di Antonello Saiz

Libraio a Parma con Alice Pisu di “Libreria Diari di bordo”
Libraio a Parma con Alice Pisu di “Libreria Diari di bordo”

 

 

 

 

 

 

Portare avanti il difficile mestiere del libraio.

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Portare avanti il difficile mestiere del libraio e la voce – troppo spesso inascoltata – della cultura, si traduce oggi con l’idea di una libreria che non può assolutamente essere solo incassi, sconti, resi, fatture e riba da pagare a fine mese e neanche autori ganzi e inconsistenti che fanno cassa con cui fare presentazioni. Bisogna imparare a fare resistenza a questo modello e cominciare a pensare a percorsi di rigore. Si può essere presenti su un territorio e costruirsi un pubblico di riferimento con un costante impegno per andare al di là dei prodotti di massa. Accogliere i lettori in un ambiente conviviale e aperto alla “cultura di qualità” si può ben coniugare con il fare il proprio lavoro con rigore. Se l’obiettivo diventa diffondere una cultura che va al di là del “prodotto di massa”, questo porta inevitabilmente ad essere integralisti; ma l’integralismo non necessariamente si deve tradurre con la non accettazione di idee diverse dalle proprie. Certamente lavorare con rigore conduce su una strada dove l’impegno costante della libreria è quello di resistere. Le grandi difficoltà si possono superare grazie alla volontà di mantenersi al passo con i tempi senza dimenticare le proprie peculiarità, quali l’indipendenza, la preparazione sull’offerta del panorama editoriale, l’attenzione al libro consigliato e al libro di qualità. In un’ottica di promozione della lettura e di diffusione vera della cultura bisogna non scendere a compromessi per non essere facilmente ricattabili e di conseguenza bisogna imparare anche a saper dire tanti no, con decisione, anche di fronte al facile guadagno. Sono scelte da fare per un’altra idea di Cultura dal basso. Anche avere il coraggio di dire no a chi ti strizza l’occhietto con proposte suadenti. Per diventare un vero presidio culturale si devono evitare il più possibile situazioni dentro le quali potremmo sentirci fuori posto. Non basta avere dalla propria un talento naturale e il savoir faire col pubblico. Un certo garbo e la semplicità sono punti di forza per fare buona divulgazione, ma occorre anche un preciso rigore nelle scelte delle cose da proporre e dei libri da mettere a scaffale. L’attenzione al libro consigliato e al libro di qualità in uscita con eventuali collegamenti sono le due linee guide per portare avanti il difficile mestiere del libraio.

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Rigore è anche poter parlare in libreria di Iran attraverso il racconto di un grande esperto di Medioriente come Giuseppe Acconcia. Con il passo del divulgatore di grande fascino il giornalista, in una serata di febbraio mentre fuori dalla libreria la neve e il gelo infuriavano, ci ha condotti sulle tracce di quel complesso processo che ha portato l’antica Persia ad essere l’attuale Iran. Attraverso la presentazione del suo ultimo libro “Il Grande Iran” ( Exòrma), con prefazione di Mohammad Tolouei (traduzione dal persiano di Giacomo Longhi) e illustrazioni di Tuka Nayestani, siamo stati trasportati alla scoperta di quel paese essenziale, forse suo malgrado, per la soluzione dei principali conflitti, dalla Siria all’Iraq fino all’Afghanistan. Ci ha raccontato dell’Iran dei Qajar, della rivoluzione del 1979, degli anni del Riformismo e dell’accordo sul nucleare. Abbiamo fatto, attraverso il suo racconto, un viaggio nelle principali città iraniane ma anche trovato spunti e riflessioni su politica e geopolitica, cinema e poesia, condizione femminile e temi sociali in Iran e non solo. Del resto dalla fine degli anni Settanta l’Iran è periodicamente sotto gli occhi dell’Occidente, come unico Paese ad aver stabilito una teocrazia di stato dopo aver rovesciato il regime filo occidentale dello Scià, e come luogo di fermento culturale in tutte le arti creative, malgrado la repressione, per la quale gli abitanti vivono una doppia vita, tra l’adesione in pubblico ad un modello che sentono sempre meno e un privato in cui sognano altri stili di vita. L’Iran è il paese del dispotismo e delle lotte interne, il più democratico del Medio Oriente per cultura politica e civile. Il popolo iraniano vive un momento unico, dove tutto è il contrario di tutto: la libertà è ipocrisia, la religione è politica, la carità è profitto.

