di Giovanni Accardo

Giovanni Accardo
scrittore, docente, saggista e organizzatore di eventi culturali a Bolzano.

 

 

 

 

 

 

 

In uno dei testi contenuti nel volume Conversazioni del vento volatore (Quodlibet 2011) Gianni Celati sostiene che “quando si scrive dimenticando del tutto se stessi si va in un viaggio forse simile a quello degli sciamani, dove si sentono voci che portano notizie, comandi, suggerimenti, o anche parole che non conosciamo e che dopo scopriamo esistono davvero.” In opposizione a quella che chiama letteratura industriale, cioè quella che produce libri per tutti, secondo i gusti richiesti dall’industria del libro, Celati teorizza le fantasticazioni, cioè narrazioni senza trama con l’obiettivo, ad esempio, di trasformare la malinconia in stati comici ed espansivi.

Cop_DE_VIVO-220x338L’idea di letteratura teorizzata e praticata da Celati torna molto utile per leggere il curioso libro di Enrico De Vivo, Poche parole che non ricordo più (Exòrma 2017, pp. 164), un libro che inizialmente ha le fattezze del romanzo, con un narratore che parla e descrive in prima persona, ma di cui non sappiamo nulla, perché non si presenta. Qual è il suo ruolo? Forse è come quei cantastorie che negli anni ’60 giravano per i paesi della Sicilia, che, accompagnati dalla chitarra, raccontavano delle storie, legando tra loro una serie di quadri illustrativi montati su dei pannelli. D’altronde, il libro di cui ci stiamo occupando si apre proprio con la musica, con la mano sinistra di un giovane pianista che scivola sui bassi leggera come un fuscello e precisa come un respiro. Il breve capitolo iniziale funziona come un preludio o una prefazione che ci guida nella vicenda che sta per partire, dove la musica e il canto sono importanti quanto le parole. Sappia dunque il lettore che non dovrà seguire soltanto le parole, ma anche la loro musica, fatta di pause e silenzi.

Quella sera d’inverno era andata a finire che io e Gargiulo scappavamo a bordo della sua scalcagnata vespa bianca. Gargiulo, amico d’infanzia del narratore, è un musicista blues che ha trascorso tanti anni in giro per il mondo. L’avventura sembra sul punto di decollare e invece subito s’interrompe, perché Gargiulo sparisce nel caos della stazione di Napoli, senza neppure salutare l’amico che l’ha accompagnato e senza dire dov’è diretto. L’improvvisa partenza suscita malinconia nel narratore, che sulla via del ritorno si ricorda di Rossana, una donna dall’età indefinibile e dall’aspetto di maga nordica che abita all’ultimo piano di un palazzo altissimo. Passa a trovarla, ed è proprio lei a dire al narratore “poche parole che non ricorda più” e che però lo fanno cadere in un sonno profondissimo, durante il quale sogna un futuro in cui, per disposizione legislativa, non ci saranno più scrittori, lettori e librerie. Allora torneranno nel mondo i poeti-filosofi, che con l’ingenuo atto di nominare danno vita al mondo, lo conoscono e ne gioiscono.

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Insomma, quello che sembrava un romanzo con una precisa ambientazione e con personaggi pronti ad agire, si trasforma in un viaggio onirico. L’azione, infatti, si sposta nei pressi di una conca, dove c’è un piccolo lago di un verde scuro e profondissimo. Qui abitano coloro che sono stati espulsi dalle città e la cui condizione di abbandono li ha ridotti ad una condizione di non umanità. A occuparsi di loro è l’omino rotondo, che trascorre mesi e anni con loro senza mai annoiarsi, interrogandoli e registrandone i comportamenti; le sue ricerche, tuttavia, sono scritte con una lingua inventata, i cui caratteri somigliano a disegni minutissimi. È una popolazione felice, in cui ciascun essere entra in contatto con gli altri secondo delle leggi musicali, per cui qualsiasi cosa faceva era come se cantasse. Con l’omino rotondo inizia una sfilata di personaggi originali, non sempre collegati gli uni agli altri, quasi fossero protagonisti di brevi racconti: l’etnografo Pasquale Viola, convinto che le idee, per essere utili, bisogna lasciarle al loro stato aereo e transeunte; il Conoscitore di Mappe, secondo cui le mappe possono far perdere la strada perché parlano di cose completamente diverse da quelle di cui parlano i giornali e la tv; il piastrellista Gennaro Di Gennaro, gran lettore di poemi antichi che ovunque vada porta sempre con sé qualche libro che solo lui capisce; Torquato Scapece, che per tutta la vita non ha fatto altro che scrivere drammi ispirati alla sua grande passione per il teatro barocco e che trascorre intere giornate al Bar Nazionale; Felice Sportiello, un visionario convinto che il mondo vada guardato da lontano, da prospettive insolite e persino pericolose; Agostino Barbella, che dal manicomio criminale scrive lettere le cui idee sembravano più importanti per come erano scritte che per il loro contenuto.

De-Vivo-Enrico-FOTO-220x280Qualcosa di simile a una forza centripeta sfalda il romanzo in tante microstorie, dando vita a un testo polisemico difficile da incasellare in una definizione univoca: poema romanzesco, romanzo a cornice, raccolta di novelle. Ma quella che potrebbe sembrare una difficoltà, diventa invece la sua ricchezza, perché ci mette di fronte ad un libro cangiante e in continua metamorfosi che è molte cose insieme: meditazione filosofica, allegoria del presente, dove i libri e lo studio non hanno alcuna utilità; manuale di poesia che s’interroga sulla musicalità della parola e trattato di narratologia che riflette sul senso dello scrivere; satira contro i premi letterari e i critici mielosi e adulatori; testo che si prende gioco dell’ispirazione e provocatorio verso i lettori e gli scrittori conformisti; forse metafora della scuola nell’epoca dei test standardizzati che respingono la diversità e l’originalità; infine romanzo aforistico.

In uno scritto del 1967, La letteratura come menzogna, Giorgio Manganelli scrive che l’oggetto letterario è oscuro, totalmente ambiguo, inesauribile e insensato, una taciturna trama di sonore parole. La parola letteraria è infinitamente plausibile, dice Manganelli, e la sua ambiguità la rende inconsumabile. Proprio come il libro di Enrico De Vivo, non consumabile perché al di fuori delle mode e dunque sottratto al tempo. E se in letteratura ciò che conta è la lingua, giacché è con essa che l’immaginario dà forma al mondo, Poche parole che non ricordo più si colloca pienamente dentro la letteratura, grazie alla sua lingua espressiva, allusiva e fortemente simbolica.

Poche parole che non ricordo più
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