Ho letto con rapimento ed estasi “Il genio dell’abbandono” (Neri Pozza, 2014) di Wanda Marasco e l’ho trovato eccezionale, nella lingua nella costruzione drammaturgica nello sfondo storico e nella genialità tutta umana del protagonista. Eccomi, dunque, insieme a Wanda Marasco in uno dei giardini della collina del Moiariello, luogo dove Gemito ha vissuto per qualche anno della sua vita, lo stesso in cui abita lei.

– Da qui Napoli appare aberrata e bella. – mi dice Marasco, e si comincia a parlare di Gemito.

 

La prima immagine che ci regali di Gemito è quella dello scultore in fuga da Villa Flereunt, dove è stato ricoverato per la pazzia che l’ha portato a essere violento contro se stesso e gli altri. Per scappare approfitta della tradizionale festa organizzata nella clinica per la raccolta fondi.  Il primario della clinica ha voluto che all’interno del laboratorio teatrale lui si occupasse dello scenario. Sciatone e Capocchia, due sorveglianti usciti dalla commedia dell’arte, devono montarlo ed è come se il sipario si aprisse su un “dietro le quinte”. Quanto teatro c’è in “Il genio dell’abbandono”?

L’impronta del teatro nel romanzo è sicuramente forte, ma si tratta di una manipolazione delle forme teatrali desunte dalla tradizione (non solo napoletana). Nel romanzo esse strutturano l’azione dei personaggi come vere e proprie citazioni d’anima ripetibili all’infinito. Un calco del teatro e dei “teatri” è presente soprattutto nei rapporti amicali e familiari di Gemito. Del mio romanzo preferisco però la parte meditativa, l’affondo nel carattere dei personaggi e nei loro turbamenti, i momenti descrittivi della natura, che sono sempre, mi pare, osservazione sulla bellezza malata, il disagio e la cosiddetta “coscienza infelice”. Intendo i passi sulla povertà, quelli che scavano nell’analisi dei “miseri” e in cui vengono interrogati il doppio e la conflittualità.

Dopo tutto, Wanda, c’è proprio questo sentimento e questo senso da te appena descritto nella definizione, che così bene veste Gemito, di “genio dell’abbandono”:

Ragionando: il genio dell’abbandono aveva dunque la responsabilità del suo destino? Gli aveva iniettato miseria? Gloria? Sacrificio per non cedere? e imposto questa nascita a pezzi. Perché lo stavano ficcando nella buca primma cu ‘e piede, po’ cu’e cuscetelle, in ultimo con una spinta alla testa che garantiva l’esatto sprofondamento.

è questo l’elemento narrativo su cui hai costruito il tuo romanzo (possiamo definirlo romanzo il tuo libro? Biografia? Biografia romanzata? c’era un’idea di genere su cui costruire la tua storia?) oppure è venuto fuori dal personaggio stesso, ineluttabilmente e inevitabilmente? Si poteva costruire un figura così potente come è Gemito nel tuo romanzo, senza l’abbandono che contraddistingue la sua nascita?

L’abbandono sulla Ruota dell’Annunziata che racconto nella storia di Gemito è solo il primo “gesto” di una visione della “separazione”. C’è, per così dire, un’entrata non naturale, non equilibrata della creatura nella Storia. Il mistero o il degrado del soggetto che ha compiuto questo gesto è già espressione di una grave stanchezza e di un dramma senza altre soluzioni. Paradossalmente ficcare il bambino nella buca è il valore necessitante a non imporgli il rifiuto assoluto, come possono essere la morte e il sacrificio di una vita insostenibile. Questa è l’azione che non trova vie di mezzo, che arriva quando non riesce a risolvere il dramma sociale ed individuale. A me interessava dire che l’abbandono, una volta dato, è spaventosamente replicato. Come se la creatura nata con una pena così direttamente sancita fosse venuta al mondo per confermare e ripetere l’antitesi irrisolta di chi lo ha biologicamente e disastratamente generato. Nella realtà delle emarginazioni il bambino non trova un finale alla Dickens. Gli sono negate l’umana educazione e l’utopia della felicità. Allora cresce come Vicienzo, senza orientamento, nella violenza, nella sete di giustizia e con un dono che può essere disperso, a meno di ingaggiare una battaglia da titano. L’abbandono di Vicienzo ha rappresentato soltanto l’alibi narrativo da cui sono partita. Non è l’elemento fondante della storia, perché delle plurali e terribili forme in cui l’abbandono può avvenire, mi interessa soprattutto la tragica certezza delle sue repliche. Ad esempio, quando nella tipologia di un’adozione non si verificano le condizioni per una crescita corretta.

