di Andrea Cabassi

Andrea Cabassi

 

 

 

 

 

DAGLI ARCHIVI DI FAMIGLIA AGLI ARCHIVI STORICI

Recensione al libro di Martin Pollack

“Il morto nel bunker. Indagine su mio padre” (Keller)

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In un suo saggio del 1908, “Il romanzo familiare dei nevrotici (Boringhieri. 1981- Vol.5),  Sigmund Freud analizza le fantasie consce e inconsce che portano  i pre-adolescenti e  gli adolescenti, poi i nevrotici  a ricostruire le origini storiche delle loro famiglie, creandosi, spesso, origini aristocratiche e nobili che non hanno nessun riscontro con la realtà. Il lavoro psicoanalitico può essere di grande utilità a scardinare queste false credenze anche se si tratta di un percorso accidentato, fatto di resistenze e rimozioni. Un difficile percorso perché, sovente, le false credenze si sono trasformate in ricostruzioni mitiche, in miti di famiglia, come li hanno chiamati i terapeuti familiari. Ricostruzioni e fantasie che sono alimentate da silenzi, non detti, reticenze, lacune nelle narrazioni da parte dei membri della famiglia, strane atmosfere che circondano gli eventi e che sono stata studiate, in particolare da psicoanalisti di lingua francese come Kaes e colleghi in “Trasmissione della vita psichica tra le generazioni” (Borla. 1995), Nicholas Abraham e Maria Torok in “La scorza e il nocciolo” (Borla. 1993). Sono quei silenzi e quelle reticenze che possono nascondere segreti di famiglia e che possono trasformarsi in gravi patologie che attraversano le generazioni come ha dimostrato un altro psicoanalista francese, Serge Tisseron in “Secrets de famille: mode d’employ” (Marabut. 1997)  e in “Lo psichismo alla prova delle generazioni, scritto in collaborazione con altri colleghi (Borla. 1997).

Ho tanti bei ricordi delle attività che ho svolto nelle strutture psichiatriche per circa quarant’anni ma, forse, il ricordo più bello è quello di Simposio che si svolse tra Losanna e Montreux nel settembre 1997 e che aveva come titolo: “Symposium Filiations Psychiques”. Era incentrato sulla trasmissione inter e trans generazionali delle patologie psichiatriche ed erano presenti i maggiori psicoanalisti internazionali che si interessavano di queste tematiche. Io, che non ero certo tra gli psicoanalisti maggiori, ci mancherebbe altro, presentai una relazione che, comunque suscitò molto interesse: “L’archive familiale disseminé et la transmission intergénéretionnelle”. La mia tesi era che la casa, le stanze, gli armadi, le cassapanche le vecchie foto, i documenti, gli oggetti che sono esposti nella casa o tenuti nascosti sono un archivio, un archivio della famiglia e disseminato tra camere, sale, saloni, cassetti. Quando nasciamo è in questo mondo che siamo gettati, un mondo dove presto nasceranno le narrazioni dei genitori, un mondo, quello della casa, in cui respiriamo atmosfere e dove aleggiano ricordi e segreti di famiglia. Se non riusciremo a ricostruite una trama, per quanto possibile veritiera, se non riusciremo a svelare, nel corso del tempo, segreti particolarmente pesanti che si sono incriptati  negli interstizi delle narrazioni, correremo il rischio di cadere nella psicopatologia. In questa mia ricerca vi è un elemento autobiografico e realmente vissuto.  Avevo percepito nella mia famiglia estesa silenzi e reticenze su determinati argomenti, atmosfere  rarefatte, argomenti su cui mi sembrava ci fossero segreti. Chiesi di foto che avevo casualmente trovato senza risposte soddisfacenti, chiesi di oggetti che erano stati ereditati e che avevano una loro lunga storia, cercai di farmi narrare episodi ed eventi su cui c’erano versioni diverse. Cercai di comprendere, interrogai, andai negli archivi comunali e in altri archivi. Scopersi che due prozii erano emigrati in Argentina, forse per sfuggire alle persecuzioni, politiche, forse perché, in quella terra, andarono a cercar fortuna. Di loro non si seppe più nulla. Scopersi che mia nonna materna, che io non ho mai conosciuto, era stata ricoverata in manicomio con una diagnosi che, in realtà, aveva a che fare con problemi neurologici e che, probabilmente, era peggiorata durante i bombardamenti che si abbatterono su Parma nel 1943. Scopersi che una zia paterna era stata ricoverata in ospedale psichiatrico con una  diagnosi severa. Erano argomenti di cui, in casa,  di cui si accennava soltanto o si cercava di non affrontare. Non fu facile fare una simile indagine che mi aveva trasformato in una specie di strano detective, m fu di grandissima utilità sia per dipanare la trama della storia familiare, sia per la mia professione.

