di Alice Pisu

Libraia e giornalista, al timone con Antonello Saiz dei Diari di bordo, libreria indipendente a Parma, con la rubrica "I libri di Alice"
Libraia e giornalista, al timone con Antonello Saiz dei Diari di bordo, libreria indipendente a Parma, con la rubrica “I libri di Alice”

 

 

 

 

 

 

 

 

Andanza, fine di un diario. Sarah Manguso

Edvard Munch, The dance of life 1899-1900
Edvard Munch, The dance of life 1899-1900

Una cassetta rotta nel registratore, l’ultima lettera di un amico, la foto di una madre di spalle, sono brandelli di immagini fissate su carta nell’illusione di non dimenticare istanti che non sono tempo, ma che il tempo contiene. Capire come abitare il tempo attraverso un diario, e cercare di farlo tendendo a un linguaggio che sia pura esperienza slegandolo dalla ricerca stilistica, è l’interrogativo che Sarah Manguso cerca di dipanare tra le pagine di Andanza (NNE, trad. Gioia Guerzoni), costruendo la fine di quanto scritto nell’arco di oltre venticinque anni, per smettere di pensare a ciò che le accadeva e a cosa farsene.

Assumeva volta per volta sembianze e nomi diversi quel diario, da “Trigonometria” a “Equazioni differenziali”, senza il timore che qualcuno potesse leggerlo. Quel diario che ogni sera revisionava perché diventasse l’esatta rappresentazione di sé nel presente ma di cui era pronta a disfarsi a distanza di anni per non dover ricordare ciò che aveva fermato, diventa improvvisamente un monolite. Quel monolite è tale perché ogni pagina ha un senso solo in funzione della precedente e della successiva: pensare di consegnarlo al lettore può diventare un’operazione pericolosa se non si ha consapevolezza dell’insensatezza di provare a smembrarlo. Allora non resta che lasciarlo confinato in quei quaderni e provare a renderne l’essenza citandolo come la presenza costante fondamentale nella crescita, una parte indispensabile nell’igiene quotidiana ancor più del bagno.

Pagine in cui si interroga sul tempo, sulla morte, sulla memoria, sulla fotografia che ferma i momenti o li ruba, su un’idea di maternità vissuta nella percezione di non riuscire a trattenere i ricordi per poi immaginare di ricomporre i pezzi esplosi degli istanti vissuti che mostreranno che ciò che può apparire come una brutale sospensione spesso non lo è.

Di cosa parlare in un diario che racconta la vita? Quale filo narrativo seguire nella scelta di cosa omettere? Quanto di imperdibile o di dimenticabile restituisce il senso di fermare istanti per poi abbandonarli con la convinzione che riprendendoli anche dopo molti anni sia possibile fermare il tempo di quel pezzo di passato fissato in un’istantanea? Anche un evento apparentemente irrilevante può raccontare una parte di sé, quel nulla su cui già Flaubert si interrogava, il “piccolo niente” motore di riflessioni in letteratura, l’imprevisto capace di determinare anche la Storia. Quella forma primordiale di scrittura può diventare il racconto di sé richiamando avventure di viaggi intorno al mondo, come insegna Darwin, legarsi alle suggestioni dei luoghi degli ultimi viaggi prima di una fine attesa, come per Virginia Woolf; o rapportarsi alla guerra per raccontare una devastazione interiore, come per Primo Levi, farsi testimonianza della violenza dell’uomo nelle pagine di Anna Frank, o reclamare quell’impulso euforico nel voler stare ancorati ai propri luoghi anche se devastati, come Zena El Khalil in “Beirut I love yoy”.

