature comparate presso l’Università di Pisa. E non contiamo i Consigli tascabili per aspiranti scrittori (Terre di mezzo 2011) solo perché, in realtà, è una miniguida su come muoversi nel temibile e pericolosissimo mondo dell’editoria: e di scrittura e narrazione non tratta. E dunque: siamo davvero sicuri che la materia, il raccontare storie, e scriverle bene, meriti non uno e non due e non tre ma addirittura cinque libri? E: il Nostro, anziché sparpagliare il suo sapere in una due tre quattro cinque pubblicazioni sparpagliate negli anni, non poteva mettersi tranquillo, aspettare la vecchiaia, e darci poi al momento buono un libro completo, maturo, e definitivo?

Sei. «Chi non sa fare, insegna», dice un malevolissimo proverbio. Ma il Mozzi, ahimè, qui è proprio l’asino che precipitevolissimevolmente cade: perché lui, che pretende d’insegnare a scrivere romanzi, lui, di romanzi, non risulta averne pubblicato nemmeno uno. Racconti finché si vuole, strani libri tra l’inchiesta e il collage, antologie, addirittura due diconsi due libri in versi: ma romanzi, zero via zero zero. In verità, chi avesse frequentato il suo blog vibrisse, in altri anni floridissimo e oggi, a dire il vero, un tantinello diradato, avrebbe scoperto che il Mozzi un suo romanzo, un romanzo suo, s’è per anni e anni attentato a scriverlo. Ma – a quanto pare – non c’è riuscito. O, se c’è riuscito, niuno gliel’ha voluto pubblicare. Diciamola tutta: accettereste consigli di bevuta da un vinaio astemio?

Sette. Ma apriamolo dunque, questo Oracolo manuale per scrittrici e scrittori, scritto dal Mozzi e pubblicato da Sonzogno. Apriamolo: senz’ombra di pregiudizio, come chi abbia letto fin qui avrà potuto apprezzare. Apriamolo: e che cosa ci troviamo dentro? Innanzitutto, un sacco di pagine bianche. Oibò, bianche: con dentro una frasetta, talvolta di tre sole parole, o una parola sola, scritta bella in grande; ma in somma, pagine al 90% bianche. Queste le destre, quelle che se l’editore si fosse degnato di numerarle (ma, evidentemente, hanno tirato al risparmio anche su questo) avrebbero portato il numero dispari. Nelle sinistre, o pari, un commentino per lo più risicato, in teoria spiegativo, spesso in realtà più enigmatico del breve motto che pretende di commentare, spesso accompagnato, talvolta addirittura sostituito da un cactusiano disegnino. Sarà così che s’insegna a scrivere? Scrivendo un libro con dentro così poche parole?

Otto. E Manzoni, santi numi! Manzoni dappertutto! Manzoni portato a esempio di tutto e di qualunque cosa! Manzoni buono per tutte le occasioni, Manzoni in salsa postmoderna o modernistica o romantica o classica o showdontellistica! Manzoni di qua, Manzoni di là, tutti lo cercano, tutti lo vogliono… In una delle ultime pagine, addirittura, la massima oracolare recita: «Leggere I promessi sposi è necessario, ma non sufficiente». Nulla abbiamo contro il Manzoni, autor d’un romanzetto che tutti leggono punitivamente a scuola (e chissà se era proprio questo ciò che il pover’uomo sperava); e tuttavia, in questo mondo pieno d’immagini, di serie televisive, di cinema, di musica, di videoclip, di romanzi che ormai non hanno più niente del romanzo, di narrazioni che si contaminano, di media che si intermediano, di libri che si smaterializzano, in questo mondo del 2019, proprio del Manzoni andava asserita la necessità? A meno che – ed è un sospetto del quale quasi abbiamo vergogna, tanto ci pare assurdo ed esagerato, a meno che il Mozzi, non sapremmo dire se per scelta, o per limite, o per monomaniacalità, non sia veramente un homo unius libri, un uomo che ha letto un libro solo.

Nove. «I personaggi non esistono. Esistono le relazioni tra i personaggi». «Tu non sei necessario alla tua storia: il tuo lettore sì». «Domandati se la tua storia è utile alla vita». «Prova a scrivere la tua storia come se l’avessi sentita raccontare da uno che non la sapeva bene». «Separa gli avverbi dai verbi e gli aggettivi dai nomi; oppure scambiali di posto». «Togli tutta la punteggiatura; poi rimetticela». Di tal fatta, e di tal peso, e di tale sostanza, sono gli oracoli dell’Oracolo. Si avrebbe gioco facile a sostenere che il celebre e ambiguissimo Ibis redibis non morieris in bello era, alla fin fine, un oracolo ben più chiaro e distinto ed esplicito (per chi non sapesse il latino: può significare sia «Andrai in guerra, morirai, non tornerai», sia «Andrai in guerra, non morirai, tornerai») nel suo rispondere, al soldato che partiva per una campagna militare e voleva sapere se ne sarebbe tornato vivo: «Cazzi tuoi. Hai voluto fare il soldato, no? Affronta dunque l’incertezza». Che razza di romanzo guidi a scrivere questo Oracolo che fa finta di non essere un manuale, non è dato capirlo. C’è da dubitare che ce l’abbia, l’autore, un’idea di romanzo, in quella sua cactusissima testolina.

Dieci. Se nove buoni motivi per non leggere questo libro non vi bastano, vuol dire che siete proprio dei testoni. E vabbè: buttate via i vostri sedici euro, e prendetevela poi solo con voi stessi se, alla fin fine, vi ritroverete a dirvi: «Eh, insomma, un libro come questo lo sapevo scrivere anch’io». Il punto è che il Mozzi non ha solo saputo scriverlo: l’ha proprio scritto, e ha convinto un editore, e ve l’ha pure venduto. ’Sto libro. Giuggiolo

Dieci buoni motivi per non leggere “Oracolo manuale per scrittrici e scrittori”
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