di Antonello Saiz

Libraio a Parma con Alice Pisu di “Libreria Diari di bordo”
Libraio a Parma con Alice Pisu di “Libreria Diari di bordo”

 

 

 

 

 

 

 

Letteratura ai margini. I vinti che fanno la Storia

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Una mia carissima amica di nome Eloisa mi ha spiegato, in una partecipatissima mail, che il tempo non cancella, ma con le persone che non ci sono più fa in modo che ci rimangano accanto in modo positivo, come una presenza che ci sarà sempre nei ricordi belli e in quelli tristi e più recenti. Quando dicono che con il tempo tutto passa ti incazzi a morte perchè sai che non è vero, ma è vero che il tempo elabora e trasforma, e ci rimane accanto una presenza che è calore non più dolore, lo accettiamo, ci conviviamo… Questo fa il tempo con il suo mestiere e non si può che attraversarlo. I dolori sono parte integrante della vita, li affrontiamo tutti prima o poi e non c’è una giustizia in questo. Può aiutare sapere che molti volti sorridenti, e profili sui social che mostrano solo leggerezza, a volte nascondono tanto dolore. Sapere che ognuno nel mondo combatte lotte dure, e andare avanti, cercando anche piccoli spazi di gioia che aiutano, perchè la gioia torna, senza per questo dimenticare chi ci ha amato e amiamo. Sono facce della stessa medaglia, dolore e felicità non danno preavviso ma esistono insieme, e noi affrontiamo entrambe… non c’è altro modo.

17974335_10213305856069568_1903914318_nVenerdì 14 aprile abbiamo presentato ai Diari un libro pubblicato da Edizioni Spartaco nella collana Dissensi e dal titolo “Il Tempo fa il suo mestiere” di Mariastella Eisenberg.
In questa collana di narrativa il progetto editoriale è chiaro fin dal nome: “dissensi” non soltanto di natura politica, ma ricerca di forme di scrittura moderne e di rottura, letterature ai margini. Del resto la casa editrice nasce in un territorio di frontiera, Santa Maria Capua Vetere in Campania e dal 2003 resiste e solca il mare agitato della distribuzione nazionale. Una piccola casa editrice, una casa editrice del Sud, una casa editrice di Terra di Lavoro deve avere più coraggio,deve tenere duro e andare avanti e sfidare il lettore nel ritagliarsi il suo spazio di libertà, complici gli autori che meglio e con più efficacia riescono a raccontare, a dire, a comunicare.

Ci siamo salutati, prima di una piccola pausa pasquale, con un libro di Edizioni Spartaco, assieme all’amica dei Diari Roberta Maggiali che ha condotto la serata: un libro bello e denso di microstorie femminili ignorate dalla storia e dalla memoria. Un libro che segna un passaggio fondamentale tra i libri che parlano di integrazione. La Maggiali ha messo in rilievo che siamo in presenza di una scrittrice che scrive in maniera talmente singolare e femminile e capace di riportare alla memoria immediatamente ad altre due scrittrici: Emily Dickinson, che sul tema del tempo che non lenisce e fa il suo mestiere era maestra, e Lea Melandri che da sempre sostiene la violenza di confini e e le guerre maschili che hanno dilaniato e diviso le donne.
Si parla in questo libro proprio di questo: di donne, di popoli erranti e sradicati, di confini.
18035008_10213305856309574_765577566_nSara è un’adolescente ombrosa e inquieta. Ha solo sedici anni quando, una mattina di fine febbraio, s’imbatte in Giuseppe, ragazzo schivo e taciturno. I due si amano. Nove mesi dopo vengono alla luce due gemelli, una maledizione per chi nasce in Moldavia. Un neonato, Tobia, viene fatto passare come figlio dei genitori di Sara; l’altro, Simone, viene prima affidato alle cure di un orfanotrofio, poi adottato da una coppia francese che lo conduce a Lione. Sintesi felice di molti generi, romanzo, testimonianza, denuncia, “Il tempo fa il suo mestiere” è una saga familiare intessuta su silenzi colpevoli, rancori sotterranei, sentimenti granitici. Ai giorni nostri, a Gerusalemme, città sacra a ebrei, cristiani e musulmani, si scioglieranno i nodi di questa appassionante vicenda umana, che prende il via nel 1912 in Romania e trova il suo sviluppo negli anni Cinquanta in Italia, nell’incanto del golfo di Napoli. Due guerre mondiali sconvolgono il vecchio continente e milioni di esseri umani, durante e dopo i conflitti, devono fare i conti con tutti i peccati della Terra. «La morte era “un maestro tedesco”, ma aveva uno zelante apprendista rumeno. Ancora oggi in Romania tutto questo viene taciuto e distorto, più di quanto non venga ammesso». Così scrive il Premio Nobel Herta Müller. Mariastella Eisenberg racconta dei Rosenberg, famiglia ebrea di etnia tedesca, attraversando i tormenti del Ventesimo secolo, laddove le ragioni della storia cedono il passo ai diritti del cuore e del vissuto quotidiano. E lo fa con lo stile che le è proprio, con l’immediatezza delle immagini, la prosa agile e mai retorica .

