di Andrea Cabassi

Andrea Cabassi

 

 

 

 

 

A SUD DEL PARADISO

Recensione al libro di Tiffany McDaniel

“Il caos da cui veniamo” (Atlantide edizioni)

Il caos da cui veniamo

Non ho mai avuto paura dei temporali, neppure di quelli che si scaricavano con più violenza sulla città. Mio padre, quando ero bambino, mi raccontava che i tuoni e i fulmini che illuminavano il cielo erano le battaglie che gli indiani d’America sostenevano contro le giacche blu e i cowboy che avevano colonizzato le loro terre. Quando i tuoni e i fulmini sembravano scuotere tutto, mio padre mi raccontava che quello era il momento cruciale della battaglia e diceva “ecco, senti, Cavallo Pazzo sta andando all’attacco, scalpitano i suoi cavalli”. Io imparai a stare dalla parte dei nativi americani e, quando giocavo a soldatini, loro erano i buoni. E imparai a non avere paura dei temporali perché quando il racconto si trasfigura in poesia è terapeutico e vince la paura. Trascende il reale e lo colloca nella dimensione del fantastico e dell’immaginario.  

E, chissà se, quando mio padre mi narrava di queste battaglie, ci trovavamo a sud del paradiso, in quel magico territorio dove l’immaginazione non cancella il reale ma lo poeticizza. Essere a sud del paradiso è come avere una bussola, trovarsi in un posto dove non ci si può perdere, un posto che è riferimento soprattutto nei momenti della vita più drammatici, nei momenti in cui si attraversano lutti e si deve fare i conti con le perdite. Abitare il sud del paradiso ci conforta perché quello è il luogo dove si cicatrizzano le ferite. Lo sa bene Landon Lazarus, uno dei protagonisti dell’ultimo libro, magnifico e di una crudele bellezza,  di Tiffany McDaniel “Il caos da cui veniamo (Atlantide. 2018). Lo sa bene quel Landon, nativo americano, padre di Bitty, che è un grande affabulatore:

Mi sollevò il mento con il dorso della mano facendo sì che volgessi lo sguardo al cielo. ‘Guarda lassù, la Terra delle stelle. Da qualche parte lassù  in cielo c’è il paradiso e noi siamo qua, un poco più a sud. Ecco. Proprio qui’. Cominciò a pestare il terreno finché non diventò tutto rosso e io non scoppiai a ridere.

‘Quando ti senti persa, Bitty, smarrita, perduta a te e al mondo, non devi far altro che alzare la testa e guardare su. Non importa dove sei né dove stai andando, perché sarai sempre a sud del paradiso. Capito, Indianina?’ (Pag.52).

Come si diceva più sopra “Il caos da cui veniamo” è un romanzo, memoir, biografia di grande bellezza, una storia cupa, drammatica, tragica, poetica. Un bellissimo regalo di Tiffany McDaniel della casa editrice Atlantide che ci aveva fatto conoscere Tiffany con “L’estate che sciolse ogni cosa”. (Atlantide. 2017); entrambi i libri ottimamente tradotti da Lucia Olivieri. Va aggiunto, inoltre, che in contemporanea con “Il caos da cui veniamo” è stato tradotto e pubblicato, sempre da Atlantide,  uno splendida raccolta di poesie “Queste voci mi battono dentro” tradotte da Simone Caltabellotta.

Tiffany McDanielTiffany Mc Daniel, in una sua intervista a Vanity Fair (7/11/2018), ha confessato che per una donna è difficile scrivere storie dark, molto più di uno scrittore maschio. Ha confessato di aver avuto moltissime difficoltà, agli inizi della sua attività di poetessa e scrittrice, a pubblicare e che ha avuto molti rifiuti. E’ solo quando il vento è cambiato, grazie ai movimenti femminili e femministi, che le difficoltà si sono appianate. Ha speso, poi, belle parole per la casa editrice Atlantide che, non a caso, pubblica “Il caos da cui veniamo” in anteprima mondiale. Ha aggiunto che “Il caos da cui veniamo” voleva essere un libro sul sessismo, sul razzismo, sulla povertà e che ha la sua origine in un racconto che le aveva fatto la madre e che riguardava il fratello di lei, sorpreso a travestirsi da donna.

Se tantissimi episodi narrati nel libro sono veri, fittizio è il paese dell’Ohio dove si sviluppa la storia dei Lazarus. E’ lo stesso paese in cui era ambientato “L’estate che sciolse ogni cosa”. Da segnalare che alcuni  personaggi di quel primo romanzo, come Autopsy Bliss, compariranno brevemente anche in questo.

