di Alice Pisu

Libraia e giornalista, al timone con Antonello Saiz dei Diari di bordo, libreria indipendente a Parma, con la rubrica "I libri di Alice"
Libraia e giornalista, al timone con Antonello Saiz dei Diari di bordo, libreria indipendente a Parma, con la rubrica “I libri di Alice”

 

 

 

 

 

 

 

 
Cercando Courbet. La chiara fontana di David Bosch

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Gustave Courbet, Jo, la bella irlandese, 1866

Si nasconde tra le pieghe del viso di una donna, negli occhi semichiusi per il sonno o per il piacere, nella danza sotto le luci della Parigi insorta, nello sguardo assorto della bella irlandese mentre con una mano districa i suoi capelli rossi, nella nudità di due corpi femminili addormentati uno accanto all’altro, e nel primo piano di un sesso femminile che diventa l’origine del mondo, l’idea di libertà che muove il pensiero reso arte di Jean Désiré Gustave Courbet.

Un non allineato nel senso più alto del termine Courbet, volutamente al di fuori da ogni classificazione e definizione. Non sente alcuna altra appartenenza che al moto di libertà che solo nel rapporto individuale con le cose del mondo può dare forma e senso alla pittura. Chi è davvero Courbet? Il genio irriverente capace di immortalare un funerale con l’insolenza delle grandi dimensioni che per convenzione è ad appannaggio esclusivo della pittura storica? L’artista in grado di destare l’opinione pubblica tratteggiando la deriva della morale religiosa con l’immagine, poi distrutta per oltraggio, di un gruppo di preti che barcollano a causa dell’alcol per le strade di campagna? O l’intellettuale che, guardandosi allo specchio, vede un disperato, e sceglie questa definizione per dare un nome al proprio autoritratto fissato mentre, con gli occhi spalancati tra tensione e follia, guarda il mondo attraverso l’immagine di sé?

Una delle sue sorelle si addormenta per la stanchezza mentre fila, con il fuso in mano e lo scialle che le circonda le spalle. Quell’attimo colto nella sua spontaneità lontana da pose per composizioni artefatte, racconta chi è davvero Courbet e il senso della sua pittura, la necessità di narrare la vita e il reale attraverso l’opera, e non quanto di bello e armonico richiami ideali romantici nel proiettare un’immagine falsata e inconsistente del presente, della condizione umana. Sono questi gli istanti fugaci rubati al tempo in grado di qualificare l’arte: i volti ordinari di chi si assembla attorno all’ufficiante per un funerale di paese, le ferite dell’uomo abbandonato a se stesso privo di sensi che raccontano il dolore di una deriva privata, i luoghi di una natura sfacciata, le ossessioni poggiate su una tela che si fa strumento di un’idea di arte che arriverà anche a ispirare Manet, Cézanne, Renoir.

Clicca sulla copertina per accedere al sito della casa editrice.
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Come provare a entrare nella mente di un artista capace di riversare, nei tratti che negli anni racconteranno periodi diversi della sua crescita, la rivelazione dei suoi mutamenti interiori dall’età della giovinezza nei tentativi di ricerca di se stesso con esiti come “L’uomo ferito”, o “L’uomo con il cane nero”, alla consacrazione con “Il mare in burrasca” e “La falesia di Etretat dopo la tempesta”? Forse solo prendendo consapevolezza del fatto che Gustave Courbet fa della pittura anzitutto un atto politico. Sarà il romanziere francese David Bosc a calarsi nel labirinto di Courbet con “La chiara fontana”, ed. L’orma, (trad. Camilla Diez) per offrire un ritratto del pittore nei suoi ultimi anni, da quando, reduce dal periodo di massima acclamazione pubblica, arriverà all’esilio e alla morte, attraversando prima gli sconvolgimenti politici e sociali della guerra franco prussiana e, poi, la necessità di collocarsi nella costituzione della Comune con una posizione netta come intellettuale. Courbet sente l’urgenza di definire il proprio modo di fare resistenza attraverso l’arte anche promuovendo atti, come l’abbattimento della colonna Vendôme ritenuta simbolo dell’affermazione del militarismo, che poi incideranno nel suo declino costringendolo alla fuga in Svizzera.

