di Alice Pisu

Libraia e giornalista, al timone con Antonello Saiz dei Diari di bordo, libreria indipendente a Parma, con la rubrica "I libri di Alice"
Libraia e giornalista, al timone con Antonello Saiz dei Diari di bordo, libreria indipendente a Parma, con la rubrica “I libri di Alice”

 

 

 

 

 

 

 

 

La vita felice

Letture. Alice Pisu (Diari di bordo) racconta il nuovo romanzo di Elena Varvello, La vita felice, Einaudi, la storia di un padre che vive un profondo disagio mentale raccontata tra il passato, nel 1978, e il presente, attraverso lo sguardo di un figlio che cerca perennemente le risposte.

Varvello

È seduto in cucina, al buio, Ettore Furenti. Passa le notti a bere e fumare, la lattina tra le gambe, la cenere della sigaretta sulla canottiera. Lo trova spesso così suo figlio Elia, 16 anni e un mondo dominato da un padre ingombrante che nei suoi deliri di onnipotenza sente di essere Dio, pur non credendo in quella “invenzione per i più deboli”. Soffre di bipolarismo. Ettore Furenti è un uomo alla deriva tormentato dalle sue ossessioni, la perdita del lavoro in fabbrica, i complotti contro di lui, le voci nella testa. La sua mente è lontana, vaga perennemente in un altrove dove cercare conforto, dove poter placare i tormenti. 

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È  un continuo gioco doloroso di immaginazione l’incedere della storia narrata da Elena Varvello ne La vita felice, Einaudi, che traccia il desidero di ogni personaggio di evadere da una realtà famigliare in sfacelo percorrendo sentieri dove il confine tra il reale e l’immaginifico si fa invisibile. È la dimensione in cui un figlio, nel tentativo di comprendere un padre malato, tenta di calarsi nei suoi pensieri e di immaginare ciò che lui immagina, di vederlo trovare conforto solo vicino all’acqua, o sentirlo chiedere perdono mentre a tavola si guarda mangiare, ridere, parlare. La vita felice, romanzo perfetto nella struttura, nell’incedere della narrazione, nella potenza della trama, è il modo di raccontare un padre, di scavare nella mente di un uomo malato che sente di dover lasciare un’impronta di sé a suo figlio, come quella del suo corpo sulla neve quando ci si butta a gambe e braccia aperte convinto che sarebbe rimasta lì per tutto l’inverno. Varvello investiga un conflitto irrisolto alternando costantemente le dimensioni temporali, il passato del 1978 a Ponte, e il presente dove Elia, da adulto, prende consapevolezza dell’uomo che è diventato proprio guardando al passato. William Maxwell, citato in esergo, sostiene che parlando del passato mentiamo su ogni cosa. Elia si nutre di quel passato per cercare le risposte: usa l’immaginazione, il solo modo che ha a disposizione per entrare nei tormenti e nei pensieri di un padre incomprensibile. Per questo La vita felice è anche un romanzo di formazione atipico, perché accompagna la crescita emotiva del protagonista che si scopre uomo e capisce chi non vuole diventare, emancipandosi da quel modello.

Al di là della potenza della storia narrata che è un continuo incedere verso un dolore più grande, il peso di un romanzo come La vita felice è nel condurre il lettore a confrontarsi con la ricerca ostinata di una stabilità famigliare irraggiungibile, resa attraverso l’immagine di una casa ridotta in cenere mentre si alzano fiamme invisibili. È nella presa di coscienza che a volte l’unico modo per sopravvivere al dolore è dare vita a illusioni alimentate dalla costruzione di altre realtà, dove magari è ancora inverno e ci si rincorre in cucina con una pantofola a forma di maiale, o dove quel padre non esiste: una vita più semplice. “Avevo l’impressione già da un pezzo che la vita fosse una spinta inarrestabile e che una cosa del genere, il fatto che non potesse mai fermarsi, per nessuno, che continuasse a scorrere, mi avrebbe tenuto a galla, in qualche modo”.

Una fine narrazione che si coglie da particolari come la vestaglia indossata dalla madre di Elia, con un motivo fantasia dalle palme talmente inclinate dal vento da sembrare sul punto di sradicarsi, ma che restano ancorate alla terra come lei, la madre-ombra piatta e invisibile agli occhi del figlio, eroina suo malgrado in una realtà famigliare in sfacelo. Quell’apparenza fragile può ingannare il lettore, a cui lei invece dimostrerà di avere piena consapevolezza della sua condizione non relegata a un cieco ottimismo. Lo farà tenendo in mano Cime tempestose di Emily Bronte per descriverlo così a suo figlio: “Parla di quando non riesci ad avere quel che vuoi, oppure non vuoi quello che hai”. L’inverno tornerà, ne è convinta, è l’unica cosa che desidera, allora indossa di nuovo le sue pantofole, quelle a forma di maiale, cercando rifugio in un’illusione rassicurante.