Il romanzo (se lo si può definire romanzo) è la storia vera di Bitty, la madre di Tiffany, e della sua famiglia. Una famiglia che viene dal caos, una famiglia multiproblematica. Come in ogni famiglia multiproblematica i confini tra i vari membri che la compongono sono labili, i traumi si trasmettono da una generazione all’altra, l’incesto è una possibilità che rischia di venire agita in ogni istante e, in effetti, viene agita. La madre di Bitty, Alka,  ha avuto ripetuti rapporti sessuali con il padre e con una madre, se non consenziente, per lo meno omertosa. Un incesto che sarà un trauma che non riuscirà mai a superare, che condizionerà il rapporto con il marito e con i figli e che le impedirà di mettere in campo le sue risorse interiori che, indubbiamente, esistono e che, a volte, trapelano tra le pagine del libro. Quella di Bitty è una famiglia che ha dovuto affrontare lutti già dai primi momenti della sua costituzione: la morte precoce dei fratellini d Bitty, Yarrow e Waconda; quella di Bitty è anche la famiglia della sorella Flossie, quella sorella che avrebbe voluto diventare una star di Hollywood, ma che conoscerà il suo Sunset Boulevard prima ancora che sorga il sole; è anche la famiglia dell’altra sorella Fraya, che avrà un rapporto incestuoso con il fratello Leland; è anche la famiglia del fratello Trustin, che avrà un triste destino; ed è la famiglia dell’altro fratello di Bitty, Hawthorne, che ama travestirsi da donna. Quel fratello di cui  la scrittrice parla nella sua intervista a Vanity Fair.

Teatro delle vicende della famiglia Lazarus è Breathed, un paese bigotto, ipocrita, razzista come lo erano e lo sono tuttora, ai tempi di Trump, molte zone rurali degli USA. Un paese che, in qualche breve momento, riesce  a fasi comunità, anche se con grande difficoltà .

Una famiglia multiproblematica, dunque, ma che Bitty definisce così a partire dal concetto di Caos:

Caos. Un termine che indica confusione, disordine, un caleidoscopio infranto d’irrequietezza. I fisica designa ciò che esisteva prima della creazione dell’universo: il nulla informe. Nella mitologia greca, Caos è l’essere primigenio.

Qualcuno può pensare che la mia famiglia corrisponda a tutto questo. Una madre e un padre in un vortice di irrequietezza. Figli che vivono nel disordine, nella confusione assoluta. Questo siamo noi. I Lazarus. Un caleidoscopio infranto. Sì, forse siamo il caos. Ma è stato una meraviglia esserlo (Pag.411-12).

E a supporto di questo si può dire che Tiffany Mc Daniel trasforma i momenti drammatici, tragici, a volte insostenibili, in poesia. E questa è la magia della sua scrittura.

La storia è narrata in prima persona. E’ Bitty che racconta. Qualche volta narra non seguendo la cronologia, ma seguendo l’associazione delle sue idee. Non ci troviamo, però, di fronte a un flusso di coscienza e il lettore può seguire agevolmente. Quello che può produrre un certo spaesamento è la narrazione in prima persona. Nel senso che ci si può confondere. Si può confondere l’autrice con la narratrice, la madre con la figlia. Non è un caso. Questo accade perché il destino di Bitty sarà quello di dedicarsi alla poesia e alla scrittura, proprio come farà la figlia Tiffany. E’ uno spaesamento che affascina  e rende la lettura ancora più interessante perché apre uno squarcio su cosa si  può trasmette da una generazione all’altra. Non solo traumi, ma anche valori.

I fratelli d Bitty sono descritti in profondità, cogliamo i moti della loro anima, comprendiamo i loro agiti perché Bitty li comprende, anche se non giustifica mai le loro azioni, quando queste sono negative o immorali. Traspare un grande senso di pietas e il dubbio che sui Lazarus penda una maledizione: la maledizione è, forse, quella della povertà, del sessismo, del razzismo, dell’ipocrisia.

Anche i personaggi minori, come Cotton che lancia i palloncini in cielo con bigliettini indirizzati alla moglie morta, come John Bloccodicemento, come l’anziana Slipperwood, sono perfettamente descritti insieme a una miriade di altri. Non sono mai bozzetti o schizzi, sono personaggi a tutto tondo, mai schiacciati sulla bidimensionalità. C’è, infine, la suspense dei fori lasciati sui muri dai proiettili di un fucile. A Breathed tutti sospettano che siano stati i Lazarus. Chi sarà stato a sparare veramente? L’enigma si scioglierà verso la fine del libro.

Non a caso ho lasciato da parte il padre di Bitty per dedicargli, ora, uno spazio più ampio perché Landon ha un rapporto previlegiato con Bitty, e, probabilmente, sarà lui, con le sue affabulazioni, a determinare la scelta di Bitty di diventare poetessa e scrittrice. Indizi sono disseminati in diverse pagine Ne abbiamo un esempio quando Landon narra a Bitty della relazione che i corvi hanno con la scrittura: 

‘Molti, molti anni fa’, mi raccontò ‘quando gli alberi e le montagne erano ancora le cose più grandi che esistevano, e grosse belve si aggiravano sulla Terra, i cantastorie si sedevano intorno a un fuoco a raccontare storie così meravigliose che facevano danzare e ridere la gente, e piangere anche, perché pure piangere è necessario a volte. Sentendo quelle storie così belle, i corvi decisero che le parole degli uomini dovevano essere scritte e conservate a futura memoria. Cos’ donarono le loro piume ai cantastorie, quindi si morsero la lingua perché le loro bocche perché si riempissero di sangue. Il sangue di un corvo sgorga nero come un cielo notturno. Scuro come l’inchiostro. In quel sangue così buio i cantastorie  intinsero le piume e si accinsero a scrivere ciò che sino a quel momento avevano solo narrato a voce. Pagina dopo pagina, i corvi offrirono fedelmente piume e sangue. Il loro sacrificio permise alle storie degli uomini di prendere il volo da un mondo all’altro’ (Pag. 237-238). 