Il linguaggio del pittore, sostiene Bosc, è come quello dello scrittore: non è che una voce a cui Courbet rivela il suo manifesto per l’individualità. Esiste un linguaggio oltre le parole e oltre ciò che una scena racconta nel suo richiamare il reale. Quello inventato da Courbet gli permette di usare la rappresentazione della realtà per tenere in scacco l’assurdo, una lingua nuova capace di raccontare un’idea di libertà che diventa la condizione fondamentale per l’affermazione dell’individuo nel determinarsi rispetto all’oppressione sociale e mentale da cui rischia di essere assoggettato se non prende consapevolezza della propria individualità. Grandi temi a cui guarda in quegli anni anche Arthur Rimbaud nei suoi versi vedendo la poesia come capace di spingere l’evento, di concatenarlo, di dargli un ritmo, come sottolinea Lorenzo Flabbi ne “Il poeta è un ladro di fuoco”. Anche Rimbaud risentirà del fermento culturale e sociale innescato dalla stagione della Comune, affascinato dalla sperimentazione di un nuovo modo di vedere la società al punto da fare proprie le istanze di rinnovamento immaginate in quegli anni, come dimostra nelle sue due celebri lettere indirizzate al professore di retorica Geogres Izambard e al poeta Paul Demeny.

Come la poesia, anche la pittura è in grado di sussumere l’evento, allora non sarà più fondamentale ritrarre dal vero, perché quell’infinito a cui Courbet riesce a tenere testa, gli permette di far sì che anche le celle della prigione di Sainte-Pelaige possano essere il suo altrove. Dà forma alla sua idea di libertà anche nel modo di rendere il piacere femminile, quello che cerca nei volti delle donne che accompagneranno la sua vita, quello che non trova nei bordelli in cui scorge i volti addormentati delle prostitute, quello che, attraverso le sue opere, prenderà la forma di una sorta di “libro segreto in cui la contemplazione dell’innocenza, dell’abbandono e del corpo che ha deposto le armi rivaleggia con il turbamento suscitato da una presunta strategia del desiderio”. Bosc si cala in quel linguaggio cercando di scorgere ciò che muove l’impulso vitale dell’artista, la chiave della pittura, come della scrittura. Diventa allora fondamentale dare forma, attraverso un romanzo atipico, all’elemento biografico e, al tempo stesso, alla visione critica della sua arte, per raccontare la complessità di una figura come Courbet anzitutto individuando quell’impulso vitale che per lui risiede nel dipingere e nell’immergersi in ogni corso d’acqua in qualsiasi stagione, anche in quelle gelide della Manica con la sua pipa in bocca.

Bosc costruisce il reale anche con l’uso dell’immaginazione, cercando di dare forma attraverso la scrittura a quel vuoto capace di muovere ogni cosa che domina nei pensieri dell’artista francese. È quando il pittore accetta di farsi soggiogare dall’oggetto, di lasciarsi dipingere dal lago nei colori delle sue acque e “ritrarre dal bosco, inzaccherare dall’animale, acquerellare dalla vagina rosa”, che prende forma l’incanto dell’opera. Occorre sentirsi parte di quel Grande Tutto descritto ne “La chiara fontana”, quello che porta il pittore a non avere una definizione diversa dal realismo nel richiamare lo scontro con la natura concepita come “una clemenza strappata all’assurdo”, per riuscire a capire anche il suo modo di declinare un’idea di realismo come tendenza programmatica nel dare una rappresentazione della società e degli ideali che dovrebbero muoverla, anzitutto quello libertario, e per riuscire a individuare la propria collocazione nel presente. In tal senso, l’opera più rappresentativa è “La bottega del pittore”, 1854, l’allegoria reale che Courbet definisce determinante nei sette anni della sua vita artistica e morale e che richiama la stratificazione della società del suo tempo con la netta divisione, tra gli eletti e appassionati di arte da una parte, e le persone del popolo che conducono una vita ordinaria dall’altra. Al centro il pittore, che si attribuisce così la funzione sociale di chi si sente un intermediario, mentre dipinge i suoi luoghi ispirato da una figura femminile che lo affianca, immortalata nella purezza della sua nudità.