L’aspetto antropologico e sociale in questo caso coinvolgeva le contraddizioni di un’intera città. Era lo scenario possibile. Conosciuto e osservato anche nel mio lavoro di insegnante.

Mi occorrevano in ogni caso possibilità di analisi e di sintesi più profonde, Gemito avrebbe rappresentato il plot e il fenomeno.

Ho voluto l’immedesimazione nell’infelicità di Vicienzo che dà al carattere dell’epopea. Ho fatto come se tendessi al massimo la corda dell’arco di cui parla Kierkegaard quando dice che il bersaglio dell’amore (ma anche dello svelamento, della specchiatura a cui riferirsi nella ricerca del sé e dell’altro) deve essere distante, più distante che si può, proprio per corrispondere alla forza tensiva dell’arco. Se è troppo vicino, l’arciere dice:- Non ce la faccio, non ce la faccio. Gemito, per biografia e personalità, è lontano da me. Lontana era anche la lingua napoletana, a me mai parlata e pensata. Gemito e la sua lingua mi sono serviti da “maschere”, bersagli distanziati per narrare al meglio. E in questa narrazione il tema dell’abbandono va forse esteso a una poetica che lo dice inchiesta e battaglia, a partire dalle origini, e fino al bisogno metafisico,o metamorfico, di cui sembra che l’uomo abbia ancora bisogno per non sparire nella vacuità e nel naufragio.

Condotta a una tale lotta la narrazione aveva bisogno di “agire scrivendo” e, viceversa, di “scrivere agendo”. In tal senso solo una biografia nelle sue infinite volizioni, poteva consentirmi di raggiungere l’obiettivo. Allora Vicienzo è stato da me manipolato, usato per “l’esatto sprofondamento”.

Vicienzo-maschera, lingua-maschera. Nient’altro che funzioni in mimesi. In grado di restituire la realtà franta e le immagini dei sogni. E poi Gemito, con la sua magnifica e folle vita (la vita interiore è stata completamente reinventata con un minimo uso di stralci estratti dall’esiguo diario e da qualche lettera) mi permetteva di narrare in maniera tragicomica due temi a me molto cari: l’erranza e la claudicanza. È, probabilmente, una visione del mondo. Il personaggio ne risulta incatenato e ce la restituisce come vortice e seduzione. Si poteva in ogni caso costruire una figura potente senza l’abbandono che descrivo. Sarebbe bastato immaginare un protagonista saldato alla vertigine di affermare la propria esistenza. Ma Gemito bene si prestava ad essere attrattivo, a rappresentare per ogni altro personaggio presente nel testo un abisso e un amore-terrore esclusivi.

Era l’infezione tragica di ognuno, era fatto con la sostanza grottesca del limite, dell’inadempienza. E rappresentava al massimo grado l’ “orfanità” come condizione perenne dell’uomo.

Se Il genio dell’abbandono è un romanzo? A questo punto, senza ombra di dubbio, direi di sì. E affiderei all’uso che ho fatto di una biografia il senso di un “contenitore”. Un contenitore platonico che ho atterrato dalle dimensioni leggendarie fino ai vichi di Napoli, perché fosse in grado di rappresentare tutta la distorsione di un’esistenza che continua a urlare, incomprensibilmente, l’ideale.

La lingua è un elemento straordinario della tua narrazione. Una lingua che è canto, nel senso “magico” da cui la parola deriva. Come il canto ha un ritmo, un battere e levare. La lingua che usi sprofonda e si eleva. Serve per rendere gli oggetti tangibili e concreti e per sublimare l’arte e i sentimenti. Nel suo scorrere ha un levare verso le forme dialettali pure e un battere verso la normalizzazione e in questo miscuglio straordinario si fa carne e si fa cuore.