Tutti questi elementi autobiografici e teorici per quello che concerne la psicoanalisi  si sono affollati nella mia mente e non mi hanno più abbandonato alla lettura di quello straordinario gioiello che è “Il morto nel bunker. Indagine suo mio padre” di Martin Pollack, tradotto da Luca Vitali, e pubblicato da Keller (Keller. 2018). Dobbiamo ringraziare Keller per averci reso di nuovo disponibile questo libro che era uscito in Italia per la prima volta, con la medesima traduzione, nel 2007, da Boringhieri. Tra l’altro Keller ha pubblicato due altri libri molto importanti e belli di Martin Pollack: nel 206 “Paesaggi contaminati. Nel 2017 “Galizia”. Martin Pollack ha studiato slavistica e storia dell’Europa Orientale, è traduttore dal polacco e, per i suoi reportage e i suoi libri, ha ottenuto numerosi  riconoscimenti.

Il sottotitolo di “Il morto nel bunker” è “Indagine su mio padre”. Non è un caso. Di una vera e propria indagine si tratta ed è, per certi versi, simile a quella che condussi io sulla mia famiglia estesa, anche se quella di Pollack è drammatica, tragica e la storia della sua famiglia incontra la grande Storia in un periodo cruciale per le vicende europee.

Tutto ha inizio con il ritrovamento di un cadavere. Il 6 aprile 1947 viene ritrovato dalla moglie di un ferroviere, in un bunker al confine tra Austria e Italia, al Brennero,  il cadavere di un uomo. Ha un documento di identità per Volksdeutchen (che erano gli immigrati tedeschi provenienti dai paesi ad est della Germania) a nome di Franz Geyer, operaio della località slovena di Krsko, in tedesco Gurkfeld. Non ci vuole molto per scoprire che quella non è la vera identità del cadavere. Sulla parte interna del braccio sinistro, tra la spalla e il gomito ha un tatuaggio e cicatrici sul volto: sono le Schmisse, cicatrici tipiche che si procuravano con i loro duelli i membri delle Burschenschaften, organizzazioni conservatrici e nazionaliste della gioventù universitaria tedesca. Ben presto il cadavere viene identificato. Si tratta dell’austriaco dr.  Gerhard Bast, Sturmbannfuhr delle SS, nato il 12 gennaio 1911 a Gottschee, in Jugoslavia, residente a Amstetten, nell’Austria inferiore, ricercato dalla polizia  federale di Linz perché capo della Gestapo di Linz e criminale di guerra.

E’ il padre dell’autore anche se Martin non porta il suo cognome perché è nati fuori dal matrimonio, un punto sul quale tornerò più avanti.

Dal ritrovamento del cadavere e dalla sua identificazione prende avvio l’indagine attraverso viaggi, racconti di famiglia, consultazione di fotografie (che corredano anche il libro) disseminate negli archivi di famiglia, nelle casa dei nonni paterni, nella casa della madre. E ancora ricerche negli archivi storici di varie città. Sempre con l’intento di rispondere alla domanda: chi era Gerhard Bast? Perché era diventato nazista? Aveva davvero commesso dei crimini? Se sì, quali?