Il libro è il frutto di dieci anni di vita, di viaggi e ritorni di Giuseppe Acconcia nel paese. Il titolo è un riferimento agli intrighi russi, statunitensi e britannici, paesi che hanno manipolato la Persia sin dall’Ottocento, riportati nel classico di Peter Hopkirk “Il Grande gioco”, ma è soprattutto una riflessione critica sul progetto dell’ex presidente Usa, George W. Bush, di Grande Medio Oriente. Se la politica estera della Repubblica islamica non ha mai assunto un atteggiamento aggressivo dopo il 1979 e neppure ha perseguito forme di esportabilità del modello khomeinista, ci ha pensato la cieca politica estera Usa a creare il mito del Grande Iran. Vi lascio con le parole della mia socia Alice, che all’indomani della serata magica in libreria, così scriveva:

“Poi ti fermi un attimo e vedi che intorno ci sono persone ovunque, appiccicate agli scaffali dei libri, a ridosso della nostra vetrina alternativa, strette nei sacchi divano o sedute per terra mente fuori gela, tutte in silenzio ad ascoltare le parole di chi come corrispondente e ricercatore universitario racconta l’Iran dopo dieci anni di vita nel paese, immerso nella società persiana per raccontarla anche nelle sue contraddizioni. Ogni parola detta, ogni domanda sollevata, generava ulteriori dibattiti, sulla situazione dell’economia del paese, sulla sua società, raccontata anche sul piano ideologico e religioso, sugli effetti della rivoluzione del 1979 e sui movimenti di rivolta, oltre che sull’azione del movimento studentesco, sul ruolo della donna oggi, il rapporto con la stampa, il modo di essere un intellettuale in Iran e il significato del concetto di libertà, oltre alle implicazioni nel rapporto con le grandi potenze economiche mondiali. Accanto ai grandi temi sviluppati da Giuseppe Acconcia ne Il grande Iran, che già dal titolo richiama provocatoriamente l’idea della creazione del mito, ci sono le immagini dei luoghi, la potenza delle descrizioni della ricchezza degradante di Teheran che diventa povertà al sud, ci sono le riflessioni di chi si rapporta alla complessità di un paese dai tanti volti e cerca di restituirne il ritratto consapevole di quella complessità. E nei grandi temi evidenziati già nella prefazione di Mohammad Tolouei sul rapporto tra Oriente e Occidente e gli effetti nella visione comune dati da un’informazione main stream deviante, c’è la scelta di avvicinarsi al lettore costruendo un documento puntuale che però è fortemente permeato da un’impronta narrativa. Scegliere di raccontare l’Iran oggi con un reportage narrativo fornisce molto più che un’analisi storico politica e culturale di un paese. Permette al lettore di avvicinarsi a un’idea di comprensione anche della società civile, lo porta a percepire di attraversare assieme all’autore il bazar di Teheran, una città nella città, e a entrare nelle case private che al sabato sera si trasformano in cineclub abusivi offrendo un liquore proibito e capire perché trasmettere film d’essai in case private rappresenti un atto sovversivo. Leggere Acconcia e avere il privilegio di ascoltarlo permette di individuare strumenti di analisi e approfondimento nuovi. Incontri come quello di ieri sera danno un senso all’idea di libreria che io e Antonello abbiamo strenuamente costruito e difeso sin da quel primo giorno di quel settembre del 2014. E quando prende forma un dibattito di tale spessore e percepisci come il pubblico continui ad avere voglia di sapere e di sollevare le questioni più svariate, dalla libertà sessuale al modo dei giovani di aggirare le imposizioni per rivendicare lo spazio dell’arte e vivere la musica come elemento identitario, allora pensi davvero che stai facendo belle cose”.

Giuseppe Acconcia per la stessa casa editrice nel 2014 aveva pubblicato “Egitto Democrazia Militare”.

