di Alice Pisu

Libraia e giornalista, al timone con Antonello Saiz dei Diari di bordo, libreria indipendente a Parma, con la rubrica "I libri di Alice"
Libraia e giornalista, al timone con Antonello Saiz dei Diari di bordo, libreria indipendente a Parma, con la rubrica “I libri di Alice”

 

 

 

 

 

 

 

 

Andare a passo d’acqua sul fiume

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Maldifiume, Simona Baldanzi

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“La Falterona è ancora avvolta di nebbie. Vedo solo canali rocciosi che le venano i fianchi e si perdono nel cielo di nebbie che le onde alterne del sole non riescono a diradare”. In una prosa a forma di diario, “La Verna, Canti Orfici”, Dino Campana descrive il suo viaggio a piedi, percorre i sentieri del Monte Falterona, racconta i luoghi dell’Appennino. In solitudine, nella natura, quel viaggio al di là del descrittivo diventa ricerca interiore. “I Canti orfici” si intrecciano con i passi tra quei sentieri degli studenti coinvolti oggi nei progetti del centro studi campaniani per raccontare il poeta, i suoi versi e i suoi luoghi.

Sul versante meridionale del Monte Falterona nasce l’Arno e lì inizia il viaggio lento, a piedi, che Simona Baldanzi racconta in “Maldifiume”, Ediciclo, dal capo sino alla foce nel Tirreno, attraversando luoghi che sembrano riemergere dal passato. Dove il fiume accompagna i pensieri e si fa strumento per raccontare storie inizia il viaggio dell’autrice, in compagnia di due amici con i quali aveva condiviso il viaggio da Barbiana a Montesole, raccontato ne “Il Mugello è una trapunta di terra”, Laterza. L’Arno riflette le rive, ripete il racconto. Imbastire un viaggio lento lungo l’Arno dalla sorgente al mare significa percorrere il fiume, descrivere paesaggi modellati dal suo corso, ascoltarne le voci per raccontare cosa rappresenta quel mal di fiume, quella bellezza da vertigine. Non si tratta tanto dello stupore e dell’euforia nel vivere i luoghi attraversati e modellati nei secoli dalle acque, ma di rendere tra le pagine le suggestioni date dal modo di vivere quelle realtà e quegli incontri in un presente che richiama di continuo il passato. Da qui la scelta di seguire l’Arno alla ricerca delle proprie origini, in questo viaggio tra i luoghi lambiti dal fiume, che è anche un viaggio ideale, nella storia, oltre uno spazio e un tempo definiti, suggestivo per le immagini mentali che le sue acque riportano a galla. Ma il fiume non ha radici, “non sta in un barattolo te lo porti dentro” e “ogni tentativo di ammaestrarlo, fermarlo, immortalarlo in un’unica storia, si disperde, fugge, evapora”.

Tutto ha inizio da un guscio di tartaruga rimasto intatto dall’alluvione che colpì Rio Negro, rinvenuto dal nonno di un amico d’infanzia. Su quel guscio il nonno di Santino, che aveva vissuto come calciatore, segnava date e goal. Un’immagine che si ferma nella mente dell’autrice e la porterà, a distanza di oltre vent’anni, a raccontare anche quella storia. Uruguay. Un novantenne accoglie nella sua casa Simona Baldanzi mentre sua figlia prepara margaritas per tutti. “Gli italiani mettevano tutto in un barattolo”, dice, riferendosi alle migrazioni, tra fine Ottocento e primi del Novecento, degli italiani in partenza con le provviste nella valigia. È in Uruguay che Simona Baldanzi inizia a sedimentare pensieri intorno a una camminata lungo l’Arno, l’Uruguay di Mario Benedetti, narratore e poeta. Un viaggio che inizia per seguire le tracce dell’autore di “Chi di noi”, “1953”, e “La tregua” Nottetempo, che poi porterà Simona Baldanzi a sedimentare riflessioni sull’Arno osservando il Rio Negro, le sue acque verde scuro con alghe che sembrano mate, dove persone di ogni età stanno insieme sulle rive, come in una laguna incantata.

Si sente come un’esploratrice, una “fiumenauta”: costeggia l’Arno e ne ascolta le voci per raccontarne le storie. Voci che potrebbero essere idealmente quelle del Po, o del Danubio, o del Giordano, o del Mississippi, perchè quello che l’autrice chiama il serpente reale (“Perchè non ci sono mostri del fiume? Perchè il fiume è già una bestia da solo, è un serpente reale”) è quasi un non luogo, rappresenta una ricerca anzitutto interiore che trova le risposte nell’acqua. “Non mi interessa cercare storie per metterle sottovuoto e non aprirle mai. Non voglio fare una camminata di memoria voglio capire cosa c’è adesso, come viviamo questo fiume che passa paesi, parchi, città, che si muove vicino a ferrovie, autostrade, che sibila sotto i ponti, che divide comunità in due rive, che attrae e spaventa insieme”.