Lingua maschera la definisci e ne comprendo il suo intimo senso. Ma invece nella pratica quale fatica è costata alla scrittrice? Come si lavora su un vocabolario così complesso?

La mia impressione è che ci sia stato un labor limae ad alta voce, saggiando il ritmo e la melodia della parola scritta. 

Tanto per darne un esempio, che è un abbandono alla lingua e alla sua intrinseca e congenita musicalità, senza perderne il senso:

A Napoli, da secoli dei secoli, il primo buio è preceduto da una malattia dei colori. Nascono screziature viola ‘e ffeneste, strisciate blu sopra gli astici, macule rossigne a ogni purtone. S’appìcciano fanali e lumi. Se stenne na segatura giallo oro annanze ‘e pputeche. In cielo la luna cresce continuamente, come un pane largo e appiattito. Iesceno ‘e viziuse, ‘e mariuole, ‘e femminielle, le ronde ubriache. Iesceno ll’uommene ammascarate, ‘e disperate, ‘e ‘mbrugliune. Stanno in uno squilibrio di collera, malaffare e debolezza. Con mani, cosce, sanghe, sforzo dei muscoli, purchiacche, mascelle, rabbiosamente a mostrare affetto per questa luce ammiscata ‘o nniro, sotto minaccia. A Napule l’ultima luce mescola morte e resurrezione.

Come si ottiene un risultato così? Nasce spontaneo o ci sono lacrime e sudore?

Nella pratica, nell’attività laboratoriale che si accompagna a ogni scrittura, la costruzione della lingua è avvenuta almeno su due piani: uno filologico e l’altro drammaturgico. C’è la tradizione da Basile a Viviani, da Eduardo a Ruccello. L’esperienza di tante letture mi è venuta in soccorso. Avevo già assorbito e superato queste “lingue napoletane”. Musiche e attriti irresistibili, combinati fino a un risultato che è diventato partitura, uso delle risonanze, qualche volta manipolazione di topos drammaturgici. Per fare degli esempi, si vedano gli episodi in cui è marcata l’influenza di Basile, Eduardo e Ruccello: Gemito in viaggio per la consegna del busto a Verdi; i dialoghi con familiari e amici; l’atto di scagliare la figlia Peppinella contro una parete. Tuttavia le letture non sono bastate. Tra i lemmi, le parole arcaiche e quelle più moderne, le diverse volizioni sintattiche, c’erano sul tavolo glossari e grammatiche. Sul piano drammaturgico ho cercato di dare a questa lingua viscere e sublimità, per realizzare un canto a piena voce, servendomi di note, refrain, contrappunti, fughe, ma “con un silenzio tutt’intorno”, rappresentato dalla desolazione umana di Vicienzo e dei suoi familiari. “Questa è la forma” scriveva Lukács. Inoltre volevo che la lingua fosse corpo e astrazione. Il fine era esprimere il “linguaggio naturale della rivelazione”. Qui si sono innescate l’oralità, la melodia interna (al napoletano come all’italiano) e l’energia lavica, stuprante, dei suoni che si sentono camminando per Napoli. Non ho saggiato il ritmo compiendo un labor limae ad alta voce. È impressionante anche per me non averne avuto bisogno. Tutto era stato interiorizzato a un punto di massima maturazione. La similitudine che mi viene in mente è quella di un compositore quando ha la musica in mente prima di eseguirla. Gemito è la conclusione di un lungo lavoro a tavolino dopo lo studio, le letture e il vissuto. Il ritmo derivato dalla mia formazione poetica e teatrale era per me già essenza della narrazione: E solo la lingua che batte poteva restituire al meglio l’evoluzione di un’anima.

Come si ottengono certi risultati? Non ho dubbi: con lavoro e sudore. Ma le tecniche adoperate (la lingua e il suo ritmo) devono essere capaci di realizzare acrobazie, leggerezze, carne che scavalca l’abisso umano sotto i nostri occhi. E quindi parlo di una scrittura che costa quanto la vita. È, credo, l’equazione che chiede per sé ogni vero esercizio della letteratura.