A proposito di margini e confini, popoli erranti e sradicati bisogna tener presente un testo pubblicato dalla casa editrice Keller nella collana Passi e dal titolo “Il libro dei sussurri” di Varujan Vosganian.
Pubblicato nel 2009, “Il libro dei sussurri” ha ottenuto sin da subito uno straordinario successo di critica, tanto da essere considerato il libro romeno più venduto degli ultimi dieci anni. Numerosi sono i riconoscimenti concessi al romanzo e all’autore tra cui il Premio Libro dell’anno (2009) della rivista «România literar?», il Premio “Mihail Sadoveanu” per la prosa della rivista «Via?a Româneasc?» (2009), il Premio per la prosa e il Premio dei lettori della rivista «Observatorul Cultural» (2009), il Premio della rivista «Convorbiri literare» (2010), il Premio BestSeller della Fiera del Libro “Librex” di Ia?i (2010) e il Premio per la prosa della rivista spagnola «Niram Art» (2010).
“Il libro dei sussurri non è un libro di memorie, poiché gli eventi rimemorati nelle sue pagine non sono i miei ricordi. Direi che è piuttosto la biografia del XX secolo narrata da coloro che l’hanno vissuta. Nel Libro dei sussurri ritroviamo tutte le malattie di quel secolo: le guerre mondiali, il genocidio, il totalitarismo, l’esodo e la ricerca vana di sé. Il secolo XX ha inventato la morte non quantificabile e le fosse comuni. Si tratta prima di tutto della tragedia del popolo armeno, ma anche della tragedia del popolo romeno, di tutti coloro che hanno subito la storia, invece di viverla. Tutti i personaggi sono reali, gli accadimenti che hanno vissuto sono reali e proprio per questo Il libro dei sussurri appare così inverosimile, proprio perché è reale. Non mi sarei arrischiato a scrivere di tutto questo, se non vi fosse stato un fondo di spietata realtà”.
Tutto ha inizio nella piccola città di Focsani, in una strada armena, tra i vapori del caffè, gli aromi della cantina di nonna Arshaluys, i libri antichi e le fotografie appartenute a nonno Garabet. Il piccolo Varujan guarda un mondo colorato dallo sguardo dell’infanzia e ascolta le conversazioni e le storie favolose di alcuni vecchi armeni che, per parlare liberamente, si nascondono in una cripta.
Prende vita così, in un’atmosfera già densa di presagi, uno straordinario romanzo, una vera e propria epopea nella quale partecipando ai destini dei personaggi, alle guerre, ai viaggi, alle fughe, alle avventure, agli amori, alle vite che si compiono nella fine, si segue passo dopo passo, con continui salti di tempo e di spazio, l’intera storia del Novecento, il destino umano e in particolare quello del popolo armeno, del suo genocidio e della sua diaspora.Un romanzo fuori dal comune, dall’ampiezza di respiro inusuale, popolato da personaggi indimenticabili e che è allo stesso tempo narrazione personale, libro identitario per il popolo armeno e tributo a tutti coloro che hanno subìto la Storia.
Considerato dalla critica uno dei capolavori della letteratura romena post-comunista, è stato poi l’apprezzamento dei lettori che l’hanno trasformato nel maggior successo editoriale degli ultimi dieci anni. Attualmente il romanzo è in fase di traduzione in numerose lingue.
George S. Schuyler, in a radio studio in his sixtiesPubblicato da Voland è il libro di George S.Schuyler “Mai più nero” nella traduzione di Anna Hilbe. Non si tratta di un romanzo recente ma di un romanzo, che potremmo definire di fantascienza razziale, e pubblicato in America nel 1931. Ci racconta storie di margini e confini perchè riesce a fare il ritratto di una nazione ossessionata dal colore della pelle.
Si parte da uno scienziato afroamericano, Junius Crookman, che studiando la vitiligine ha scoperto come estenderla al corpo intero, con una speciale macchina che sarà capace di trasformare gli uomini neri in bianchi. Apre una clinica in piena Brooklyn, sovrastata dalla scritta Mai più nero, e si prepara alla sperimentazione. L’impenitente donnaiolo Max Disher, dopo essersi sottoposto al bizzarro trattamento,diventa bianco (“color porco”, scrive l’autore) e cambia nome, si trasferisce nella natia Atlanta, entra nell’organizzazione razzista dei Cavalieri di Nordica e ne scala i vertici fino a sposare la figlia del reverendo Givens, capo dell’organizzazione. Ad Atlanta Disher si accorge che la trasformazione è stata integrale e assapora i privilegi della sua nuova condizione di bianco e involontariamente fotografa il razzismo strisciante insito nel Dna degli Stati Uniti d’America. Tesi centrale di Schuyler è che un nero americano sia anzitutto un americano, e che i suoi limiti culturali siano gli stessi delle regioni in cui vive. Malgrado ciò, sia a New York che soprattutto ad Atlanta Disher attraverserà guai, situazioni paradossali, vicende grottesche, fino a trovarsi a militare nell’organizzazione razzista dei Cavalieri di Nordica. In quell’ambito farà una scoperta sconvolgente, tale da confortare una seconda tesi cara a Schuyler: senza l’America nera, nemmeno l’America bianca sarebbe quello che è.
Il paradosso di tutto il romanzo è che dopo una serie di colpi di scena, si scoprirà che più della metà dei presunti bianchi razzisti e orgogliosi del loro sangue puro ha antenati di colore.

