di Andrea Cabassi

Andrea Cabassi

 

 

 

 

 

LA NOTTE INQUIETA DI UN CAPPELLANO MILITARE

Recensione al libro di ALBRECHT GOES, “Notte inquieta”

(Marcos y Marcos)

Notte inquieta

 

“ Turin, 16 mars 1962

Monsieur,

je m’excuse de m’adresser à vous en français, puisque je ne connait pas assez l’allemand pour l’écrire correctement. Je viens de recevoir et de lire votre livre, et je me sens obligé de vous écrire, et non pas seulement pour vous remercier. Il est facile, et de quelque façon peu sérieux, de dire que Unruhige Nacht et Das Brandopfer sont des beaux contes. Ils le sont, de tout évidence: mais ce sont surtout des bons contes, des contes courageux. Ce n’est pas de la littérature: c’est de la chair et du sang, c’est des pages écrites par un homme pour les hommes.

Je suis content qu’ils aient été écrits par un Allemand, et qu’il aient trouvé du succès parmi le public d’Allemane; c’est un bon signe, ça veut dire que ‘le ciel est rouge’.

Je suis heureux d’apprendre que vous avez lu mon livre et l’avez trouvé bon, et j’éprouve une sort de paix à penser que, à partir d’éxperiences si différentes, vous, chrétien et pretre, et mois, juif non croyant nous nous retrouvons si voisins l’un de l’autre dans nos jugements sur les hommes. Je désir et j’espère quel es hommes comme vous soyent nombreux en Allemagne et qu’ils puissent etre aimés et écoutés.

Votre ami

Primo Levi”

 

                                                                                              “Torino, 16 marzo 1962

 

Signore,

mi scuso di rivolgermi a lei in francese poiché non conosco abbastanza bene il tedesco per scriverlo correttamente. Ho ricevuto il suo libro, e mi sento in obbligo di scriverle, e non soltanto per ringraziarla. E’ facile e, in qualche modo, poco serio dire che Unrughe Nacht e Das  Brandopfer sono dei bei racconti. Lo sono, evidentemente: ma sono soprattutto dei buoni racconti, dei racconti coraggiosi. Non è letteratura: è carne e sangue, sono pagine scritte da un uomo per gli uomini.

Sono contento che siano stati scritti da un Tedesco e che abbiano avuto successo fra il pubblico della Germania; è un buon segno, questo significa che ‘il cielo è rosso’.

Sono felice di sapere che ha letto il mio libro e lo ha trovato buono, ed io trovo una sorte di pace a pensare che, a partire da esperienze così differenti, lei cristiano e prete, ed io, ebreo non credente, ci si sia trovati così vicini l’uno all’altro nei nostri giudizi sugli uomini. Desidero e spero che gli uomini come lei siano numerosi in Germania e che possano essere amati e ascoltati.

Il suo amico

Primo Levi”

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Questa è la lettera che Primo Levi inviò ad Albrecht Goes il 16 marzo 1962. E’ contenuta nell’appendice dell’’importante, approfondito e documentatissimo libro di Martina Mengoni “Primo Levi e i tedeschi” (Einaudi 2017. Pag. 189. La libera traduzione dal francese è mia). Si tratta di un libro che indaga sia le relazioni che Primo Levi ebbe con autori tedeschi, sia quanto, per lui, dopo la devastante esperienza concentrazionaria, fosse fondamentale comprendere i tedeschi in generale.

Nella lettera Levi cita due tra i racconti lunghi più belli di Goes: “Hunrhige Nacht”, “Notte inquieta” e “Das Brandopfer”, “La vittima”. Quando, poi, si riferisce al suo libro che Goes aveva trovato buono, il libro in questione  è “Se questo è un uomo” .

Albrecht Goes aveva studiato teologia ed era stato ordinato pastore protestante nel 1930. Durante la guerra era stato cappellano militare. Nel 1953 aveva abbandonato il sacerdozio per dedicarsi alla scrittura che già praticava. Martina Mengoni ci informa che Goes pubblicò “Notte inquieta” nel 1950. Il libro vendette oltre trentacinquemila copie e divenne un caso editoriale. “La vittima” venne pubblicato qualche anno dopo, nel 1954.

A proposito della lettera di Levi Martina Mengoni sottolinea, giustamente, che la sua stesura fu possibile in quella determinata congiuntura storica e non la sarebbe stata né prima, né dopo:

“Lo stupefacente slancio ecumenico di questa lettera non sarebbe stato possibile sotto un’altra congiuntura storico-biografica: cinque anni prima, o dieci anni dopo, Levi non avrebbe mai potuto rivolgere parole simili a un tedesco cristiano, benché scrittore” (Pag. 73).