Ci sono diari che sono fatti di ricordi, anche attraverso espedienti letterari per dare loro una forma nuova, come nella pagine di Michail Bulgakov, o altri che sono riflessioni su questioni morali e cronache del presente, come per Fëdor Dostoevskij, sperimentazioni per dare forma a un laboratorio intimo dell’animo, come nei cahiers di Paul Valery, o espedienti per scavare nei propri tormenti e poter parlare a sé stessi e al mondo intorno, come Franz Kafka con i suoi “Quaderni in ottavo”. Arrivare a raccontare il mestiere di vivere, come fa Cesare Pavese nei suoi appunti durante il confino per la condanna del tribunale fascista, può rendere un diario il mezzo per andare al di là del racconto degli eventi del presente per diventare riflessione sulla propria condizione esistenziale, come scrittore e come uomo.

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Un terreno scivoloso raccontarsi in un diario quando si ha piena consapevolezza del proprio ruolo di scrittore, perché quelle pagine possono diventare una minaccia. Si scrive sempre per un lettore, in fondo, anche in un diario intimo. E se il tentativo di mostrarsi nudi davanti a chi prenderà in mano quelle pagine rende il diario un ponte tra chi scrive e chi legge nell’offrirgli nuovi mezzi di comprensione sulle ragioni della scrittura, quella presa di coscienza può rendere impuro il senso di appuntare eventi di qualsiasi natura, anche minimi, rivelatori di sé attraverso i propri pensieri nel cercare di fermare il presente e renderlo ricordo. Per cercare di eludere quel pericolo, Manguso approda a una sorta di operazione metadiaristica, scegliendo di preservare le pagine del diario della sua vita lasciandole confinate nei quaderni di “Trigonometria”, per arrivare invece a tratteggiarne il sentimento, a raccontare il peso di quel diario come operazione per capire come trovare la propria dimora nel tempo senza inciampare in un “difetto del carattere”, come vivere sognando il futuro o vivere nel passato immersi nella nostalgia.

Il futuro entra in noi, per trasformarsi in noi, molto prima che accada, scriveva Rainer Maria Rilke nelle “Lettere a un giovane poeta”, riflettendo sulla necessità di provare a invertire il modo di concepire la direzione del tempo per ribaltare la convinzione che siano gli eventi a incidere nella costituzione dell’individuo. Lo specchio, quello che per i taoisti è lo sguardo ritornato, non riflette la nostra immagine come è nella realtà, sottolinea Tabucchi in “Dietro l’arazzo”. Se si prova a concepire la vita scritta come uno specchio, solo contemplando un capovolgimento può essere accettabile un’immissione della biografia nella scrittura. Maguso compie uno stravolgimento nell’idea stessa di concepire il diario raccontandolo nella sua fine, che risiede nell’atto di riannodare i fili del proprio discorso interiore. Riflette sull’esigenza di scrivere e su quella altrettanto forte di non scrivere, perché essere madri impone la presa di coscienza di una necessità più grande e totalizzante, che predomina sulla propria nel raccontare ciò che si vive, pensando unicamente a fruire di quei momenti che, nell’andare dimenticati, diventeranno poi il prezzo di quella partecipazione continua alla vita.

Nell’intento di cercare una sottotrama di un diario atipico, Manguso si interroga sul peso della memoria, percependo che l’oblio non sia poi così lontano dall’idea di morte stessa nell’entrare in un vuoto continuo. In fondo ogni inizio e ogni fine sono illusori. La morte diventa oggetto di riflessione fondamentale per dare un senso alla vita nell’immaginare la propria volontà come una forza che non sarebbe stata destinata a scomparire con un esaurimento fisico. Il senso della fine era già l’oggetto delle sue riflessioni nell’elegia memoir dedicata all’amico suicida Harris, comprendendo che, come per il diario, la scelta formale e stilistica diventa fondamentale per marcare il cammino. L’inquietudine della scrittura per portare fuori da sé il dolore della perdita di una persona reale non si sarebbe potuta incastrare nell’impalcatura artificiale di una trama. Allo stesso modo, il racconto della sua vita attraverso l’osservazione del tempo per fissarne gli istanti che hanno contribuito a definirla come donna, per lei non sarebbe potuto passare che dalla scrittura del diario del proprio diario.