Toni-Cade-Bambara-writer-narrator-credit-Carlton-Jones-Scribe-Video-Center1Un modernissimo affresco della vita dei quartieri neri è contenuto dentro un classico ritrovato della letteratura afroamericana, il libro di racconti appena pubblicato nella nuova veste grafica da Edizioni Sur dal titolo “Gorilla, amore mio” di Toni Cade Bambara. A proposito di questi racconti scoperti nel 1972 dal premio Nobel Toni Morrison e mai pubblicati in Italia viene scritto:

“Con i suoi racconti pacati, fieri, buffi, teneri, moderni, acuti, affettuosi Toni Cade Bambara racconta cosa significhi essere neri meglio di quanto potrebbero mai sperare di fare tante voci letterarie puramente polemiche. Le sue storie parlano d’amore: amore per la famiglia, per gli amici, per la propria razza e il proprio quartiere, ed è il tipo di amore che deriva dalla maturità e dalla pace interiore.”

I racconti di questa attivista afroamericana morta nel 1995, Toni Cade Bambara, sono spesso storie di quartiere e di spaccati di famiglie e che vedono protagoniste soprattutto le donne e tanti bambini. La voce narrante di questi racconti è proprio quella di una bambina impertinente che spiega ”perchè i bianchi sono tutti matti”.
Durante una festa elettorale per il Potere Nero, una donna di mezza età viene redarguita dai figli per aver ballato in modo troppo sensuale con un vecchio cieco. Un’assistente sociale cerca di insegnare ai bambini del quartiere il valore dei soldi portandoli in gita in un lussuoso negozio di giocatto­li. Una ragazza riflette sulla figura della bisnonna, una fattucchiera in odore di pazzia che voleva dare l’assalto al mondo. Cinque amiche si riuniscono in camera da letto per discutere le strategie sentimentali da seguire con gli uomini. Che racconti situazioni familiari oppure sociali, conflitti generazionali oppure razziali, contesti rurali oppure urbani, nelle sue storie Toni Cade Bambara affronta la realtà dei neri americani con grazia e umorismo: facendo parlare i suoi personaggi con la loro viva voce, mostrandoceli nella loro ordinaria litigiosità, ma anche nei momenti di crisi e nei non rari gesti di compassione e solidarietà. Scritti tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Settanta, poi raccolti in volume nel 1972 per iniziativa di Toni Morrison (all’epoca editor di Random House), i quindici racconti di “Gorilla, amore mio” sono un classico ritrovato della letteratura afroamericana, tradotto oggi per la prima volta in italiano: un’occasione unica per scoprire la scrittura personalissima e musicale – malinconica come un blues, ritmata come un rap – di Toni Cade Bambara.

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Si parla di integrazione e identità anche nei due libri dello scrittore Fouad Laroui “Un anno con i francesi” e “L’esteta radicale” entrambi pubblicati in Italia da Del Vecchio. Vi riporto le splendide recensioni fatta da Andrea Cabassi a entrambi i libri. La prima intitolata “VAN GOGH ERA MAROCCHINO”:

