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Siamo dinnanzi alla casa dei Bensalem, io e Giuseppe Lupo, guardiamo lo straccio che penzola ad un filo di ferro, e ammiriamo l’ardita costruzione di Redentore, il capostipite delle famiglia:

è un edificio enorme questa casa, per riscaldarla ci voleva un bosco ogni inverno e io davvero non so dove andranno a finire i letti, i comò, i tavoli, le credenze che hanno riempito i cento e passa anni in cui siamo vissuti qua dentro: bisnonni, prozii, nonni, genitori, figli; noi Bensalem, noi che abbiamo aggiunto muti a muri, pietre a pietre, gradini a gradini e colmato di voci il grande albero di stanze fiorite verso il cielo.

Osserviamo, ascoltiamo e cominciamo a chiacchierare.

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Il titolo: “L’albero di stanze” (Marsilio). Non una torre, come farebbe pensare la voce narrante Babele, medico sordo, a cui è stato affidato il compito di “smontare” l’architettura ardita voluta dal bisnonno Redentore, ma un albero, a sottolineare la linea genealogica della narrazione e la ramificazione dei personaggi in figli, zii, nipoti dai nomi sonanti, tra cui sfavillano quelli biblici. Non più un luogo del sud, come quelli dei romanzi precedenti, ma un interno, una casa di case, in cui ritrovare la voce del mondo.

Si può tracciare un percorso nella tua narrativa partendo dai luoghi? o invece i luoghi sono il filo rosso della tua produzione sull’onda dell’immaginario? Palmira, solo per citare uno dei tuoi luoghi narrativi, per esempio, è più reale e vera di Caldbanae? o invece nella geografia di Giuseppe Lupo maggiore importanza ha l’essenza del luogo, più che il suo essere?

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I luoghi rappresentano forse il filo rosso della mia narrativa. All’inizio del mio secondo romanzo, “Ballo ad Agropinto” (Marsilio 2004), ho inserito una carta geografica che ho disegnato io stesso. Dentro ci sono i paesi che poi ho raccontato nei miei libri: Celenne, Agropinto, Caldbanae, Palmira, Vitalba. È una carta immaginaria di un mondo vero. Più o meno quello che ha fatto William Faulkner disegnando la sua contea di Yoknapatawpha. Faulkner è un inventore di storie perché è un inventore di mondi.

Palmira e Caldbanae sono paesi entrati in quella cartina di cui parlavo prima.

Nella mia geografia narrativa i luoghi contano non per quello che sono, ma per quello che significano. Cioè esprimono un valore simbolico, dunque significano al di là del discorso reale. Per questo spesso avviene che da reale i luoghi diventano immaginari.

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Mi sembra, Giuseppe, che quello che tu affermi sui luoghi possa adattarsi come poetica anche ai personaggi.

“L’albero di stanze” è essenzialmente un romanzo di figure. Tante le storie che si affastellano e che corrispondono all’architettura della casa con un andamento labirintico, in cui la voce narrante di Babele e quello delle mura della casa rappresentano il filo d’Arianna che aiuta il lettore a non perdersi, a non attardarsi fino a rimanere in un angolo della costruzione, tanto è dolce il naufragare nelle vite di ciascun personaggio, e a tenere sempre vivo il quadro d’insieme, pur essendo immersi nell’intimità della casa e dei suoi abitanti. Gli eventi si dipanano attraverso i personaggi, sono loro il fulcro della narrazione, e mi pare che la voce narrante delle pareti di casa serva proprio a conservare il tono intimo e soggettivo con cui hai deciso di raccontare un romanzo genealogico, in cui lo spazio è ristretto (e per questa sua ristrettezza appare illimitato) e il tempo è sospeso alle nascite e alle partenze, ma anche ai ritorni, alle perdite e alle morti. Un tempo che si misura sulle vite dei personaggi, più ancora che sullo scorrere degli anni.

Babele, Redentore, Crocifossi, solo per citare i personaggi fondamentali del romanzo, con i loro nomi parlanti e altisonanti, non hanno un forte valore simbolico? E anche la loro posizione nella genealogia, dal bisnonno Redentore al nipote Babele, con cui la casa si chiude in maniera definitiva proprio alla fine del secondo millennio, non indica un senso profondo che si allarga oltre il reale, così da renderle figure immaginarie?

Con quali materiali, letterari esegetici immaginari, Giuseppe Lupo ha messo al mondo l’infinita famiglia di Redentore? Dove abiteranno, una volta che la casa verticale è stata dismessa, Sophie e Marie Antoinette, e in che modo le figlie francesi di Babele possono essere considerate discendenza di Redentore? oppure è la casa stessa la vera figliolanza di Redentore e quello straccio rimasto a penzolare sui fili di ferro usati per stendere il bucato, con cui si apre con estrema vividezza il romanzo, è un segno di resa, uno struggente addio, un rimpianto piantato saldamente nel primo millennio?

I personaggi del romanzo hanno tutti un valore simbolico, ma non solo. Rappresentano anche le cinque generazioni che hanno accompagnato e favorito la crescita verticale della casa. La dimensione di questi personaggi è legata al discorso delle età della Storia secondo Giambattista Vico: l’età degli dei (che coincide con bisnonno Redentore), l’età degli eroi (che coincide con nonno Salutare), l’età della ragione (che coincide con Forestino, il padre di Babele). Vico si ferma a queste tre generazioni che si ripetono ciclicamente. Io ho aggiunto quella di Babele, che è la generazione della memoria, di chi scrive la memoria, ma anche quella di chi consegna ai figli il magazzino di memoria che è stata la casa. E poi la generazione delle figlie Babele, che dovranno costruirsi la loro casa così come vorranno loro.

