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E’ questa la terra promessa?

di Eli Amir

 Patrizia http://www.leultime20.it/

twitter: @patrizialadaga

 Giuditta

twitter: @tempoxme_libri

1. Dai un voto alla copertina e spiegalo
Voto:81/2 
Una copertina che, come il libro, parla di serenità da conquistare, di una promessa di felicità rappresentata da un campo costellato di piantine di tarassaco in piena infiorescenza. In attesa dei fiori che verranno…
Voto: 8

Una copertina poetica e suggestiva, che rende simbolicamente attraverso i soffioni, “occhio di Dio”, la tematica della speranza, dell’attesa, del futuro.

2. L’incipit è …

Un incipit descrittivo, che colloca geograficamente il lettore nella storia e gli anticipa, metaforicamente, la durezza della “scalata” del protagonista verso l’agognata integrazione sociale..

L’autobus che saliva su per il Monte Carmelo si bloccò, riprese fiato e scattò in avanti.

La salita verso il monte Carmelo, con i suoi stacchi e le riprese, rende bene la fatica e la durezza delle prime pagine: il soggiorno del protagonista ad Achuza prima di poter usufruire di un soggiorno in un kibbutz:

L’autobus che saliva su per il monte Carmelo si bloccò, riprese fiato e scattò in avanti.

3. Due aggettivi per la trama
Interessante e istruttiva.
Interessante e profonda.

L’esperimento dei kibbutz e la sorte dell’emigrazione ebrea dal Medio Oriente di cui poco conoscevo sono trattati con forza narrativa e con ricchezza di dettagli.

4. Due aggettivi per lo stile
Immediato e limpido.
Nitido e sobrio. Sempre precisa e ricca la traduzione di Shulim Vogelmann. 
5. La frase più bella
Un passaggio del libro descrive alla perfezione il conflitto interiore del protagonista. Lacerazioni dolorose e, purtroppo, più che mai attuali:

Quando eravamo arrivati qui avevo giurato che avrei piantato le mie radici a Kirayat-Oranim, che ne sarei divenuto parte. E ora non ero né qui né là, ero alla deriva nella terra di nessuno, hai fallito mi dicevo. Raccogli le tue cose e tornate nella ma’ abarà. Non sari mai un “locale” e la ragazza bionda non sarà mai tua, né lei né nessuna delle sue amiche. Erano migliori di me?

Tanti gli spunti di riflessione, in particolare sul tema dell’identità, profondamente e dolorosamente vissuto dal protagonista del romanzo, che risultano di straziante e potente attualità. Un libro necessario per poter guardare con occhi più attenti al presente e alle sue tragedie. La necessità è spesso drammatica, ma la bellezza della frase è, a mio avviso, nella forza introspettiva:

Loro erano il nuovo e io ero il vecchio, loro la redenzione e io la diaspora. Volevo essere come loro, un uomo nuovo, e non ero né l’uno né l’altro.

6. La frase più brutta
L’orrore della violenza in poche parole:

L’abbayeh a terra, l’akal, e l’uomo che si sollevava ritmicamente come un folle sul corpo del ragazzino che gemeva, gridava e piangeva sotto di lui. L’uomo, mezzo nudo, aveva il fuoco negli occhi e la saliva che gli colava agli angoli della bocca.

Impervio e duro l’inizio del romanzo, e la frase più brutta, con la scena più crudele non può che venire dalle prime pagine:

L’abbayeh a terra, l’akal, e l’uomo che si sollevava ritmicamente come un folle sul corpo del ragazzino che gemeva, gridava e piangeva sotto di lui. L’uomo, mezzo nudo, aveva il fuoco negli occhi e la saliva che gli colava agli angoli della bocca.

7. Il personaggio più riuscito
Senza dubbio Sonia, una delle dirigenti del kibbutz, guida coraggiosa e mediatrice infaticabile, sensibile e determinata, sempre vicina al protagonista e ai suoi bisogni.
Due donne. Sonia, bellissima veterana del kibbutz, piena di passione e di passionalità miste alla durezza e lucidità di chi crede ciecamente in un’idea, senza per questo perdere in umanità e dolcezza. Nili- pantalone e la sua importante, personale, non scontata rivoluzione, unita al forte desiderio di integrazione.
8. Il personaggio meno azzeccato
Più che due personaggi, due gruppi di personaggi antagonisti, con cultura e tradizioni inconciliabili: i “locali” da un lato e gli abitanti della ma ‘abacà (i campi destinati agli emigrati ebrei mediorientali) dall’altro. In entrambi casi il pregiudizio e l’intolleranza hanno trasformato gli esseri umani in comunità spregevoli e senza cuore. Eli Amir descrive però i campi profughi con maggior partecipazione e intensità, mentre dei “locali” lascia al lettore un’immagine poco nitida che stimola la curiosità di saperne di più.
I cosiddetti “locali”, i nativi del kibbutz. Sono trattati senza introspezione, una coralità che se serve al dettato ideologico, ne appiattisce la complessità, anche di quelle figure come Zvika e Niza che si stagliano dal gruppo, ma a cui Eli Amir, volutamente, mi pare non voglia concedere spessore.
9. La fine è…
Malinconica, triste, ma “aperta”.

Nostalgica e pessimista, ma strettamente necessaria.

10. A chi lo consiglieresti?
A chi ama i romanzi di formazione, la storia di Israele e soprattutto a chi abbia voglia di scoprire qualcosa di più su quell’azzardato esperimento sociale che furono i kibbutz.
A chi guarda alla storia come una maestra di vita, perché attraverso la figura di Nuri e dei suoi compagni iracheni in Israele, possiamo scoprire i sentimenti, i bisogni, i sogni e le sensazioni di chi emigra in ogni tempo e in ogni dove.

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