“Van Gogh era marocchino”, dice Mehdi, il piccolo protagonista del bellissimo romanzo di Fouad Laroui “Un anno con i francesi”, in uno dei capitoli più importanti del libro (Cfr. Laroui, F: “Un anno con i francesi”. Del Vecchio. Roma. 2015. Cap. 19. “ Van Gogh è marocchino”. Pagg. 232-243). E se quell’affermazione fosse vera? Se Van Gogh fosse marocchino, francese, olandese, africano, europeo? Questo è il nodo cruciale del dilemma. Detto in altri termini: come si concilia l’universale con il particolare? Cosa accade quando il particolare si connota come una politica identitaria escludente? C’è una terra di mezzo tra universale e particolare? E se c’è, da cosa è abitata quella terra di mezzo? Credo che questo sia il tema che serpeggia in ogni pagina di questo splendido romanzo che la casa editrice Del Vecchio, con la consueta attenzione per autori come Laroui, ha messo a disposizione del lettore italiano.
Altro capitolo, altro titolo: “Che ci faccio qui?” (pagg. 36-41). Come molti sanno si tratta di una citazione da Bruce Chatwin. Ma tanti, forse, non sanno che questa frase Chatwin non la pronunciò mentre era in viaggio perché lui, grande viaggiatore-scrittore, si sentiva a casa in qualsiasi parte del mondo si trovasse. La pronunciò in un letto di ospedale, poco prima di morire. Stava intraprendendo il suo ultimo viaggio, quello senza ritorno, quello verso l’Altrove.
E’ in questo Altrove che sta l’estraneità più radicale di noi uomini precari sulla terra. E’ in questo passaggio che andremo verso un paese totalmente sconosciuto. Non so se Fouad Laroui fosse a conoscenza del contesto in cui Chatwin pronunciò quella frase quando scriveva “Un anno con i francesi”. Di certo c’è che quando Mehdi, che ha dieci anni e ha vinto una borsa di studio per accedervi, quando arriva al Liceo francese Lyautey di Casablanca prova un senso di radicale estraneità, come fosse giunto in “una selva oscura”, un paese a cui non riesce a dare un nome perché questo nome, questo paese gli sfuggono di mano in continuazione.
Mehdi viene da Béni-Mellal, una città di circa 160.000 abitanti e considerata la porta del Medio Atlante, distante da Casablanca circa tre ore di auto. Il suo viaggio può essere interpretato come una doppia migrazione: da una zona di montagna alla città, dal Marocco interno a un Liceo che, a tutti gli effetti, può essere considerato un protettorato francese. Sono migrazioni interne che Fouad Laroui ha già ben descritto nella sua raccolta di racconti “L’esteta radicale” (Cfr. Laroui, F: “L’esteta radicale”. Del Vecchio. Roma. 2012) in cui, molto spesso, assistiamo alle incomprensioni e alle diffidenze che manifestano reciprocamente contadini e cittadini.
Mehdi è un “montanaro” e il suo impatto iniziale con il nuovo ambiente gli provoca sconcerto, difficoltà a comprendere il senso delle situazioni. Questa è una delle ragioni per le quali viene preso in giro dai sorveglianti (gli spioni) e dagli altri convittori. Subito deve confrontarsi con un problema di lingua perché “ parlava francese a scuola e anche a casa, con suo fratello e sua sorella (e basta, perché non giocava mai fuori con i bambini del quartiere). Con suo padre e sua madre si era stabilito un modus vivendi insolito: gli parlavano perlopiù in dialetto (qualche frase, sempre le stesse: “Mangia!”, “Vai a lavarti le mani!”, “E’ ora di dormire!”, “Hai fatto i compiti?” e lui rispondeva con il francese della Contessa” (pag. 48). La Contessa è la contessa di Ségur, scrittrice francese di libri per ragazzi di cui Mehdi è accanito lettore. Perché Mehdi è un accanito lettore di libri francesi. E questo non lo aiuta a capire l’arabo, soprattutto quello di Mokhtar, colui che lo accompagna a Casablanca e che, forse, è un suo parente: “Mokhtar parlava un arabo dialettale ricco e pittoresco, farcito di detti gustosi, popolato di immagini provenienti dal fondo dei secoli, ma Mehdi non aveva afferrato una sola parola” (pag.48).
Mehdi parla il francese ma, quando arriva al Liceo, non comprende il comportamento dei francesi. Non capisce l’arabo e lo “orecchia” soltanto. Conosce e riconosce i suoni, ma non il significato delle parole. Ne coglie solo il significante (sul rapporto tra significato e significante tornerò dopo).
Viene da chiedersi: è marocchino? E’ francese? O cosa? Il fatto è che abita una terra di nessuno dove può fraintendere continuamente e continuamente essere frainteso (dai francesi, dai marocchini), una terra dove, oltre alle difficoltà dell’appartenenza, emergono le differenze di classe. Ricordo che il romanzo è ambientato nel 1969, due mesi dopo lo sbarco dell’uomo sulla luna, e che Mehdi sembra un marziano sbarcato sulla terra. In tutta questa prima parte del libro, malgrado Laroui lo faccia con il disincanto e l’eleganza stilistica di cui è dotato, si percepisce quanto i francesi si sentano superiori ai marocchini per cultura, usi e costumi, quanto i comportamenti da colonialisti siano duri a morire. In fondo anche la mamma di Denis, il convittore che diventerà il miglior amico di Mehdi, che lo ha accolto con un certo affetto, si relaziona con lui con superiorità e diffidenza e non ha nessun dubbio sulle differenze abissali che esistono tra cultura francese e marocchina. Quando Mehdi si lamenta perché non ha nulla da leggere il sorvegliante Dumont gli mette nelle mani “Il teatro e il suo doppio” di Artaud. Regalare un libro così difficile ad un bambino di dieci anni smaschera la mancanza di rispetto, financo sadismo, forse disprezzo per un Altro che non è francese e che vuole dedicarsi ad una attività culturale così importante come la lettura.