Il chiodo non è semplicemente un chiodo. E’ un architrave che regge la casa. Se togli il chiodo, da un punto di vista simbolico non ci sono più ragioni che la casa sia in piedi.

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C’è magia in “L’albero delle stanze”. Non mi riferisco soltanto al senso del magico che sostiene l’architettura della casa di Redentore, o dei tanti “miracoli” che nella casa accadono, a partire dalle mura che restituiscono al sordo Babele parole e storie delle generazioni precedenti, o del misterioso Crocifossi con la sua longevità. Mi riferisco particolarmente a un certo “incantamento” che è la cifra della tua prosa. Una scrittura musicale, armoniosa, lessicalmente preziosa. In questo senso, più ancora che per lo svolgimento delle vicende, definirei il tuo libro un’epopea, riconducendo la parola alla sua etimologia: epos. Epica è la scrittura, come epica è la statura dei personaggi, come epica è la volontà di ricostruire un mondo di valori condivisi.

Quali sono i modelli letterari a cui ti sei rivolto? Ci sono delle opere privilegiate a orbitare nell’universo letterario di “L’albero di stanze”?

Da sempre ho un’ammirazione per i romanzi che si proiettano sull’immaginazione più che sulla realtà e questo credo dia quel senso di incantamento che è intorno ai personaggi e nelle vicende di queste stanze. Amo i libri che, leggendoli, mi fanno salire o scendere di un gradino rispetto al piano della realtà, che per forza di cose è destinata al racconto della cronaca. Mi piace pensare che i libri siano altro rispetto alla cronaca. Perciò amo la linea degli scrittori immaginativi, fantasiosi, visionari: da Le mille e una notte ad Ariosto, da Cervantes a Kafka, da Faulkner a Marquez.

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La tua scrittura si divide tra narrativa e saggistica (di recente pubblicazione: “La letteratura ai tempi di Adriano Olivetti”, Edizioni di Comunità). Mi sembra che si possa tracciare una dicotomia tra il romanziere e il saggista. Dagli scrittori immaginativi e fantasiosi a quelli legati alla “civiltà delle macchine”. Forse la linea di contiguità tra gli uni e gli altri è nell’aggettivo “visionario”? ed è lo stesso aggettivo che permette agli uni agli altri di convivere nella tua scrittura? Perché mi sembra che in “L’albero delle stanze” il tratto visionario sia molto caratteristico e caratterizzante e ricada su personaggi, luoghi, oggetti, oltre che sulla scrittura stessa. La casa stessa di Redentore cosa altro è, nella sua strabiliante architettura, se non un’opera visionaria, che comprende il tutto? Nei tanti marchingegni che si compongono e scompongono nella casa non si nasconde, forse, un tratto saliente di Sinisgalli?

3171907Certamente esiste una dicotomia tra la mia natura visionaria e quella più razionale. Qualche anno fa, in un libro che si intitola “Atlante immaginario”, edito sempre da Marsilio, raccontavo che per il mio lavoro uso due scrivanie: su una scrive il narratore, sull’altra il saggista. Sono due luoghi dove si respira un’aria dai destini diversi, frutto del lavoro diversificato. In realtà, il visionario non è lontano dal razionale. Non sono che due lati della stessa medaglia, due maniere apparentemente opposte di concepire il desiderio di costruire il mondo attraverso le parole, cioè la scrittura.

 

 

 

 

Per concludere: nella vita sei lontano dalla Basilicata da molti anni, ma lo scrittore è rimasto sempre nei luoghi di origine, creando uno sguardo pieno e profondo, che è intrinsecamente “interno” e lucidamente “esterno” perché lontano. Esiste una letteratura lucana? Chi ne è il padre? e in che modo e con quali criticità Giuseppe Lupo sente di far parte (se lo sente) di una tradizione letteraria lucana? Ti si potrebbe definire uno scrittore meridionale, o meridionalista, o invece più universalmente del Sud?

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Rocco Scotellaro ritratto da Carlo Levi

Di solito ogni letteratura si lega alla geografia a cui appartengono gli autori. Esiste dunque una letteratura lucana in relazione al fatto che esiste una Lucania e una Lucania da raccontare. Sulla base di questo discorso credo che ognuno di noi sia il frutto di una genealogia o di una famiglia. La Lucania ha avuto due anime nel Novecento: Sinisgalli e Scotellaro. Ma il padre della narrativa lucana è Carlo Levi, padre forestiero, un padre non di sangue, ma adottivo. Ogni scrittore del Sud (e lucano ancor di più) deve fare i conti con questo padre che ha raccontato il Sud in una maniera importante (si può essere d’accordo o no, ma di fatto la sua chiave di lettura ha resistito a lungo nel tempo) per poi condividere o prendere le distanze. Da Levi è scaturito Raffaele Nigro, in contrapposizione a Levi si è messo Gaetano Cappelli, dentro il solco di Levi si è inserita Mariolina Venezia con il suo primo libro. Io, come anche Andrea Di Consoli, abbiamo attraversato Levi. Per quanto mi riguarda, il mio modello di riferimento non è tanto Levi, ma Sinisgalli: un autore che ha raccontato un altro Sud, non quello dei contadini, ma quello degli artigiani.

Leonardo Sinisgalli ritratto da Maria Padula
Leonardo Sinisgalli ritratto da Maria Padula

 

Rubo il saluto alle pagine di Giuseppe Lupo:

Qualcuno bussa, nella stanza entra una carovana di invitati, cinquanta, forse cento facce che guardano verso di me, salutano, sorridono, paiono felici e sento dire che la cometa si è fermata sugli abbaini della casa, il tempo di farli scendere ed è ripartita. Si avviano verso una porta chiusa, la aprono, l’attraversano. Io li seguo, sono l’ultimo a varcare la soglia.

Chiacchierando con… Giuseppe Lupo