Un reportage di grande attualità. Uno sguardo dall’interno su tre anni di eventi rivoluzionari che hanno cambiato l’Egitto.
Ben oltre la cronaca, il libro rivela l’immagine di un Paese che in poco tempo ha visto il movimento di piazza trasformarsi in un colpo di stato militare ed è alle prese oggi con una condizione di severo e completo controllo sociale e politico. Il testo è accompagnato dalla prefazione di Sonallah Ibrahim, uno dei più importanti scrittori egiziani.
L’incoronazione dell’ex generale Abdel Fattah al-Sisi come nuovo presidente egiziano ha chiuso tre anni rivoluzionari che hanno cambiato il Paese. Il racconto dal basso delle rivolte di piazza descrive un Egitto straordinario, diviso tra modernità e tradizione, dalla repressione di migranti e minoranze, alla punizione collettiva delle tribù del Sinai, dagli operai delle fabbriche di Suez al massacro di Rabaa el Adaweya. Piazza Tahrir da laboratorio di politica di strada è diventato il centro della repressione, con le centinaia di stupri contro le donne che hanno preso parte alle manifestazioni. Eppure gli islamisti avevano gioito per la vittoria del primo presidente eletto della storia egiziana, Mohammed Morsi, dopo mesi di violenze, le contestazioni degli operai di Mahalla al Kubra, la strage dello stadio di Port Said e gli scontri tra sufi e salafiti al confine libico.
Sebbene il movimento sociale di piazza Tahrir del gennaio 2011 si sia trasformato subito in un colpo di stato militare, l’esercito ha agito con cautela per riprodurre il consueto rapporto tra élite politica e militare, intervenendo sul potenziale rivoluzionario dei movimenti di piazza. L’incontro a Tahrir tra gli organizzatissimi Fratelli musulmani e i giovani rivoluzionari ha immediatamente disattivato il potenziale del movimento. Ma le forze armate hanno voluto di nuovo azzerare la distinzione tra politici e militari intervenendo direttamente per annullare la rivoluzione del 25 gennaio 2011 con il colpo di stato del 3 luglio 2013. Da quel momento i militari hanno imposto la vendetta verso movimenti di opposizione laica e islamista e un controllo scientifico sulla società egiziana.

Sonallah Ibrahim, 77 anni, è uno dei più importanti scrittori egiziani. Marxista, autore tra l’altro di “Warda” (2000) e “Americanli” (2005), militante del Movimento democratico per la liberazione nazionale, nel 2003 ha rifiutato un premio letterario, pari a 100.000 ghinee (12.000 euro), in polemica con il ministero della Cultura, controllato dal Partito nazionale democratico dell’ex presidente Hosni Mubarak. Sonallah ha trascorso cinque anni in prigione tra il 1959 e il 1964 per il suo impegno politico durante la presidenza di Gamal Abdel Nasser.
Giorgio Serafini ProsperiSegnaliamo, a proposito di grande qualità e rigore, che sugli scaffali della libreria, dopo “Una perfetta geometria”, è tornato da giovedì 22 febbraio Adriano Panatta, l’eroe anomalo e malinconico di Giorgio Serafini Prosperi, in un giallo che indaga i luoghi più oscuri dell’animo umano, dove la colpa diventa violenza, anche verso se stessi e la paura sfocia nel tradimento. La nuova indagine di Adriano Panatta si intitola “Chi di spada ferisce“, ed è ancora una volta pubblicata da NN Editore.
“Una perfetta geometria” era stato l’ esordio narrativo, e un grande successo tra i lettori forti della nostra Libreria (QUI il resoconto della magnifica serata ad ottobre 2016 in cui si era partiti da Adriano Panatta per arrivare a Georges Simenon e Leonardo Sciascia, Paul Auster e Haruki Murakami, senza trascurare Piero Chiara, Fruttero&Lucentini Ezio D’Errico, e pure la Loredana Bertè).