E’ un’immagine molto poetica e potente. E noi immaginiamo Landon Lazarus che, in un tempo lontano, sta seduto davanti al fuoco con la sua tribù, a raccontare e ascoltare storie. E io, leggendo, ho immaginato mio padre che, in un’altra vita, stava ad ascoltare le storie dei Navajos, degli Sioux, degli Apache e che, poi,  nei giorni della mia infanzia, avrebbe raccontato a me facendomi vincere la paura e facendomi amare la letteratura.

Appalachi

Dopo la morte del padre, Bitty troverà nella sua auto abbandonata una macchina da scrivere al posto del motore e il racconto Il sorriso dei marziani che Bitty credeva di aver perduto. Un chiaro messaggio e un desiderio, il desiderio, mai completamente esplicitato dal padre, che la figlia continui a scrivere.

Quanto la narrazione di storie possa essere importante lo deduciamo da un altro passo. Dopo che il padre ha raccontato a Bitty e alle sue sorelle di aquile e avvolti, Betty si sorprende a pensare questo:

Compresi che non era solo papà ad aver bisogno che noi credessimo alle sue storie, ma anche noi, perché era l’unico modo di convincersi che un sasso era una stella o che le aquile possono volare così in alto da fare qualcosa per noi che da soli non saremmo in grado di fare. (Pag. 96).

Non possiamo non provare empatia per quest’uomo, molto più fragile di quanto non appaia a prima vista, che per reggersi in piedi, per attraversare i drammi e le tragedie della vita  si trova a narrare agli altri e a sé stesso con il bisogno di essere ascoltato. Le  parole sono la bacchetta magica che trasforma la realtà, che attua, almeno per un attimo, l’incantesimo. Non solo. Le narrazioni, le affabulazioni servono anche per espiare i peccati:

‘Sai perché esistono le montagne, Indianina?, disse mio padre guardandosi intorno.

Tirai su con il naso e lo fissai. Per quanto fossi cresciuta, ero ancora una bambina tra le sue braccia.

‘ Oh, Bitty…’, mi strinse forte, ‘Vedi le montagne esistono affinché gli uomini possano salire in cima e far rotolare a valle i loro peccati. Dio è saggio, figlia mia. E’ per questo che il mondo non è una piatta distesa di terra, dannazione’.

Mi lasciò andare e si rialzò.

‘Tutti questi monti intorno a noi…’. Smosse il terreno con un piede finché non trovò due sassi rotondi. ‘Dio deve aver saputo che noi Lazarus avremmo vissuto qui’.

Raccolse i sassi e me ne porse uno. Fissò il suo per qualche istante poi, con un ruggito, lo gettò a valle.

Era troppo buio per vederlo cadere, ma lo sentimmo rotolare sulle rocce e finire sempre più giù.

‘Vieni qui, Bitty, e lancia il tuo peccato’.

Mi alzai e scagliai il sasso con tutta la forza che avevo. Finì contro un ramo e ruppe un ghiacciolo prima di cadere e rotolare giù, sempre più giù.

‘E adesso, papà?’

‘Adesso possiamo credere…’. Raddrizzò le spalle, come se fosse già più sobrio, ‘… di essere liberi dai nostri peccati e che forse un giorno la Terra diventerà piatta perché la gente sarà migliore e non ci sarà più bisogno dei monti’ (Pag. 288).

E’ come se Bitty dovesse ereditare un testimone, come se il suo destino fosse quello di trasformare la testimonianza orale in quella scritta perché l’oralità può disperdersi nel vento e smettere di essere trasmessa, la scrittura no. E’ qualcosa che resta, è qualcosa di tangibile, è qualcosa che, a sua volta, può essere ri/trasmessa, Nelle scuciture del mondo, la parola cuce e ri/cuce. Bitty dovrà caricarsi sulle spalle questo destino che è la sua destinazione. Una destinazione che si troverà sempre là, a sud del paradiso, una destinazione che sarà anche quella di Tiffany Mc Daniel. E, forse, è per questo, per questo gioco di destini incrociati che non ci troviamo di fronte ad un libro perché “Il caos da cui veniamo” non è un libro. E’ un’esperienza. Non lo si legge, lo si vive.

Lo Scaffale di Andrea: A Sud del Paradiso