Gli appunti di Sarah Manguso si posano leggeri sulle grandi riflessioni dell’esistenza: il senso della vita in funzione della morte, la maternità capace di rendere una donna il tempo e lo sfondo in cui suo figlio vive, la memoria di ricordi scelti e plasmati sulla base della ricostruzione di sé in funzione del passato, il senso di una foto dell’anziana madre del marito con la mano sulla testa mentre guarda altrove. L’ossessione del tempo che domina le pagine non riguarda la paura di invecchiare, ma il timore di perdere le sfumature del proprio passaggio nella vita se non ci si sofferma a osservarlo. Allora non resta che cercare di fermarlo dando vita a ricordi, che diventano memorabili a prescindere dalla loro apparente inutilità come eventi singoli. “La cosa migliore del tempo è il privilegio di vederlo esaurirsi“.

I ricordi possono anche essere il tramite per raccontare le trasformazioni dell’individuo che Manguso riesce a vedere solo attraverso lo scorrere del tempo, appuntandoli per poi cercare di dimenticarli, con la certezza di ritrovarli ogni volta che ne avrà bisogno tra le pagine di quelli che sembrano solo appunti di “Trigonometria”. Allora aprire un diario può diventare stupore puro nello scoprirsi diversa rispetto a quando, a vent’anni, sentiva di voler smettere di scrivere ogni volta che si imbatteva nella bellezza, o quando, a trent’anni, viveva l’urgenza di storie di scrittura arrivando poi, dieci anni dopo, ad asciugare il linguaggio e a togliere costantemente il pronome personale nel raccontarsi.

ErnauxSe scrivere un diario può essere un modo per osservarsi uscendo da sé e analizzando i propri tentativi di elaborare il presente nel modo di raccontarlo, anche approdando anche alla costruzione di un nuovo tipo di autobiografia come fa Annie Ernaux, scrivere la fine di un diario evocando il lavoro interiore svolto in quelle ottocentomila battute di venticinque anni di vita, diventa un esercizio di comprensione di sé attraverso il tempo. La necessità di dare una conclusione a quel processo è sancita nel momento in cui si riesce a vederlo nella sua compiutezza e a percepire il peso dei vuoti e dei pieni che però si rivela inconsistente per riflettere sulla felicità. In fondo, nel cercare un’idea di felicità, non conta ottenere ciò che si desidera ma essere testimoni della fiducia nel futuro, propria o di chi si accompagna in quel percorso, come fa Sarah Manguso con i suoi studenti.

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Occorre ritornare alla dimensione dell’infanzia, a quella che per Marino Magliani è un esercizio di sopportazione per quando le altre stagioni proveranno ad esplodere. È nell’infanzia che risiedono le risposte, è in quella dimensione, precedente all’acquisizione di un linguaggio proprio, che si vivono ricordi preverbali che poi andranno perduti. E, se esiste un modo per ricordare ciò che si provava nel mondo fisico senza le parole, l’altro diventerà l’elemento dirompente, la possibilità di ritrovare quel luogo interiore prima che la morte fisica di chi custodisce quel patrimonio possa sancirne l’oblio decretando la scomparsa definitiva della propria infanzia anche a cinquant’anni. “È quasi doloroso pensare al catalogo di emozioni che scompare alla morte di qualcuno, e al fatto che ci affidiamo a poche persone per tenere traccia di quello che la vita significava per loro.”

L’interrogativo che Manguso lascia nel lettore è la necessità di scrutare la continuità del tempo nel momento in cui quell’oggetto di contemplazione si eclissa. Ecco che allora quell’andanza prende forma per diventare finalmente l’approdo di una ricerca che risulta inesausta solo nella sua apparenza. “Eccomi, a danzare la mia breve danza, per qualche istante, nello sfondo dell’eternità”.

(Letture di Alice Pisu. Recensione uscita su Repubblica Parma. Libri. Parole e dintorni, il 17 ottobre 2017)

I Libri di Alice: Andanza