Un’indagine che lo porterà ad indagare anche sui nonni, sul nonno, prima nazionalista, pii nazista; che lo porterà ad indagare sulla carriera del padre prima nelle SS, poi nelle SS, nella Gestapo, sul suo lavoro al Caucaso, sulla sua direzione nei Sondekommando prima in Polonia, poi in Slovacchia.

Tutta la ricerca si muove sul filo della speranza: quella che il padre non abbia davvero commesso crimini. Labile speranza costellata di interrogativi compreso uno che riguarda il nonno materno:

“Che cosa aveva spinto l’avvocato Rudolf Bast, con una buona posizione. Ad abbandonare i sicuri binari della borghesia per associarsi ai nazisti. Facinorosi fanatici, che peraltro guadagnavano sempre più influenza?” (Pag.78).

Del resto anche sul padre si addensano gli interrogativi:

“Non ho alcun ricordo personale di lui. Al momento della sua morte non avevo ancora compiuto tre anni, e lo avevo visto appena un paio di volte di sfuggita. Anche questo lo so da mia madre, che di rado parlava di lui, e soltanto per riferirmi fatti insignificanti, cose secondarie, come se non fosse sicura di quanto avrebbe potuto confidarmi e di quanto invece avrebbe fatto meglio a tacere”(Pag.16).

Davvero tante sono le domande che Martin si pone sul padre. Una investe direttamente il suo ruolo in quanto membro della Gestapo: “In quanto membro della Gestapo mio padre fin dal primo giorno fece parte in maniera concreta  del regime di terrore, vergava liste di persone da arrestare e interrogava coloro che, secondo il suo arbitrio venivano dichiarati nemici. Se abbia firmato ordini di custodia preventiva, picchiato o torturato persone oppure le abbia fatte torturare (per questo c’erano personaggi particolari, sadici, picchiatori), non lo so. Parto dal presupposto che egli fosse convinto di essere dalla parte giusta, di lottare per la giusta causa, per il futuro Reich, per l’unità e la purezza del popolo e della razza, e tutto quanto proclamavano gli slogan di allora, a cui credevano in molti; e tuttavia, erano pochissimi a scegliere una carriera nella Gestapo. Perché proprio lui?

Questa domanda mi accompagna da molti anni come un’ombra opprimente, che so che non potrò mai scrollarmi di dosso.

‘Tuo padre era un idealista, è sempre stato una persona per bene, ha sempre fatto tutto da solo per idealismo per ciò in cui credeva. Tutti eravamo idealisti, tutti ci credevamo’ mi disse una volta mia nonna, al tempo in cui ero già all’università”(Pag.109-110).     

Nell’indagine di Martin Pollack vita privata e vita pubblica si intrecciano L’indagine privata rimbalza su quella pubblica e viceversa  e rende l’inchiesta ancora più dolorosa ancora più sofferta.

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Come si diceva più sopra Martin Pollack non porta il cognome del padre biologico. Mentre è ancora sposata con Pollack la madre ha una relazione con Gerhard Bast. Da quella relazione nasce Martin:

“Un bastardo, ecco cos’ero. E quando nella confusione del dopoguerra lei era la vedova di un criminale di guerra ricercato, lui (il patrigno) la riprese con sé, insieme al bambino che non era suo. Non mi sono mai sentito un bastardo, un indesiderato.

Questi intricati rapporti familiari contribuirono al fatto che, nella casa di Linz, tutto quanto avesse anche solo lontanamente a che fare con il periodo legato al mio padre biologico, fosse tabù. Un giorno te lo racconterò, più avanti, diceva mia madre, talvolta, ma non ci arrivò mai, né io l’ho mai spinta a farlo. ‘Non è giusto’. Con il suo silenzio obbediva alla volontà di mio padre morto?” (Pag.  129).