Il registro che Laroui utilizza nella narrazione è quello satirico. Non commenta perché i commenti sono quelli dei personaggi, tutti molto riusciti, che affollano il libro. Strappa sorrisi, ma sono ben amari sorrisi. Con questo stile coglie nel segno, i gesti ci rimangono impressi e noi lettori ci identifichiamo con il bambino marocchino schiacciato da un mondo ( o da mondi? ) di cui non riesce a farsi l’ermeneuta
Il senso di estraneità appare evidente quando Mehdi è ospite di Dénis e dei suoi genitori: una famiglia francese che vive a Casablanca, che ha tradizioni francesi in tutto e per tutto. Sarà in uno di questi soggiorni di fine settimana in casa Berger che Mehdi affermerà rivolto all’amico: “Van Gogh era marocchino, sai…” (Pag. 242)
Che Mehdi dimori in una scomodissima terra di nessuno risulta evidente quando la situazione si capovolge: improvvisamente e inaspettatamente Mokhtar compare al Liceo in un fine settimana per accompagnare il bambino ad un matrimonio di un cugino e dove Mehdi potrà ritrovare tutta la sua famiglia (a parte il padre, figura fantomatica che non si sa né dove sia, né cosa faccia). Al matrimonio il piccolo protagonista ritrova i sapori della sua terra, ma una lingua che non comprende, usi e costumi in cui non si identifica. Potrebbe esclamare ancora una volta: “Che ci faccio qui?”
Tra universalismo e appartenenza divisa, come si risolve, allora, il problema dell’identità? Si risolve?
Nel blog della casa editrice Del Vecchio è reperibile un bellissimo articolo intitolato “Il peso delle parole”. (“Il peso delle parole”. www.senzzuccheroblog.it) Si tratta di una riflessione congiunta di Fouad Laroui e la sua bravissima traduttrice Cristina Vezzaro (consiglio, tra l’altro, di leggere, alla fine del romanzo le riflessioni sulla traduzione di Vezzaro contenuta nella piccola rubrica “La scatola nera del traduttore”). Cristina Vezzaro cita le recensione di Laroui al romanzo di Houellebecq “Sottomissione” apparsa su “Jean Afrique”, la rivista alla quale lo scrittore marocchino collabora. Sostiene Laroui che François, il narratore, parla sistematicamente di “neri” senza distinzione o di “arabi” sempre senza nessuna distinzione. E che tutto quello che è vagamente minaccioso è “arabo” nella narrazione di Houellebecq. Afferma ironicamente che “quanti si considerano berberi, curdi, cabili o copti saranno piuttosto stupiti di scoprire che sono tutti della stessa pasta, in poche parole “arabi. Già che ci siamo perché non includere nella stessa categoria anche persiani e turchi”. E poco oltre, un’amara riflessione: “L’arabo, del resto, è solo questo. Non può essere altro, certo non francese”.
Cristina Vezzaro, giustamente, fa notare che in “Un anno con i francesi” se, dapprima la novità di una cultura diversa gli rimanda la sua estraneità, poi, poco alla volta Mehdi scopre la sua appartenenza culturale senza bisogno di rinnegarla. Non solo: nella conoscenza dell’altro, nell’accettazione dei piccoli particolari della cultura dell’altro, Mehdi assume consapevolezza della propria identità, delle proprie origini, delle proprie particolarità. Quello che lo aiuta sono i libri, è il peso delle parole. Non rinnega la sua cultura e neppure quella dell’Altro. Aggiungo io che questo è possibile perché, come avviene a casa di Denis, “sente” le parole. Percepisce il significante. E’ un percorso difficile e accidentato perché le derive del significante, la sua disarticolazione provocano incomprensioni, equivoci, occultamento del senso e smascherano il colonialismo latente (poi non tanto latente) dei francesi. Ma quando il significante acquista spessore e ha i suoi approdi in una pluralità di significati, allora le parole acquisiscono peso e si chiarificano appartenenze, identità, lingua e linguaggio. Parole e libri diventano vincenti.
Infine vorrei andare oltre quanto scrive Cristina Vezzaro. I libri non hanno patria perché, per parafrasare una vecchia canzone anarchica composta da Pietro Gori alla fine dell’ottocento, la loro patria è il mondo intero. Per l’arte e la letteratura la patria è il mondo intero. Ed è per questo che Mehdi ha ragione: Van Gogh era marocchino. Era marocchino, francese, olandese, europeo, africano. Come Fouad Laroui che può essere considerato, allo stesso tempo, marocchino, francese, inglese, olandese, africano, europeo. E si presti attenzione ad una cosa fondamentale: ciò non vuol dire fare di tutte le erbe un fascio. Queste identità non si cancellano, non diventano un tutt’uno, ma dialogano tra di loro, si incrociano, si intrecciano, a volte si meticciano, nessuna ha il sopravvento, ognuna di esse porta il suo contributo