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Fiume che segue le tappe della vita, fiume che racconta storie, che narra di antichi lavori creati sull’acqua e che ormai quasi non esistono più. Se il racconto è quasi sotto forma di diario nel seguirne passo dopo passo il corso, emerge di continuo un’evocazione del passato negli incontri che accompagnano ogni tappa. “Nell’Arno imparo un’altra lingua”, soltanto ascoltando le voci sulle rive del fiume si scopre la storia di Gualchiere di Remole, importante opificio di origine medievale, tra i più importanti esempi di archeologia pre industriale d’Europa. Lungo l’Arno Simona Baldanzi abbandona la sua frenesia della ricerca storica sui luoghi, nonostante tentazioni come lo studio de “Il triangolo delle Gualchiere” di Berlinghiero Buonarroti sulla suggestione del lavoro fantasma e del mistero lungo l’Arno. Preferisce ascoltare le voci del fiume, le tante storie che richiamano un tempo indefinito.

Scopre l’arte degli impagliatori, degli alzaioli, i dannati del fiume che trainano controcorrente le barche. Conosce il pirata dei Renai, Moscerino, che vive nel parco dei Renai da molti anni, nonostante tutto. Ci arriva percorrendo un sentiero che costeggia la vecchia e la nuova ferrovia dove arrivano il Bisenzio e l’Ombrone. Un terreno un tempo fertile che negli anni Cinquanta, assieme ad altri arenili e rive fluviali, finisce col diventare zona di cava. Quel rapporto tra uomo e fiume, fatto anche di esondazioni e terreno fertile, si trasforma per lasciare spazio alle estrazioni di sabbia. Interrotta la produzione negli anni Settanta, per qualche tempo l’area si riduce in stato di abbandono, solo con una legge regionale per il ripristino si arriva alla suddivisione in lotti e alla nascita del parco, che oggi rappresenta un’oasi verde. Da anni Moscerino “il pirata” e Bettina vivono lì, in una baracca vicina all’acqua che ora è un’attrazione per curiosi. “Il pirata dei Renai ti fa credere che l’isola che non c’è sia qua, colorata e libera, ma non priva di sacrifici”.

“S’è smesso di raccontare, come s’è smesso di vivere il fiume, Eppure stasera ci siamo fatti racconti, ci siamo fatti fiume”, riflette. Proprio attraverso cose minime, gesti di un quotidiano che sembra non inquadrabile in un tempo noto, quelle descrizioni assumono un che di poetico, anche nel rendere i discorsi dei traghettatori di fiume, attivi sull’Arno sino agli anni Sessanta. “La rificolona lungo il fiume, la barca piena di luci detta Lucciola che portava in giro gli innamorati, i pentoloni di cenere a bollire sulla riva, lo schianto dei panni sui sassi, il locale da ballo con l’affaccio sul fiume. Le voci si fanno fiume”.

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Penso a Mark Twain, al suo sogno poi realizzato, di diventare un pilota di barche sul Mississippi. Il padre della narrativa americana sosteneva che chiunque avesse un padrone: un pilota, invece, era l’unico essere umano privo di vincoli e realmente indipendente. Penso a quella costante malinconia che nutriva per il passato e al suo rapporto con l’acqua, raccontato in “Vita sul Mississippi”, Mattioli 1885. “Una volta in navigazione sull’ampio Ohio, io mi trasformai in una creatura del tutto nuova e divenni l’oggetto della mia stessa ammirazione. Ero un viaggiatore! Nella mia bocca, non c’era mai stata una parola altrettanto dolce. Fu una sensazione esaltante che non avrei mai più avvertito così forte: ero convinto di essere diretto verso lande misteriose e luoghi lontani”.

“Maldifiume” analizza i cambiamenti sociali dei territori lungo l’Arno, legati al modo di vivere il fiume. L’alluvione del 1966 segna un prima e un dopo. Non colpisce solo il centro storico fiorentino, ma tutto il bacino dell’Arno. Vittime, sfollati, campagne allagate per giorni e comuni minori isolati e danneggiati gravemente. Perduti tra il fango volumi rari della Bibilioteca Nazionale e opere conservate nei depositi degli Uffizi. Dove fino al primo dopo guerra c’erano centinaia di ditte di rena, di sassi, ora si pensa al recupero della natura, ai percorsi di cammino e di cicloturismo. Emerge una Firenze inedita da questo racconto, lontana dallo sguardo del turista. E L’uomo comune di Clet osserva. Quella statua, più volte rimossa per via dei permessi, rappresenta un uomo stilizzato in cammino, proteso verso il fiume come quasi a camminarci sopra. Da questa immagine sembrano riemergere dall’acqua le memorie dell’alluvione: “Il fiume in città è un racconto immenso e infinito”.