 

Il genio dell’abbandono è una tavolozza in cui si mescolano tanti temi. Potrebbe essere considerato anche un romanzo storico? Le tue indicazioni su un lungo periodo storico, pieno di rivolgimenti e sfumature, che racchiude la vita di Gemito, sono sempre dettagliate e precise, ma viste da quell’angolatura sbilenca e straniante che attraversa tutto il romanzo. Garibaldi, l’esperimento della Comune parigina, la guerra, Caporetto, il fascismo. Ottieni un risultato straordinario: il particolare che si innesta nell’universale. La Storia che si fa storia, attraverso l’ottica con cui la raffiguri.

Non è solo cura dei dettagli, ma un progetto più grandioso, panteistico, totalitario. Racchiudere e raffigurare nella vita di Gemito anche la storia di una nazione e di un’epoca, senza nulla togliere al particolare e all’eccezionale dell’artista, anzi mostrando quella Storia da un’angolatura del tutto originale. Che rapporto ha Gemito con la sua epoca? E in che rapporto sta la Storia con il tuo romanzo?

Dell’idea di un romanzo anche storico “Il genio dell’abbandono” ha avuto in parte bisogno. Non riuscirei a concepire una narrazione priva dei riferimenti alla realtà storica. È vero: c’è stato un progetto panteistico, volevo che il particolare fosse innescato nell’universale e viceversa. Ma ho trattato la Storia attraverso la percezione del personaggio. Ne è venuta fuori una dimensione precisa nel dettaglio, eppure allucinata, direi smolecolarizzata rispetto al flusso compatto della vita interiore. Gemito, come accade a tutti gli emarginati dalla testa fina, sapeva cogliere in ogni evento il paradosso, il risvolto sociale, la violenza. Riconobbe a naso la corruzione e il sopruso, per antica saggezza e ripetuta esperienza. Se ebbe il mito della patria che adotta e riconosce, questo non gli impedì di scorgerne, in tempo di nazionalismo e di fascismo, i limiti e gli errori. Verso i governi tenne l’atteggiamento paziente o irascibile di chi si aspetta la pensione di Stato e le onorificenze promesse. Negli ultimi anni della vita battute e considerazioni riportate dagli amici lasciano credere che Gemito avesse capito del Fascismo l’intero sistema di arroganza e di sopraffazione. Era vecchio. Senza nessuna militanza politica alle spalle. Credo che avesse ripugnanza verso la sua epoca come ne aveva per l’estrema commercializzazione dell’arte e di un mondo che era diventato soltanto “danaro”. La grande guerra, la mancanza di lavoro, l’avvento della dittatura. Si difese restando un indomabile artigiano. Paragonava la Storia a un sistema carcerario, ipocrita e corrotto, fondato su una precisa gerarchia. I piccoli, gli ultimi, non vedevano mai il “capo”. Restavano a lavorare nella loro cella, ma come se fossero “evasi” dall’esterno, e avessero sviluppato un “interno” anarchico eppure rigoroso nella dedizione al lavoro. Ho dovuto raccontare questa verità del suo rapporto con la Storia, che insieme alla malattia gli rese la vita illusione ed esilio. Per riuscirci mi sono lasciata guidare da un piano di analisi e da un altro di compassione. Nel senso, credo, della lezione più grande, che va da Dostoevskij e Kierkegaard, passa attraverso Napoli, arriva, forse, alle aberrazioni poetiche e nevrotiche di Artaud, Céline e Pessoa. Non ci sono paragoni da fare, questi sono soltanto alcuni degli autori che ho più amato. Dopo averli assorbiti, qualcosa sarà rientrato nella resa narrativa, sia pure profondamente trasformato. Tu hai detto bene: “Storia” ed “ottica”. L’occhio dello scultore e quello del narratore hanno a che fare con un singolo uomo e con la Storia universale. L’occhio è soggettivo, ma è “posto per ognuno”, perché è etico-psicologico e mette insieme la cosa sapiente e la cosa semplice fino a un unico risultato di “drama dramatum”, come forse avrebbe detto Kierkegaard.

 

Se Gemito ingombra le pagine con l’esuberanza, le manie di grandezza, la fragilità psichica, la genialità e l’eccesso, “Il genio dell’abbandono” è affollato di personaggi secondari, di minore o maggiore importanza nella vita di Gemito. Sono tutti ritratti con grande realismo, un’aderenza al verismo della narrazione, con coerenza di carattere e attenzione ai gesti, piccoli e grandi, che ne ispessiscono i tratti. La famiglia di Gemito, innanzitutto: il padre, la madre, la moglie e la figlia con i nipoti. Ma anche maestri come Caggiano, galleristi come Duhamel, amici come il pittore Mancini o incontri come quello con Verdi o con D’Annunzio, ma la lista sarebbe lunghissima e variegata. 