Questo è il vero l’antidoto alle pratiche identitarie escludenti come quella di Marine Le Pen, Salvini, Houellebecq.
Un grande scrittore sardo, Sergio Atzeni, autore di straordinari romanzi come “Passavamo sulla terra leggeri” e “Il quinto passo è l’addio”, era solito rispondere ai nazionalitari e indipendentisti sardi (la cui tradizione culturale non è mai stata, per altro, escludente) che lui si riteneva sardo, italiano, europeo (Cfr. “Nazione e narrazione” contenuto in Atzeni, S: “Scritti giornalisti”. Il Maestrale. Nuoro. 2005. Vol. II. Pagg. 990-93). Pochi mesi prima di morire tragicamente all’Isola di S. Pietro, nel 1995, Atzeni scrisse un brano di rara bellezza sulle identità che si connettono, sovrappongono e dove l’una non ha il sopravvento sull’altra. Mi permetto di riportarlo per intero perché mi sembra la miglior conclusione e il miglior commento a “Un anno con i francesi”.
“Nato da genitori nomadi in una casa dove secondo i venti sentivo tamburi algerini o nacchere o pianti di madri di morti ammazzati, ho traslocato a cinque giorni e per tutta l’infanzia ho vagato come uno zingaro. Ho finito per considerarmi abitante non di una casa ma di un isola che mi pareva un continente: dune di sabbia, monti ricchi di cervi e ruscelli, piane arse, argilla spaccata dal sole impietoso, cime di carbone a vista d’occhio, colline di grano e pastura, paesi sui fiumi, aranceti, altipiani abitati da cavalli selvatici, ulivi, vigne, monti aspri, calcare, graniti, capre, noci, valli di mandorli, pietre in forma di uomo o animale. Ogni paese una lingua diversa (a Cagliari un miscuglio di campidanese, logudorese, castigliano, italiano e persino siciliano e napoletano giunti di galera). Incantato dalla diversità di parole, modi di vita, profumi, volti, fiori e mestieri, no mi accorgevo di casa mia” (Cfr. Atzeni, S: “Con i Khmer in Pelikan Strasse”. AD. N.165. Febbraio 1995. Pag.12).
La seconda recensione riguarda il libro “L’Esteta radicale” ed è intitolata VANNO E VENGONO SULLA NOSTRA TERRA.
Francesco Alziator (Cagliari 1907-Cagliari 1977) è stato un noto antropologo e scrittore cagliaritano. Chi volesse immergersi nelle atmosfere e nel clima culturale di Cagliari dovrebbe leggere “L’elefante sulla torre. Itinerari cagliaritani”.(Cfr. Alziator, F: “L’elefante sulla torre. Itinerari cagliaritani”. Zonza. Cagliari. 2007). Alziator è un autore di grande importanza per Cagliari, tanto che, dal 2007, è stato istituito, nella capitale sarda, un prestigioso Premio letterario a lui intitolato e che è stato vinto, tra gli altri, da Clara Sereni, Faletti, Francesco Abate. Nel concorso è stata, anche, istituita una sezione speciale dedicata ad autori provenienti dall’altra sponda del Mediterraneo: una scelta bella, coraggiosa e molto azzeccata in quanto Cagliari fronteggia proprio quell’altra sponda e vi dialoga.
Nel 2013 il vincitore della sezione speciale è stato lo scrittore marocchino -e molto noto in Francia- Fouad Laroui con il libro di racconti “L’esteta radicale” (Cfr. Laroui, F: “L’esteta radicale”. Del Vecchio. Roma.2012).
Chi è Fouad Laroui? Nato a Oujda, ma originario di El Jadida, città della regione di Doukkada Abda e porto sull’Oceano Atlantico, si è laureato in Ingegneria a Parigi, vive ad Amsterdam dove insegna Econometria e Scienze Ambientali. Si occupa di Letteratura Francese, collabora alle riviste “Economia”, “Jeune Afrique. E scrive. Scrive in francese, ma ha scritto anche raccolte di poesia in olandese per le quali è stato premiato. Nel 2010 il suo romanzo “Un anno tra i francesi” è stato selezionato per il Premio Goncourt. Nel 2013 ha vinto il Goncourt de la nouvelle con la raccolta di racconti “L’ètrange affaire du pantalon de Dassoukine” e che non è ancora stato tradotto e pubblicato in Italia. Nel 2014 è stato insignito de la Grande Médaille de la Francophonie e ha vinto il Gran Prix Jean Giono con “Les tribulations du dernier Sijilmassi” che verrà pubblicato dall’editore Del Vecchio nel 2016.
Come si può comprendere dai riconoscimenti avuti, Fouad Laroui è un autore di grande rilievo che scrive in francese, vive ad Amsterdam e che, nei suoi libri, parla del Marocco e dei marocchini perché, come afferma in una sua intervista a Mara Tatsos sul blog della casa editrice Del Vecchio,: “Mi bastano una o due settimane di viaggio in Marocco e mi ritrovo il materiale per tre romanzi… al contrario i Paesi Bassi, che amo moltissimo da tanti punti di vista, non mi hanno mai ispirato a scrivere” .