Anche nel rapporto difficile con la nonna pubblico e privato sono strettamente connessi. La rottura con lei esemplifica questa connessione. Martin ha ventiquattro anni, si è dedicato a ricerche sulla storia dell’Europa Orientale ed è stato in Polonia per motivi di studio. La nonna scrive una lettera al nipote esprimendo la preoccupazione che lui possa tornare con una moglie polacca. Se questo avvenisse lei si opporrebbe. Ancora di più se, oltre che polacca, fosse ebrea. Doveva prometterle che non lo avrebbe fatto in nome della memoria del padre Gerhard. In caso contrario ci sarebbe stata una rottura definitiva. In quell’epoca martin apparteneva alla sinistra radicale e narra che era immaturo e pieno di sé. Narra che scrisse una lettera patetica e implacabile che fu la causa ultima della rottura con la nonna:

“E’ ben possibile che la rottura fosse inevitabile, eppure oggi quando ripenso a quella lettera provo tristezza e vergogna.

Non ho mai più visto la nonna fino alla sua morte, e non ci siamo nemmeno più scritti. Entrambi abbiamo taciuto rabbiosi. Per me di sicuro è stato molto più facile che per lei: Quando fu in punto di morte espresse il desiderio di vedermi ancora una volta. Mio zio inviò un telegramma, io mi precipitai ad Amstetten, ma lei se n’ era andata poco prima del mio arrivo. Ricordo ancora la frase con cui mio zio mi accolse sulla porta di casa: ‘E’ morta da vera tedesca’”(Pag.180).

C’è davvero una labile fiammella di speranza che possa spingere Martin a dichiarare il padre innocente? Quando indaga su come il padre si comportò nel Caucaso scrive:

“Ricordo ancora che, per un momento, quando chiusi l’ultimo raccoglitore, provai un senso di frustrazione e delusione. Avevo letto così tanto che mi bruciavano gli occhi, ma non mi ero imbattuto in nulla che riguardasse mio padre. Poi mi resi conto di cosa questo significasse. Sarebbe stato meglio se avessi trovato qualcosa? Un rapporto dal Caucaso firmato da mio padre, con espressioni del tipo ‘l’area di lavoro del Kommandos è stata Judenfrei’, ‘lo spazio è stato ripulito’, ‘il territorio è stato rastrellato’ oppure ‘tutti gli elementi pericolosi sono stati resi innocui’? Così potevo per lo meno aggrapparmi alla speranza che si fosse occupato soltanto del rimpatrio del Sonderkommando della zona immediatamente vicina al fronte” (Pag.172).

Interrogativi martellanti che portano Martin, mentre è in visita al cimitero di Donovalyi, a fare questa riflessione.

“In quel momento avevo capito che non sarei mai riuscito a trovare una risposta alla domanda che mi tormentava, e cioè come fosse potuto accadere che proprio mio padre ‘in forza delle sue competenze’ avesse ordinato queste azioni, che forse lui stesso avesse fatto uso delle armi. Mio padre. Lo Sturmbannfuhrer di cui decenni dopo uno dei suoi uomini avrebbe dichiarato che agiva sempre umanamente. Umano, Cosa significava questo termine nella lingua degli assassini?” (Pag. 227).

E alle domande si aggiungono altre domande. Cosa sarebbe accaduto se il bisnonno paterno di Martin avesse preso in moglie una slovena invece che una tedesca? Cosa sarebbe successo se la sua famiglia si fosse slavizzata:

“E’ davvero cominciato tutto in quel grosso paese che era Tuffer, nella Stiria inferiore, dove la coesistenza tra tedeschi e sloveni fu precocemente avvelenata da un furioso nazionalismo? O forse era successo qualcosa più tardi, per cui effettivamente l’intera famiglia seguì quel processo evolutivo dominato dall’odio e dalla violenza, che trovò il suo inconcepibile punto culminante nella carriera di mio padre” (Pag. 227).