28450073_10216281138769776_1218643319_nQuel libro a lungo era stato sul comodino di un ospedale nella camera di un reparto di Ematologia oncologica. “Una perfetta geometria” di Giorgio Serafini Prosperi è stato l’ultimo libro letto dal mio compagno di una vita, Igino. Ne era rimasto folgorato dalla scrittura e dalla storia e aveva convinto tutte le sue amiche a leggerlo, da Fiorenza a Emanuela. Poi la vista era stata mangiata dalla malattia, e non riusciva neanche più a leggere, leggevo io ad Alta Voce, o le sue amiche. Ma di quella serata di metà ottobre avevo raccontato ogni minimo dettaglio, pure del cappello rosso scozzese e del panciotto dello scrittore. Igino e Giorgio non si sono mai visti e incontrati. Ma come un filo rosso lega per me queste due persone. L’ultimo libro letto da Igino per me ha tutta una sua sacralità. Quando lo consiglio in libreria, cerco sempre di usare le parole adottate da lui nella macchina di Fiorenza e Antonio quella mattina del 27 luglio del 2016, mentre lo riportavamo in ospedale per l’ultima volta.
Un giorno, Giorgio mi ha scritto: “adesso Igino di libri ne legge ancora di più, e tutti belli”… e io ho pianto.

Nel secondo capitolo, dopo aver brillantemente risolto un caso difficile ed essere uscito da una tumultuosa storia d’amore, l’ex commissario Adriano Panatta ha bisogno di rimettersi in sesto. Ma una notizia di cronaca ascoltata alla radio sconvolge i buoni propositi. Un amico d’infanzia, Lorenzo Landolina, sacerdote impegnato nel sociale, è stato arrestato per un crimine mostruoso, imperdonabile nei confronti di un ragazzino.
Adriano non può ammettere che l’amico sia colpevole, neanche quando le prove contro di lui si saldano una dopo l’altra. Ma una parte di sé è attraversata dal dubbio. Quanto conosce davvero Lorenzo? Cosa c’è dietro i suoi continui viaggi in Africa, l’impegno nelle periferie, i contatti con le alte gerarchie del Vaticano? E che senso ha l’amicizia, se rimane fissata nel tempo come una foto sbiadita, troppo debole per resistere ai pregiudizi?
Questo libro è per chi sogna di guidare una vecchia Citroen ds sulla via del mare, per chi si iscrive in palestra ogni anno per cambiare il corpo e la direzione, per chi non riesce a smettere di fischiettare Happiness is a warm gun ogni volta che la ascolta, e per chi sente di aver finalmente ricacciato il suo mostro nell’ombra impedendogli di divorare il cibo e gli affetti.
Giorgio Serafini Prosperi debutta come attore teatrale all’età di dieci anni, da allora ha scritto per il teatro (Premio Flaiano 1991 e 2001), la televisione, il cinema. È regista teatrale e documentarista. Da qualche anno è inoltre Mindfulness Counselor e si occupa di aiutare le persone con problemi di peso a ritrovare il piacere di mangiare in modo sano e consapevole. Sogna da sempre di scrivere una biografia di Adriano Panatta. E non essendo ancora riuscito a farlo, ha chiamato così il protagonista del suo primo romanzo.

Laura ParianiSempre per la stessa casa editrice milanese, NN Editore, è arrivato in Libreria il viaggio salvifico contenuto in “Di ferro e d’acciaio” di Laura Pariani, che inaugura la nuova serie CroceVia.
CroceVia è una serie di libri, curata da un caro amico dei Diari, Alessandro Zaccuri, attorno al senso e al significato di alcune parole fondamentali nella nostra cultura e nella nostra storia. Sono parole antiche, che usiamo tutti i giorni, e che cerchiamo di addomesticare disabitandole di una parte del loro significato, che continua a riverberare come un’eco sommessa. A Laura Pariani è stata affidata la parola Passione.
Tra distopie, desaparecidos e giustizia come “necessità di capire l’altro” questo libro di Laura Pariani arriva dritto al cuore. L’operatrice h478 ha l’incarico di sorvegliare il soggetto-23.017, una donna vestita di nero che si aggira per la Città in cerca del figlio, scomparso in circostanze a lei ignote. L’operatrice sa che il ragazzo è in carcere per attività sovversive, e segue su un monitor questa madre incredula aggirarsi instancabile nonostante divieti, barriere e continui dinieghi.Piano piano, la forza di quell’amore materno smuove qualcosa nell’animo dell’operatrice, così come le parole del ragazzo hanno scosso l’animo indifferente di altre donne, che in coro raccontano questa storia ambientata in un passato prossimo venturo, dove i nomi sono stati eliminati e le parole chirurgicamente rimosse per cancellare memoria, speranza e passione.
Laura Pariani vive a Orta San Giulio. Dagli anni Settanta si dedica alla pittura e al fumetto; dal 1993 si è occupata soprattutto di narrativa e di teatro. Tra i suoi ultimi romanzi: “Nostra Signora degli scorpioni” (insieme a Nicola Fantini, Sellerio 2014), “Questo viaggio chiamavamo amore” (Einaudi 2015), “Domani è un altro giorno” disse Rossella O’Hara” (Einaudi 2017), “Caddi e rimase la mia carne sola” (Effigie 2017).
«Accanto alla macchina. La mia vita nella Silicon Valley»Da poche settimane in Libreria «Accanto alla macchina. La mia vita nella Silicon Valley» di Ellen Ullman, tradotto da Vincenzo Latronico, Minimum Fax.