(Cfr “Lingua, cultura, storia, letteratura”. Intervista a Maria Tatsos. www.senzazuccheroblog.it). A questo punto è d’obbligo un ringraziamento alla casa editrice Del Vecchio per averci fatto conoscere questo autore. E’ grazie ai due libri pubblicati da Del Vecchio che il pubblico italiano ha potuto conoscere Fouad Laroui che è venuto in Italia per presentarli. Qual è il filo che lega i racconti di “L’esteta radicale”. Forse non è un filo. Forse è un gomitolo. Che comincia a srotolarsi al Cafè de l’Univers di Casablanca (chiamata affettuosamente e ironicamente Casa). Al Cafè Univers passa gran parte del suo tempo un gruppo di giovani. Oziano e si narrano vicende che paiono cose da nulla, prive di importanza. Parlano spesso in francese e hanno un rapporto conflittuale con chi viene dalla campagna. Quelli che vengono dalla campagna, a loro volta, si sentono trattati come marocchini di serie B e, non di rado, ciò provoca astio e risentimento. Già questo è un tema che non è da nulla. Perché, con sobrietà ed eleganza, viene rappresentato il problema della migrazione rurale interna, il rapporto tra contadini e cittadini, la diffidenza degli uni verso gli altri. Ma anche le cose che i giovani si raccontano hanno solo l’apparenza di cose da nulla: in realtà parlano di Potere, della burocrazia, della religione. Nel racconto che chiude la raccolta “Gli accattono vinti dalla tecnica” è descritta una fenomenologia del Potere, di quel Potere che si insinua, silenzioso, in ogni anfratto della vita delle persone e dove la ribellione diventa impossibile perché, di quel Potere che si instaura usando la tecnologia e il silenzio, tutti se ne accorgono troppo tardi. In “La strana vicenda del quaderno bounni la descrizione è quella di una burocrazia e di una classe politica, che attorno alla definizione del colore bounni – un colore definibile solo attraverso la lingua araba classica- si avviluppa su sé stessa, come in una spirale e prende decisioni che dovrebbero accontentare tutti, ma che, in realtà, non accontentano nessuno. Ne “Sulla strada per la cattedrale” protagonista è il dualismo tra contadini e cittadini (la migrazione interna rurale, appunto) e il risentimento di un gruppo di contadini che si trasformeranno in una improbabile banda di terroristi islamici. Nell’esilarante racconto “ I numeri impazziti del DHJ” tutto ruota intorno ad una squadra di calcio il cui nuovo presidente, per confondere gli avversari, usa una numerazione delle maglie della squadra di calcio completamente diversa da quella tradizionale. Questo provoca una incredibile confusione, non sono negli avversari, ma anche nella squadra stessa. Incredibile confusione che termina con scontri tra tifoserie avversarie, ma anche tra gli stessi cittadini di El Jadida. Anche in questo racconto, come dice uno dei giovani nullafacenti del Cafè Univers, bisognerebbe andare al di là delle apparenze: senza saperlo quel presidente che aveva cambiato il numero delle maglie aveva provato a rendere liberi i suoi calciatori. Non più prigionieri di un ruolo essi avrebbero potuto essere, semplicemente, loro stessi!
Vorrei soffermarmi un attimo su questo racconto perché, per associazione di idee, mi ha fatto pensare ad Albert Camus. Laroui descrive il calcio con indubbia competenza, come indubbia competenza su di esso aveva Albert Camus, che giocò nella Nazionale Universitaria dell’Algeria come portiere (su Camus calciatore e filosofo vi ha dedicato un libro molto interessante Emanuele Santi. Cfr. “Santi, E: “Il portiere e lo straniero”. L’Asino d’Oro. Roma. 2013), che dovette smettere di giocare per i suoi problemi medici e che, per il resto della sua breve vita, continuò a coltivare la passione per il calcio. Ma non è solo la narrazione de “I numeri impazziti del DHJ” che mi ha fatto ricordare Camus. Se srotoliamo il nostro gomitolo e usciamo dal Cafè Univers e dal mondo del calcio, ci imbattiamo ancora in qualcosa che ha a che fare con lui. Nel racconto che apre il libro “Quella volta che Malika non si è sposata” il focus è sul dualismo tra culture e generazioni. C’è una generazione (quella della mamma di Malika) che ha parlato solo il marocchino e che, con qualche difficolta, legge e parla il francese. C’è la generazione di Malika che parla il francese, che studia e ha studiato in Francia, che ha usi e costumi diversi da quelli tradizionali di El Jadida. Che senso di appartenenza avrà sviluppato Malika? Riuscirà a mantenere il dualismo? Sarà marocchina per origini e francese per cultura? Questa è la problematica affrontata in modo drammatico da Camus ne “Il primo uomo” (Cfr. Camus, A: “Il primo uomo” Bompiani . Milano. Nuova edizione 2013), quello straordinario libro che il grande filosofo di origini algerine non riuscì a concludere a causa dell’incidente stradale in cui morì e il cui manoscritto fu trovato nell’auto con la quale ebbe l’incidente. Tutto quel testo è percorso dal problema della doppia appartenenza, algerina e francese, dalla fedeltà alla figura del padre e alla Francia, della consapevolezza di appartenere ad entrambe le sponde del Mediterraneo, di vivere su un confine, di avere un’identità divisa, scomoda, scomodissima ma, proprio per questo, ricca, ricchissima. Anche Ahmed, il protagonista de “L’esteta radicale” si trova davanti al medesimo dilemma. E’ emigrato dal Marocco, vive in Francia, frequenta l’Università a Marsiglia, vorrebbe rendersi utile alla Francia ma… lascio al lettore il piacere o l’amarezza di vedere come va a finire la vicenda. Aggiungo solo che, seguendo quel gomitolo srotolato che ci fa da guida, ci dobbiamo qui confrontare con la stupidità umana, una stupidità che non ha limite alcuno e porta con sé malafede e stereotipi assurdi