Come hai lavorato sui personaggi secondari? C’è voluta più cura e studio nel rintracciare la figura di Gemito o quella dei tanti che lo circondano? Perché tanta e diversa umanità intorno al protagonista? Solo per rispondere al vero biografico o c’è una ragione narrativa più profonda e sentita e un effetto ricercato e consapevole?

Naturalmente niente è “secondario” in quella che chiamiamo architettura del romanzo. I personaggi “minori” sono i punti di forza e di sostegno nella costruzione del personaggio Gemito. E rappresentano la molteplicità dei punti di vista. Tale è, diciamo, il valore di superficie. Ma se essi vengono narrati nella qualità di onde antinomiche alla ricerca di illusi equilibri ne deriva, forse, un duplice risultato: da un lato si danno i complementari approfonditi, ovvero una raggiera di prospettive, dall’altro la volizione del dramma cessa di essere monologante e si evolve in un sistema di conflitti a più direzioni. Che queste direzioni approdino tutte al titanismo e al soggettivismo di Gemito significa che il loro ordito (vita, pensiero, complessione) finisce col trattare e sentire Gemito come l’unica relazione possibile con il nucleo tragico e grottesco del mondo. In altre parole, la vita dello scultore li contiene, li dirama e li isola nella peregrinazione di volontà e sentimento, nella legittimazione di una tristezza ancestrale di cui Gemito è soltanto il motore espansivo. Se si osserva bene, gli “altri” sono posizionati nel romanzo come un’interruzione estensibile all’infinito. Tanti romanzi nel romanzo. Molteplici esistenze travestite da riflessi di una vita dominante, ma la narrazione, al di là del vero biografico, li concepisce insieme monadici e corali. Hanno ognuno nella voce interiore il passo che avanza o che indietreggia delle coefore dinanzi al terrore e alla conflagrazione dei destini. Anche se qui, pagina dopo pagina, il climax fatato e veristico li immette sul ciglio di un abisso, che chiamerei conseguenza dell’attrito esistenziale e sentimento della catastrofe. I personaggi secondari dovevano poi rappresentare anche i fattori storico-psicologici. Uno per tutti e tutti per uno, se mi è permesso il paradosso tra vite determinanti e vite subite. A questo punto la percezione della loro storicità mi è diventata tra le mani forma psichica e persino sensuale (vedi Peppinella, Nannina Cutolo ecc.), poiché la loro vita, sotto l’influsso del dolore gemitiano, diventava sempre più tensione desiderativa, bisogno naturale, inganno spiritico e mai risoluzione. L’attrito e la fragilità. Erano questi i perni intorno a cui farli ruotare. Mi chiedo (e la cosa è stimolante) in quale altro modo potevo narrarli se non nel gioco drammatico che ne avrebbe sancito separazione attrazione e afflato? E soprattutto reciproca “incomprensione”, scambievole “equivoco”, da sempre contenuti e quasi categorie della letteratura. Nel vero biografico i personaggi intorno a Gemito erano molti. Venivano da tre realtà: la strada, l’arte e la famiglia. Ho dovuto operare una scelta che ha sacrificato storie anche importanti. Studio e cura come per Gemito. Invenzione totale della loro vita interiore. E quando ho capito che Gemito e gli esclusi (compresi alcuni episodi storici) potevano tornare in un futuro romanzo come i personaggi e gli eventi “secondari” di un altro tipo di indagine umana e poetica, ho avuto la certezza (prima solo teorica) che la mia narrativa tende a convertire nelle metafore delle interiorità le radici terrestri di ogni personaggio, proprio come in una teatrale morfologia della coscienza per ogni vicenda umana.

 

Non è una semplice chiacchierata quella intercorsa con Wanda Marasco, ma un bagno di sapere, integrale, per il quale ringrazio con ammirazione la scrittrice che si è prestata con eccezionale generosità intellettuale.

Chiacchierando con… Wanda Marasco
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