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La vita felice porta il lettore a confrontarsi sul modo in cui nell’educazione le altre forme di genitorialità non biologica possano agire influendo nella crescita dell’individuo. Ne parlava già Kafka nelle lettere raccolte nel volumetto, edito da L’orma, Come non educare i figli, distinguendo tra due tipi di educazione, quella famigliare e quella vera, legata agli agenti esterni che nella società sono fondamentali nel percorso di crescita sin dalla tenera età. Il primo entomologo dell’habitat famigliare, come lo definisce Marco Federici Solari, sviluppa una riflessione sull’essere animale della famiglia che poi sarà portata avanti in letteratura nei secoli successivi richiamando approfondimenti anche nella grande narrativa italiana, da Camere separate di Vittorio Tondelli a Il male oscuro di Giuseppe Berto, e che anche nella letteratura contemporanea appare come una ricerca insoddisfatta, incompiuta. La riflessione su forme alternative di genitorialità nell’educazione può anche approdare alle immagini del mito, come dimostra Alessandro Garigliano, che in Mia figlia don Chisciotte, NNE, compie una rilettura critica dell’opera di Cervantes identificando in Sancio l’incarnazione del modello di padre a cui guardare. Un esempio rilevato non nel suo essere biologicamente padre dei figli che lascerà nel momento in cui preparerà l’asino per partire verso l’ignoto cammino, ma nella sua attitudine nei confronti dell’hidalgo, con le premure e la capacità di restare ancorato alla concretezza e, al contempo, alimentare le suggestioni e l’utopia donchisciottesche. Il titolo stesso de La vita felice richiama le parole pronunciate da una donna che, in un momento delicato della vita di Elia, ha sentito di dover incarnare il ruolo di “altra” madre, per trasmettergli la convinzione che un giorno avrebbe raggiunto quella condizione. Non importa se quella donna fosse realmente capace di leggere la mano: quelle erano le parole giuste da dire a un ragazzo di 16 anni, trasmettergli che, anche davanti a un dolore incolmabile, la vita nella sua imprevedibilità può rendere capaci di provare stupore e meraviglia per le piccole cose, come gli insegnerà anche la sua vera madre, nell’esortarlo a non provare delusione, perché la delusione tiene legati alle cose sbagliate.

La vita felice racconta il modo in cui le fragilità umane possono emergere in superficie attraverso il dolore, che si tratti di una depressione capace di devastare un padre, o dei tentativi di fare i conti con una perdita, con il vuoto generato, con gli spazi bianchi. Sono le  innumerevoli sfaccettature dell’animo umano, le inquietudini di chi cerca di contenere il caos che ha dentro, a essere messe in rassegna attraverso descrizioni per immagini, canti di uccelli che sembrano pianti, luci di fari che tagliano il buio, o il sibilo del vento che pare curvare e sprofondare tra i rami, per approdare con la mente a luoghi visti per la prima volta solo quando si prende consapevolezza di ciò che si è diventati e si impara a capire chi è l’altro.

È la lotta col padre, il partito perso del comprenderne i pensieri a 16 anni, l’intento di provare per lui un bene tardivo davanti a un disagio che trasfigura e richiama le parole di Carlo Emilio Gadda su quel male oscuro che, come scrive ne La cognizione del dolore, ci si porta dentro di se “per tutto il fulgorato scoscendere d’una vita, più greve ogni giorno, immedicato”. La storia in un certo qual modo si scrive da sola, riflette Giuseppe Berto mentre innesta la sua scrittura nelle pieghe del disturbo bipolare. Vede fatti e pensieri sgorgare in parte in modo automatico, perché provengono da quelle che ne Il male oscuro definisce oscure profondità dell’essere, dove prima è la malattia e poi è la cura ad agire, per stimolarli a emergere. La scrittura, un’ossessione per strutturarsi, un rifugio o una finzione intollerabile, può assumere, come per Elena Varvello, un ruolo salvifico e diventare un altrove dal tempo fermo in cui trovare il proprio padre in quel luogo abbandonato “dove la pioggia cade ormai da anni”. È il modo di rendere memoria i ricordi, e far sì che la scrittura, come dice Annie Ernaux, possa attingere a quel serbatoio e nutrire, così, la trama di una storia inventata. Inventare, come direbbe Garigliano, per dare consistenza alla vita.

(Recensione uscita su Repubblica Parma, Letture di Alice Pisu. Libri, Parole e dintorni, 10 luglio 2017)

I Libri di Alice: La vita felice
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