sul musulmano, sull’Islam. Al termine di questo racconto ci si chiede quale dialogo tra culture sia possibile se la stupidità assurge a principale strumento di analisi. E’ una fortuna, però, che gli scrittori possano dialogare tra di loro. Anche senza che abbiano la consapevolezza che lo stanno facendo. Mi spiego meglio. Fra i racconti contenuti ne “L’esteta radicale” ne troviamo uno che è fra i più drammatici e belli: “Essere qualcuno”. Parla di migranti che, dopo aver pagato un prezzo altissimo per andarsene dal loro paese, si trovano ammassati su una piccola patera che dovrebbe portarli o in Spagna o in Italia. Lahcen, il protagonista, vive nell’illusione che, dall’altra parte del Mediterraneo, potrebbe essere qualcuno, non nel senso di diventare famoso, ma di uscire dalla condizione di essere nessuno che era la condizione in cui si trovava quando viveva in Marocco. Illusione destinata al naufragio. Lahcen non arriverà mai dall’altra parte. Ma perché ho parlato di dialogo tra scrittori? Perché nel 2008 uscì un bellissimo romanzo di Savina Dolores Massa, una fra le più importanti scrittrici sarde, intitolato “Undici” (Cfr. Savina Massa, D: “Undici”. Il Maestrale. Nuoro. 2008). Il romanzo parla di undici migranti che si trovano sballottati su una barca in mezzo al mare con la speranza di raggiungere la costa, approdare a una terra che li accolga, ma che quell’approdo non avranno mai. Il racconto e il romanzo, se letti insieme, danno vita a un dialogo con tanti punti in comune: stessa drammaticità, stessa ricerca di un senso, stesse domande che vengono rivolte al cielo, stesso assordante silenzio, stessa ricerca di una trascendenza che sembra essersi nascosta. Ed è bello che questo dialogo, al di là della volontà o consapevolezza dei loro autori, si svolga tra le due sponde opposte del Mediterraneo. E’ significativo che la sponda italiana sia rappresentata da una scrittrice sarda che ci rammenta ciò che si diceva all’inizio: il Premio Alziator, la sua sezione speciale, Cagliari luogo del dialogo interculturale..
Srotolando ancora il gomitolo arriviamo al racconto che più mi ha colpito e che ho lasciato per ultimo: “Il giorno in cui Saddam fu impiccato”. Jaafar vive a Rotterdam con il padre e la madre e lavora ad Amsterdam nel campo informatico. Il padre è sorpreso dal figlio a guardare, per l’ennesima volta, le immagini dell’esecuzione di Saddam Hussein. Jaafar si domanda la ragione di un tale comportamento perché il padre non si era mai interessato di Saddam. Teme per la sua salute psichica. Ad un certo punto il padre dice: “Vanno e vengono sulla mia terra” e poco più avanti: “Vanno e vengono sulla nostra terra” (pag.42). Il figlio non comprende, non comprende più il padre che decide di partire per il Rif dove possiede un piccolo appezzamento di terra. Dal cugino, che vive là, Jaafar saprà che il padre si è impossessato di quello striminzito lembo di terra e che ha scavato un buco tutto tondo simile a quello in cui gli americani avevano trovato Saddam Hussein. Poco alla volta diventa chiaro a Jaafar il senso delle frasi e del viaggio del padre: le immagini dell’esecuzione di Saddam Hussein non sono state altro che un modo per umiliare un popolo, per umiliare chi quella terra abitava da secoli. Emerge qui, in tutta la sua drammaticità, il problema dell’appartenenza, delle radici, dell’identità. Non c’è nessuna identificazione con il dittatore iracheno, non c’è nessuna rivendicazione linguistica, solo il desiderio di riappropriarsi della terra degli avi e della propria cultura, il desiderio che quella terra non sia più una terra dove chiunque possa andare e venire, facendo il bello e il cattivo tempo, possa andare e venire per possederla e umiliarla. Ed è ancora più pregnante che a porci davanti a problematiche del genere -problematiche su cui abbiamo l’obbligo etico di guardarle in faccia in tutta la loro complessità e di non girarci dall’altra parte- sia un autore pluridentitario come Fouad Laroui.
Un ultima annotazione: è impressionante come Fouad Laroui sappia passare da un registro narrativo all’altro, dal grottesco al comico, dal drammatico al tragico. Racconti, sempre formalmente molto eleganti, che aprono interrogativi, che ci fanno riflettere e che sono il miglior antidoto alla stupidità di cui si parlava più sopra.
Nello zainetto a questo giro :

"Il Tempo fa il suo mestiere" di Mariastella Eisenberg, Spartaco Edizioni.
“Il Tempo fa il suo mestiere” di Mariastella Eisenberg, Spartaco Edizioni.
"Il libro dei sussurri" di Varujan Vosganian, Keller Editore.
“Il libro dei sussurri” di Varujan Vosganian, Keller Editore.
"Mai più nero" di George S.Schuyler, Voland.
“Mai più nero” di George S.Schuyler, Voland.
"Gorilla, amore mio" di Toni Cade Bambara, Sur edizioni
“Gorilla, amore mio” di Toni Cade Bambara, Sur edizioni
"Un anno con i francesi" di Fouad Laroui, Del Vecchio Editore.
“Un anno con i francesi” di Fouad Laroui, Del Vecchio Editore.
"L'esteta radicale" di Fouad Laroui,Del Vecchio Editore.
“L’esteta radicale” di Fouad Laroui,Del Vecchio Editore.
Nello Zaino di Antonello: Letteratura ai margini.