Gustave Courbet, Autoritratto o uomo disperato, ca. 1843
Gustave Courbet, Autoritratto o uomo disperato, ca. 1843

La sua visione del presente risiede nelle riflessioni sulla condizione esistenziale dell’individuo e sulle manifestazioni esteriori di una ricerca inesausta. Per questo il suo guardare i poeti a lui contemporanei risente di una incomprensione che, a tratti, sfocia in disprezzo e, in altri, lo porta a trasformarsi in posa, pur generando in lui il disagio interiore nei confronti di quelli che Bosc definisce i disordini dello spirito. L’onestà pittorica di Courbet diventa contrattacco alla fiaba sociale, al modello luccicante di società e a quanto di artefatto il suo tempo sia in grado di produrre, arrivando a vivere con pregiudizio il modo in cui la poesia arriva a indagare il rapporto con quel tutto. Sono gli anni in cui la poesia si interroga sulla deriva della società, che in Baudelaire approderà alla ricerca di una dimensione onirica e immaginaria come rifugio dal mondo reale, rifiutando così il realismo e il positivismo. Inevitabilmente non potrà che essere contrastato il rapporto con l’autore de “I fiori del male” immaginato ne “La chiara fontana”, reso nel ritratto che Courbet fa del poeta di profilo, su un foulard di seta gialla e con le guance rosse, nell’atto di leggere e fumare una pipa. La scelta di immortalare un uomo di profilo, ricorda Bosc, significa attribuirgli un’individualità ma al tempo stesso ribadire all’osservatore che anche lui ne possiede una, anche se inibita da costrizioni esterne o da una mancata consapevolezza.

Parla costantemente con il suo osservatore Courbet, in ogni gesto, in ogni tratto. Ecco perché raccontarlo anche attraverso la sua vita richiede una narrazione diversa dalla biografia: induce a una sperimentazione anzitutto stilistica nel rendere personaggio letterario uno dei più luminosi esponenti della pittura europea dell’Ottocento. Nel compiere questo esperimento letterario, Bosc mette in luce finalmente non solo gli aspetti legati alle sue opere e i retroscena nel rapportarsi alla realtà che lo accoglie, ma ne racconta la dimensione più intima e privata come uomo, ancor prima che come artista, senza lesinare un uso sapiente dell’immaginazione. Tutto questo permette al lettore di avvicinarsi alle corde di Courbet offrendone un ritratto per certi versi inedito, rendendo le pagine del romanzo la tela dove dipingere al centro il pittore nudo mentre raffigura la sua idea del mondo.

Quando il racconto degli ultimi anni di vita di un artista segnato dall’esilio e da un declino artistico e personale diventa quasi un pretesto per una narrazione più ampia, significa che il lettore ha davanti molto più che strumenti di interpretazione delle sue opere: acquisisce la consapevolezza che la coscienza del tempo presente in un artista come Courbet abbracci molto più della sua epoca. È questo a renderlo capace di andare al di là della rappresentazione del reale, pur nutrendosi di essa nel delineare i grandi temi dell’esistenza. Esattamente ciò che fa Bosc con la scrittura: prendere per mano il lettore per permettergli di guardare al di là anche di una storia folle, dolorosa e appassionata come quella di Courbet per aiutarlo a trovare il proprio modo di rapportarsi all’arte per ricordargli che “Il quadro offre uno spazio per esistere a qualcosa in noi che ignoravamo”.

Letture di Alice Pisu. Recensione uscita su Repubblica Parma, Libri – Parole e dintorni, 24/10/2017

I Libri di Alice: La chiara fontana