Nel 1959 fu Einaudi a pubblicare per prima in Italia i due racconti nei “Coralli”. Il libro si intitolava “Prima dell’alba”. Seguì la Giunti nel 1994, che pubblicò “Notte inquieta” ed ancora Marcos y Marcos nel 2011. Oggi, con una felicissima scelta, è la stessa casa editrice Marcos y Marcos che ripubblica questo straordinario racconto riproponendo la traduzione efficacissima di Ruth Leiser Fortini, unica traduttrice italiana delle opere di Goes.

fortin con ruthVale la pena spendere due parole su Ruth Leiser Fortini. Di origini svizzere (era nata a Bienne nel 1908), sposò il grande poeta e saggista Franco Fortini nel 1946. Fu una raffinata intellettuale, una donna impegnata nella lotta per il rispetto dei diritti umani e, naturalmente, traduttrice dal tedesco, a volte insieme al marito Franco. Morì a Milano il 13 marzo 2003.

“Notte inquieta” è un racconto lungo o romanzo breve di circa un centinaio di pagine. Una notte inquieta davvero perché è una notte cupa e tempestosa  in cui i vari personaggi messi in scena devono confrontarsi con la morte. Siamo nell’ottobre 1942 in Ucraina. Da Vinnycia, dove è di stanza, un cappellano militare viene inviato a Proskurov per assistere un disertore che, a causa della diserzione, è stato condannato a morte. Giunto a destinazione incontrerà il condannato a morte, ma anche ufficiali della Wermacht nelle loro diverse tipologie e caratteri, tra di essi il capitano Brentano con cui condividerà la stanza d’albergo e la sua notte d’amore con l’infermiera Melanie.

Già dall’incipit si comprende quanto per il cappellano militare, un pastore protestante, sia di grande importanza la letteratura. Più di una volta è stato sorpreso mentre recitava i versi di Omero. Leggendo queste righe la memoria va a “Se questo è un uomo”, quando Levi, nella realtà del Lager riesce a parlare di Dante. Quasi come se la letteratura avesse il potere di contrastare ogni tipo di bruttura, come se essa avesse il compito, anche nelle situazioni estreme, di riscattare la vita di un uomo.

In più parti di “Notte inquieta” viene citata la letteratura. Non solo Omero, ma anche Dostoevskij, tanto che il condannato a morte, che si chiama Fëdor Baranowski, ricorda al cappellano militare il grande scrittore russo:

“Il linguaggio è radicato nel mistero e i nomi hanno una loro magia. Non potevo impedire che quel nome di soldato, a me solo un’ora prima sconosciuto – e destinato a rimanere sconosciuto, quasi cancellato ormai dal registro del tempo- mi ricordasse per una qualche omofonia un altro nome, un nome inestinguibile, sacro e terribile insieme, il nome di Fëdor Dostoevskij. Lui, all’ultimo momento, fu strappato al patibolo. Invece il plotone del tenente – come si chiama?- del tenente Ernst mirerà giusto” (Pag. 33).

E i riferimenti alla letteratura non si fermano qui. Come accennato più sopra il capitano che condivide la stanza d’albergo con il cappellano militare si chiama Brentano. Anche qui il nome porta ad una associazione di idee. Porta a ricordare Clemens Brentano o la sorella Bettina, che fu amante di Goethe, entrambi poeti che hanno un posto importante nelle letteratura romantica tedesca:

“Clemens o Bettina? Mi chiedevo ancora. Non è dato saperlo. Bisogna interpretare la Canzone del destino di Clemens: ‘Quando io abbia teso l’arco, e tu presa la mira, allora va al cuore il dardo’. Mi distrassi, si sa che accade proprio nei momenti più emozionanti: mi aveva colpito il pullover di lana di Brentano” (Pag. 62).

Viene da domandarsi se nel cappellano militare o Goes, non agiscano sottotraccia le interpretazioni che volevano il romanticismo come un precursore remoto del nazismo. O forse agiscono solo nel lettore. Ma è tema letterario, politico, storiografico troppo vasto per essere affrontato in questa sede.

E non è presente solo la letteratura. Lo è anche la musica. Sono citati il “Fidelio” di Beethoven (pag. 55-56) e “Le nozze di Figaro” di Mozart (Pag.66).

Questo ritornare alla Cultura è un disperato tentativo di opporsi alla barbarie della guerra. Del resto già nell’incipit del romanzo questo contrasto è reso con forza quando il cappellano descrive la sua passeggiata in un paesaggio che potrebbe essere idilliaco e che potrebbe portare un po’ di ristoro, essere una parentesi, anche se piccola, nell’infuriare della guerra. Ma anche quel luogo è un luogo dell’Ucraina occupata dai soldati di Hitler.

La mostruosità del nazismo non è descritta attraverso atti di guerra o massacri, ma attraverso la figura del maggiore Kartuschke:

“Sono venuto con un incarico preciso – e quale incarico! – e quell’uomo, invece di parlare con me, come sarebbe stato suo dovere, si diverte con queste laide spiritosaggini. Mi sentirei vile come un cane se non lasciassi immediatamente la stanza.

Che razza di uomo è? Da dove viene? Chi gli ha dato quei gradi? Questa guerra, questa esplosione d’odio contro quanto sarebbe stato capace di mantenere in vita uno spirito di serenità e di comprensione, continuava a svelare  le più strane contraddizioni nella maniera di reclutare le sue truppe…  Cosa sarà stato, da borghese, quel Kartuschke?” (Pag. 27).