Dopo un dottorato in materie umanistiche, e con un passato da attivista politica alle spalle, Ellen Ullman si ritrova nella mitica Silicon Valley quasi per caso: all’inizio degli anni Ottanta un periodo di crisi del sistema accademico statunitense la spinge a cercare un lavoro temporaneo dove è più facile trovarlo, e cioè in quel settore tecnologico che, nella California del Nord, sta facendo da incunabolo alla rivoluzione digitale.
Programmatrice della primissima ora, doppiamente outsider in quanto donna e ultratrentenne, la Ullman racconta il fascino e le insidie legati al trovarsi «accanto alla macchina»: l’irresistibile attrazione esercitata da un lavoro neutro e razionale, tutto numeri e codici, e il rischio di dimenticarne la destinazione e la finalità ultima, che tocca sempre e inevitabilmente altri esseri umani, e spesso proprio i più indifesi e i meno preparati a fare i conti con il trionfo di un’economia immateriale.
Scritto nel 1997, quando l’era digitale era ancora alle porte, Accanto alla macchina è insieme saggio critico, riflessione personale e memoir, e conserva ancora oggi un’inquietante attualità. Attingendo alla propria esperienza professionale, familiare e sentimentale, con un talento compiutamente narrativo che, di lì a pochi anni, l’ha condotta a scrivere romanzi di considerevole successo, Ellen Ullman racconta cosa accade quando, illudendoci di «creare un sistema per i nostri scopi e a nostra immagine», finiamo per proiettare in quel sistema solo la parte di noi in cui regnano la logica, l’ordine e la chiarezza: con il rischio concreto che «più tempo passiamo a osservare un’idea ristretta dell’esistenza, più la nostra idea di esistenza si restringe».
Ellen Ulmann è programmatrice informatica e scrittrice. Ha scritto diversi saggi e articoli per Harper’s Magazine, Wired, il New York Times e Salon. Oltre ad Accanto alla macchina, bestseller negli Stati Uniti, ha scritto il saggio “Life in Code” e i romanzi “The Bug” (di prossima pubblicazione per minimum fax) e “By Blood”.
ColetteCon un viaggio nella Parigi affamata e insonne di Colette inizia un nuovo capitolo per la casa editrice Giulio Perrone. I tredici anni di attività vengono festeggiati con una nuova veste grafica curata da Maurizio Ceccato e “A Parigi con Colette” di Angelo Molica Franco è il titolo della collana “Passaggi di dogana” che inaugura ufficialmente questa nuova linea grafica della casa editrice romana.
Il libro è un breve viaggio nel tempo, una passeggiata immaginata tra luoghi e figure della capitale francese che non esistono più, ma di cui ancora riverberano il fascino e la memoria. Tra i cantori della Parigi di inizio ’900, spicca di certo la personalità con cui Colette ha pitturato i cambiamenti della Ville Lumière nella prima metà del secolo appena trascorso. Seguendo la parabola della grande scrittrice francese – dal suo arrivo in città dalla Borgogna nel 1893 fino ai funerali di Stato nel 1954 per la prima volta accordati a una donna dalla città di Parigi – Angelo Molica Franco offre al lettore un racconto all’altezza dell’occhio che guarda, puntuale ed emozionato, storiografico e insieme intimo della città tra ieri e oggi. Sfilano, così, il salotto di Madame Arman, il Moulin Rouge, il Café de Flore, il Trocadero, il ristorante Le Drouant che si mescolano, come nel più riuscito affresco, alle figure contemporanee a Colette quali il tanto dileggiato primo marito Willy, la poetessa americana Nathalie Clifford Barney, Gertrude Stein, Marcel Proust, Maurice Ravel e molti altri. Un piccolo libro in cui luoghi e destini congiungono i punti di un personalissimo reportage nell’anima di Parigi.
Angelo Molica Franco è giornalista e traduttore letterario. Collabora alle pagine culturali de «il Venerdì di Repubblica», «il Fatto Quotidiano» e «Vogue». Negli ultimi anni dell’intensa attività di traduttore si è adoperato per la riscoperta dell’opera di Colette, curando e traducendo diversi titoli che trovate sugli scaffali dei Diari tra cui “Le ore lunghe“, “La Stella del vespro“, “Mi piace essere golosa“.