Ricordiamocelo questo brano, come tanti altri disseminati nel libro. Questo è un monito che ci indica che i nazionalismi, in qualsiasi modo si travestano, sono sempre portatori di veleni e violenze.  Ci indica che è necessario farci gli anticorpi contro l’odio e la violenza perché portatori unicamente di distruzioni e altro odio. Ed è anche per questo motivo che leggere e meditare su “Un morto nel bunker” è anche un atto etico, è soprattutto un atto etico.

C’è un punto del libro che sembra essere il punto di non ritorno: Martin sta visitando il Museo  della rivolta nazionale slovacca a Banskà Bystrica. E’ l’unico visitatore. E può guardare con calma. Nella mostra sono esposte documenti e foto d’epoca ingranditi, uniformi di rivoltosi, e tedeschi, armi, pistole, bombe a mano costruite in casa, mitragliatrici e cannoni leggeri. Pollack si sofferma sulla vetrina 37. La sua attenzione è attratta dalla foto 18.  E’ la foto che raffigura le persone che sono state fucilate presso il monte Medzihràdki dagli uomini del Sonderkommando 7a, quello comandato dal padre in quella zona. Pollack ci descrive come sono accatastati i morti, donne e uomini e conclude:

“per la prima volta vedevo davanti a me delle vittime di mio padre e degli uomini ai suoi ordini, per la prima volta, bello o straziati, ebbero dei volti” (Pag. 239).

Si potrebbe terminare qui ma non si possono non riportare le stupende parole che scrisse su “Il morto nel bunker” Claudio Magris. Nella postfazione a “Galizia”, in forma di lettera aperta. il grande scrittore triestino si rivolge a Martin Pollack riferendosi ai viaggi:

“Tu ne hai compiuto uno tremendo e coraggioso negli inferi della tua storia più difficile e più tragica nel tuo  libro Il morto nel bunker. Inchiesta su mio padre. Un “viaggio nelle tenebre”  , hai detto; il morto trovato dopo tanti anni nel vecchio bunker abbandonato è tuo padre, che non hai mai conosciuto e che è stato un nazista, Sturmbannfuhrer delle SS, capo della Gestapo di Linz e attivo nella Polonia occupata dai nazisti, ricercato dalla polizia federale austriaca per crimini di guerra, assassinato in uno di quei bunker di cartapesta costruiti da Mussolini in Alto Adige. Ti sei messo sulle sue tracce per sapere chi egli fosse veramente stato, che cosa avesse fatto, cosa volesse dire avere un tale padre.

Ma lavorare a quel libro, mi hai detto una volta, ‘ha significato anche distruggere la mia infanzia. Ho avuto un’infanzia meravigliosa, tanto amato dai miei nonni che mi hanno allevato. La mia ricerca mi ha messo spietatamente davanti agli occhi il fatto che essi non erano solo affettuosi nonni, ma anche protervi nazisti, pieni di odio e disprezzo per gli altri, slavi ed ebrei. La distruzione della propria infanzia è un’impresa pericolosa e non so se riuscirò mai a superarla’.

Sì, l’hai superata e integrata in te stesso, Martin, con rara forza e carità. Penso a quella tua bellissima pagina in cui narri la tua dolorosa rottura con l’amata nonna perché lei ti aveva chiesto di prometterle che non avresti mai sposato né una polacca né un’ebrea. Ti stacchi da lei con nettezza ma con pietas, provandone tristezza e pure vergogna. Anche la figura di tuo padre appare contradditoria, colpevole e sventato, probabilmente non ben consapevole di ciò che sta veramente facendo.

La verità rende liberi, dice il Vangelo, ma cercare e dire la verità è pericoloso, è come fare un salasso al cuore, scriveva Graciàn, il grande scrittore barocco spagnolo”. (Pag. 233-34).

Lo Scaffale di Andrea: “Il morto nel bunker. Indagine su mio padre”
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