Ogni viaggio implica attraversare confini, frontiere. “Viaggiare non vuol dire soltanto andare dall’altra parte della frontiera, ma anche scoprire di essere sempre pure dall’altra parte”, scrive Claudio Magris in “L’infinito viaggiare”. E il fiume si fa frontiera nel racconto di Simona Baldanzi. Fiume che divide, come nelle storie ascoltate nel centro accoglienza di Ponte a Buriano, come nelle storie dal fiume Konska. Risuonano le parole di Giammaria Testa, “Il passo e l’incanto”: “Ci siamo perduti qui/ rubati dell’incanto ci hanno divisi qui/ e non ritrovo il passo”. Scorre lungo il confine tra Macedonia e Grecia, il fiume Konska, a pochi chilometri dal campo profughi dove in migliaia attendono di passare il confine. “Non siamo più i vermi a bordo, noi siamo il fiume. Non un fiume come loro, un fiume che li ostacola. Noi siamo l’ostacolo. Noi siamo Konska”. Da qui il senso ultimo di Maldifiume, si parla dell’Arno ma potrebbe essere qualsiasi altro fiume: riconsegna le voci dall’acqua, racconta il legame secolare tra l’uomo e il fiume.

Versi sull’acqua. Quelli di Gabriele D’Annunzio sulle acque dell’Arno. Quelli di Eugenio Montale che vede nei grandi fiumi l’immagine del tempo crudele e impersonale, “l’acqua come noi pensa se stessa/ prima di farsi vortice e rapina” (“L’Arno a Rovezzano”). Penso alle descrizioni di Paolo Rumiz in “Morimondo”, Feltrinelli, che parla del Dio Serpente, il Po, negli incontri con il popolo del fiume tra memoria e presente. L’Arno come il Po, nelle suggestioni richiamate dalle sue acque tra le pagine di Guido Conti ne “Il grande fiume Po”, Mondadori, dove i racconti, le leggende e le voci si intrecciano per raccontare le origini, le continue trasformazioni e gli echi nell’immaginario che il fiume richiama.

Il grande fiume che si trasforma costantemente, il Po di Cesare Zavattini ne “Un paese”, uscito per Einaudi nel 1955 con le foto di Paul Strand: è una metamorfosi continua, per usare un’espressione di Guido Conti. Il fiume vasto, deserto, impotenete e silenzioso raccontato da Guareschi che “più che un fiume pare il cimitero delle acque morte”. L’Arno come il Danubio, “saggio e grande”, come lo definì il poeta ungherese Attila Jòszef, versi che accompagnano Guillaume Prébois nel suo viaggio in bicicletta lungo il fiume d’Europa, raccontato ne “Il mio Danubio”, Ediciclo.

E quel “Maldifiume”, quella bellezza da vertigine, quello sbandamento da trasformazione che racconta Simona Baldanzi è lo spaesamento che si apprende nel viaggio, nel sentirsi perennemente stranieri, anche nei propri luoghi, come dice Magris nello stesso momento nell’ignoto e a casa. “Il fiume è mettersi al pari degli altri, da cima a fondo. Il fiume per conoscerlo hai bisogno della gente e non ti basta. Perché il fiume non è rassicurante, non è del tutto prevedibile, non è ammaestrabile, non è conformismo”.

Ecco che in questa totale assenza di certezze il cammino lento diventa strumento d’indagine, calandosi nella dimensione dell’acqua. Viaggiare è come un’esperienza musiliana, sostiene Magris ne “L’infinito viaggiare”, affidata al senso delle possibilità piuttosto che al principio di realtà. “Si scoprono, come in uno scavo archeologico, altri strati del reale, le possibilità concrete che non si sono materialmente realizzate ma esistevano e sopravvivono in brandelli dimenticati dalla corsa del tempo in varchi ancora aperti in stati ancora fluttuanti. Viaggiare significa fare i conti con la realtà ma anche con le sue alternative e con i suoi vuoti; con la Storia e con un’altra storia, o con altre storie da essa impedite o rimosse, ma non del tutto cancellate”.

Nel suo elogio alla lentezza, “Camminare”, Edizioni dei Cammini, l’antropologo David Le Breton sostiene che intraprendere questo tipo di viaggio solleciti una sospensione felice del tempo, una disponibiità ad affidarsi all’improvvisazione a seconda degli avvenimenti del percorso. Un percorso in un tempo interiore, un ritorno all’infanzia o a momenti di vita propizi a un ritorno a se stessi. Continua il suo viaggio lento Simona Baldanzi provando costantemente quel mal di fiume, perché a camminare si placa l’irrequietudine dell’andarsene, scrive. Nell’epigrafe, l’omaggio ai dannati del fiume, risuona l’eco delle parole di Jonh Steinbeck in “Furore”. È tempo di riprendere il cammino. “Il mal di fiume è ciò che sento, che mi cola in un rivolo di sudore tra le scapole, che mi fa sentire in continuità con tutto ciò che mi circonda, che rende a tutto la sua dimensione e che sento come una voce che mi dice: vai a passo d’acqua sul fiume”.

(recensione uscita il 3 dicembre 2016 su Repubblica Parma Libri parole e dintorni)

I libri di Alice: Maldifiume
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