Colette, già in vita fu un mito assoluta. Ricordata soprattutto per i suoi romanzi, fu una vera e completa artista e intellettuale: mimo, attrice, giornalista, imprenditrice, sceneggiatrice, drammaturga, modella. Visse le sue relazioni con le persone e con il mondo con l’intensità, la libertà, la tenerezza e la sincerità di chi sa che il suo sguardo è più acuto, e per questo non può accettare imposizioni. A partire dalle storie sentimentali con protagonista Claudine, scritte a quattro mani con il non geniale e poi abbandonato marito, fino ad arrivare alle sue opere più mature come “La fine di Chéri”, “Il kepì”, “Il puro e l’impuro”, tutti i suoi libri sono stati letti e tradotti in ogni parte del mondo. Alla sua morte la Chiesa cattolica rifiutò i funerali religiosi, e Colette fu la prima donna, in Francia, a ricevere le esequie di Stato.

“Le ore lunghe”, pubblicato da Del Vecchio Editore, sono una straordinaria testimonianza di un’epoca. Vengono raccolti in un volume i brani che Colette pubblicò anonimamente nel 1915.
Nel 1914 il marito di Colette, il barone Henry de Jouvenel des Ursins, parte per il fronte. Lei, al tempo redattrice per “Le Matin”, lo segue perché vuole vedere e sentire, e poi dar corpo nella scrittura, al quotidiano, a ciò che la gente fa, a quello che dice, come i bambini giocano, come si mangia e ci si veste, mentre al fronte sparano. Saint–Malo, Verdun, Parigi, l’Argonne, Roma. Nella corposa sezione Impressioni d’Italia, il genio di Colette offre un delizioso quadro di Venezia e pagine suggestive dal lago di Como. Composto tra il 1914 e il 1917, mai tradotto finora in italiano, Le ore lunghe è un reportage obliquo sulla Prima Guerra Mondiale. Mentre i quotidiani nazionali d’Europa si coprono di cronache di guerra, la scrittrice più stravagante di Francia si concentra sui giardini, sulle donne, sui colori, sul mare, sulle gonne, sulla vita. Il risultato è un resoconto delle lunghe, lente ore della guerra raccontato da chi sa filtrare il senso dell’attesa e della fantasia. Le ore che un ferito impiega a guarire, in cui una donna partorisce il figlio del nemico, ma anche ore in cui la sua Bel–Gazou assale i polli in un’aia, o le signore provano vestiti. Ore coraggiose nella bellezza, perché “la gioia è dappertutto, inevitabile”, e in tempi così bui, coglierla è un atto rivoluzionario. Una raccolta significativa anche per le cronache, indimenticabili, che Colette fa dell’Italia con la sua particolare sensibilità giornalistica.
Uscito per la prima volta nel 1946, solo grazie a Del Vecchio e a Angelo Molica Franco in anni recenti in Italia è “La stella del Vespro”, il diario in cui troviamo un’inedita e struggente Colette. La scrittrice si racconta in questa raccolta lungo frammenti scritti con la cura e la sofisticatezza a cui ormai ha abituato i suoi lettori e di cui è diventata maestra: gli avvenimenti e le osservazioni della vita quotidiana: i capricci di primavera; i viavai del compagno; le visite che riceve; le audizioni per la riduzione teatrale de La Seconde; l’impegno a raccogliere tutte le sue opere per il progetto Oeuvre complète per l’editore Le Fleuron; l’Académie Française. Ormai immobilizzata dalla vecchiaia, dal peso e dall’artrosi, osserva il cielo, il succedersi al giorno della luna o del vespro nel quadrato ritagliato dalle finestre della sua grande casa a Palais–Royal. Leggiamo una Colette malinconica e meditativa, chiusa nel suo appartamento, in cui riceve, mangia, scrive e legge: evoca i ricordi dai tempi della guerra, medita sulla sua condizione di invalidità e i suoi nuovi rapporti con il mondo da scrittrice “nota e riconosciuta” e, amabilmente, conversa con le sue care presenze, con gli esseri da lei sempre amati – appassionatamente o teneramente – come la madre Sido; la figlia di cui evoca il ricordo della nascita nel 1913; Bertrand; l’ex marito Henry de Jouvenel; Polaire; il migliore amico nonché terzo e ultimo marito Maurice Goudeket; il giovane reporter che va a intervistarla; la prostituta Renée che le appare nel giardino innevato della sua casa, un giardino che dalla descrizione si distingue a fatica da quello di Saint–Sauveur. Una Colette inedita, anziana che non esce più di casa, immobilizzata nel suo letto-scrivania, ma truccata e con le unghie laccate, un tailleur e un foulard blu, che sorride, e riceve persone in visita e scrive raccontì a puntate per i primi numeri di Elle. Ricordava ciò che era stato, quanto aveva vissuto e il divertimento infinito di non invecchiare nonostante l’età. “Sono una graziosa ragazzina dì ottant’anni… nessun miglioramento dell’artrite alle gambe.”
Arricchiscono il volume e accompagnano il lettore l’elegante postfazione di Angelo Molica Franco e la dettagliata nota biobibliografica di Chiara Carlino.