La mostruosità di questo personaggio sta nella sua volgarità, nella sua laidezza, nella sua assoluta mancanza di pietas. Sono i vari Kartuschke che conducono direttamente alle porte del Lager.

Fa da contraltare a Kartuschke il tenente Ernst, con tutti i suoi scrupoli e i suoi interrogativi etici, che dovrà comandare il plotone di esecuzione quando Baranowski sarà fucilato. Tra il cappellano e il tenente si instaura un dialogo straordinario. Sono pagine di rara bellezza. Qui ne riporto solo un brano E’ una riflessione del tenente Ernst:

“E se anche dovessimo sopravvivere, allora avranno il diritto di chiederci: che cosa avete fatto? E noi tutti ci metteremmo a dire: no, noi non abbiamo nessuna responsabilità, abbiamo fatto soltanto quello che ci è stato comandato. Mi pare già di vederlo, l’esercito di quelli che si laveranno le mani come altrettanti innocenti. Ci vorrà un asciugamano grande come un sudario, per tutte quelle mani. Ma no, parliamo seriamente. E’ questo che volevo domandarle: noi siamo davvero superiori a tutti i vari Kartuschke? Non siamo anche più marci di loro perché sappiamo quello che facciamo?” (Pag.55).

Che è come dire “come possiamo opporci?”, “abbiamo la possibilità di farlo?”, “qual è la nostra responsabilità?”

E’ durante questo colloquio che ci imbattiamo in una delle pagine più belle di “Notte inquieta”, una pagina molto attuale in un momento storico come quello che stiamo vivendo, in cui soffiano, impetuosi, i venti di guerra, una pagina su cui tutti noi dovremo avere il dovere di soffermarci.  Dice il cappellano militare, rivolgendosi al tenente Ernst:

“Non si tratterà di odiare, allora, la guerra. L’odio, se si può dire così, è un sentimento positivo. Bisogna sconsacrare la guerra. Toglierle ogni incanto. Bisogna inculcare nella coscienza umana la certezza di come sia banale e laido questo mestiere di soldato. Che L’Iliade rimanga L’Iliade e Il Canto dei Nibelunghi quel che è; ma noi dobbiamo sapere che lavorare con una pala e una zappa è più onorevole che andare a caccia di decorazioni. Dobbiamo dire che la guerra è sudore, pus, orina. Dopodomani lo sapranno tutti e lo sapranno per qualche anno. Ma lasci che passi un decennio e vedremo di nuovo crescere i miti, come gramigna. E allora ciascuno di noi dovrà essere al suo posto, con una buona falce”. (Pag.57).

Il cappellano militare si trova al crocevia di due storie che hanno, entrambe, come tema dominante il confronto con la morte: la vicenda del disertore Baranowski, la vicenda del capitano Brentano che deve partire per il fronte di Stalingrado dove avrà poche possibilità di sopravvivere. Il cappellano sarà testimone di queste due storie che hanno a che fare con la morte, ma sarà anche testimone discreto della tenera storia d’amore tra il capitano Brentano e  l’infermiera Melanie. Malgrado la notte sia inquieta, sia tempestosa, malgrado la guerra infuri, malgrado ci siano personaggi come Kartuschke, malgrado tutto questo, in quella notte la pietas tesserà la sua tela, un esile filo di umanità resterà a contrapporsi alla barbarie.

Il cappellano militare è, anche, l’ultimo custode della memoria di Baranowski. Compito di grande umanità quello di raccogliere la testimonianza di un morente, di dargli voce perché come scriveva il filosofo di origini ebraiche Lévinas in una grande lezione di etica, noi quando nasciamo, siamo già e immediatamente consegnati all’Altro. E’ l’Altro che deve raccogliere il testimone e prenderci in consegna. Esattamente quello che fa il cappellano militare con Baranowski. Non solo quello. Cerca anche di ricostruire, non solo la biografia del disertore quando studia gli incartamenti che lo riguardano, ma anche la sua storia intima. Qualcuno saprà, qualcuno potrà testimoniare davanti ai conoscenti, agli amici, ai familiari, al Tribunale della Storia.

Ciò che rende ancora più coinvolgente la lettura di questo piccolo grande gioiello della letteratura tedesca e non solo, è il rapporto tra narratore e autore. Il narratore è un pastore protestante che ha il ruolo di cappellano militare nell’esercito tedesco che occupa l’Ucraina. Ma anche Goes è stato pastore protestante e cappellano militare durante la seconda guerra mondiale. C’è un margine stretto, dunque, tra narratore e autore. Quanto c’è di autobiografico? Quanto di invenzione narrativa?  Ci parla la voce narrante o la voce autoriale? Chiunque sia colui che ci parla, ci parla in un linguaggio senza sentimentalismi e sempre supportato da una forte tensione etica. Ci parla con il linguaggio della pietas e con quello dell’umanità nel tentativo di far da barriera alla barbarie.

Aveva ragione Primo Levi. In queste pagine non si fa letteratura. Questa pagine sono carne e sangue, scritte da un uomo per gli uomini.

Lo Scaffale di Andrea: Notte inquieta