ColetteIn “Mi piace essere golosa”, nella collana Amazzoni di Voland, troviamo una Colette provocatrice e sensuale, appassionata,curiosa e innamorata della vita e dei suoi piaceri. Colette scatena, infatti, tutta la sua golosità di cibo e di vita in questi tredici articoli scritti per “Marie-Claire” tra l’ottobre del 1938 e il maggio del 1940.
Dalla cucina ai sentimenti, dal cinema ai fiori, la scrittrice francese ci parla di un tempo e di un luogo, Parigi, in cui anche arredare una casa o preparare per cena una zuppa di verdure, o un uovo affogato nel vino, possono essere un vero e proprio divertimento. Che si tratti di cucina, di amore, di animali, di fiori, lo sguardo dell’autrice si posa libero sul mondo che la circonda. Colette, donna libera ed eccentrica,in questi articoli svela anche quelli che sono i tratti ludici e inconsueti della sua personalità. Con una sensibilità profonda ci racconta la passione per il cibo, per i sapori ma anche per la vita e i piaceri veri della vita. Attraverso semplici e curiose ricette di cucina tradizionale prepotente appare la sua passione e la sua concezione del mondo, perché un buon piatto è “prima di tutto, questione di misura e classicità”.
Dal caffellatte al cioccolato arrostito, passando per lo spezzatino di montone e le castagne bollite, la scrittrice elargisce qualcosa di più di qualche consiglio: si tratta di veri e propri segreti del mangiar bene, a Parigi ma non solo, oggi come un tempo.
Come ci ricorda Guy Martin nella prefazione al libro:

“Colette si fa carico della propria sessualità. Le sue prese di posizione sono numerose. I suoi desideri sono costanti. La sua golosità è unica. Una vera epicurea nata sotto il segno della buona tavola.”

“L’amore, miracolo da spaccarvi le ossa, catastrofe stupefacente, ospite imperioso, muta in modo singolare quando si stabilisce in una fragile dimora terrestre… Accettatelo per quello che è. E vi stupirà per la sua longevità.”

Nello Zaino di Antonello: Portare avanti il difficile mestiere del libraio