L'invenzione della madre

Da quando ha esordito in maniera fulminante con L’invenzione della madre (minimum fax 2015, premio Volponi Opera Prima) io e Marco Peano ci siamo incrociati più volte senza riuscire mai a incontrarci. Finalmente l’occasione giusta è giunta nella splendida cornice di Pordenonelegge. 

Il tuo libro crea imbarazzo. Si dovrebbero usare termini assolutamente positivi ed entusiastici per lo spessore della scrittura e della struttura narrativa, ma nessuno sembra appropriato e adatto nel momento in cui ci si scontra con il tema, la morte dopo lunga malattia di una madre.

L’esattezza delle parole è preziosa, quanto rara. L’eccezionalità del tuo romanzo, nella mia percezione, è lo stretto connubio che si crea tra la materia trattata e il modo in cui hai scelto di raccontarla. La parola in L’invenzione della madre è essa stessa narrazione, parte integrante e fondamentale del racconto. Non una semplice scelta linguistica, ma una volontà narrativa e strutturale.

Le parole sembrano l’unico appiglio per dare un senso al vissuto nella sua tragicità.

Sei partito da questo, oppure il “come” scrivere il romanzo è venuto da sé? Avresti scritto nello stesso modo, con l’incessante ricerca della parola esatta, scoperchiandone l’etimologia per arrivare al senso esistenziale della stessa, anche un romanzo diverso?

©Stefano Stocco
©Stefano Stocco

L’importanza della parola nella stesura di questo libro è stata fondamentale. Ho il sospetto che per deformazione professionale, lavorando quotidianamente con le scritture degli altri, si sviluppa un certo tipo di sensibilità della quale far tesoro per riflettere sulle proprie parole. In realtà, il percorso che compie Mattia all’interno del romanzo è anche un percorso linguistico, perché nel momento in cui una persona in una famiglia si ammala si ha a che fare all’improvviso con un nuovo membro – che è la malattia stessa – e che porta a conoscenza di tutta una serie di terminologie ed espressioni che prima si ignoravano. Si comincia a maneggiare il nome di farmaci, cure e aspetti tecnici. L’ossessione che il mio protagonista ha per la madre, perché è proprio un ossessivo, gli fa percorrere una serie di tappe che lo conducono a conquistare alla fine del libro la parola più calda, che è «mamma». Per tutto il romanzo (e non solo nel titolo), la parola che viene usata alla terza persona è invece «madre», che è più fredda, clinica, mentre quella più intima sarà una conquista.

È difficile rispondere alla seconda parte della domanda, cioè se la stessa attenzione l’avrei dedicata a un libro con un altro tema. Forse sì. Però penso che avrei potuto scrivere L’invenzione della madre solo in questo modo, non diversamente. Il tempo che mi ci è voluto per dargli forma – che, mi rendo conto, non è un valore assoluto – in qualche modo può testimoniarlo. Mi sono mosso nel “come” romanzesco alla ricerca di una struttura, di una voce, che potesse avere il giusto equilibrio tra l’intimo e l’universale, cercando di evitare la pornografia dello sguardo, il morboso. Credo di essere riuscito a ottenerlo passando per il nitore della lingua, che era l’appiglio principale al quale tenermi.

Ti ho immaginato come uno scrittore che maneggia le parole così come il chirurgo gli strumenti. Non c’è semplicemente il bisturi, ma un tipo di bisturi a seconda dell’operazione da compiere, che serve per tagliare e per incidere, ma nello stesso tempo per curare o per tentare una cura. Quale dei due aspetti è maggiormente presente nell’attenzione che riservi alla parole: quello della cura, intendo cura dell’anima e lenimento o consolazione del dolore, o quello dell’incidere e quindi del fare male? Insomma: la parola de L’invenzione della madre serve per curare o per approfondire il dolore?

©Stefano Stocco
©Stefano Stocco

È una parola che serve per riflettere sul dolore, e nella riflessione io spero ci sia una guarigione. Una cosa molto bella sul mio libro l’ha scritta Michela Murgia, quando ha detto che «L’invenzione della madre cura, non ammala». Però per raggiungere la cura attraverso il percorso intrapreso da Mattia bisogna superare sicuramente molta sofferenza. In realtà, mentre scrivevo il libro (che nasce da una vicenda autobiografica), mi sono accorto che stavo indagando nella mia memoria alla ricerca di più materiale possibile che mi ricordasse quest’esperienza, ma poiché la scrittura è selezione, era necessario sfoltire per arrivare a un nucleo più ristretto. Non volevo trarre in inganno il lettore facendogli credere che in realtà leggere questo libro sarebbe stato consolatorio, e quindi più o meno intorno a pagina 20 c’è una lunga descrizione – che in origine era ancora più lunga – della preparazione per la notte del letto dove la madre dormirà. Una descrizione semplice, ma accurata. Viene spiegato come stendere la traversa sul letto, il cambio del pannolone, il borotalco, i farmaci, le abluzioni – insomma, tutta l’ordinaria amministrazione di chi ha una persona malata in casa, inferma. Ho scelto di indugiare parecchio su quella scena almeno per due motivi. Primo perché volevo che il lettore percepisse che quell’episodio, che stava avvenendo quella notte, si moltiplicava per tutto l’ultimo anno in cui il padre e il figlio stanno accanto alla donna; cioè che quella cosa sarebbe accaduta tutte le notti a seguire. Qualcuno mi ha detto che quella descrizione così clinica, se vogliamo restare in ambito chirurgico, poteva risultare insostenibile. Io mi sono detto (e questo è il secondo motivo, forse ancora più importante) che non volevo che il lettore avesse la percezione di un libro che affronta questo tema in maniera edulcorata. Così ho pensato che potesse essere un’occasione, un modo per mettere in guardia il lettore in maniera manifesta: il libro parla di questo – lo stavo avvertendo –, se accetti il patto puoi andare avanti, altrimenti puoi chiudere qui. Io penso che le storie ci debbano arrivare nel momento in cui siamo predisposti ad accoglierle, altre non arriveranno mai, altre tarderanno ad arrivare. Non bisogna per forza leggere un libro.

Mentre scrivevo il mio romanzo stavo molto male, sono stati anni complicati perché rievocavo un vissuto doloroso e mi sono chiesto un paio di volte chi me lo facesse fare. Stavo per abbandonare la scrittura, poi mi sono accorto che c’era un’urgenza molto forte dietro il bisogno di raccontare questa storia, ho pensato che potesse avere una valenza che non fosse soltanto quella intima, privata, di testimonianza – altrimenti avrei scritto un memoir o un diario –, ma poteva prendere una forma in grado di arrivare a più persone possibili. Le armi a mia disposizione sono quelle della narrazione, dunque ho provato a organizzare intorno a un nucleo narrativo la mia vicenda trasfigurandola: la storia si conclude in un punto in cui il protagonista, che per tutto il tempo è stato bloccato nella sua post-adolescenza, forse farà un cambiamento perché ha acquistato una parola. Però non è detto. È un modo per dire che la cura può arrivare, ma c’è molto lavoro da fare.

Una cosa mi ha colpito in questa tua risposta, e forse può esserti utile come riscontro da parte di una lettrice. Quando consiglio il tuo libro, dico sempre di arrivare proprio a pagina 20, per poi decidere se continuare a leggere, perché il libro è tutto così come è condensato nelle pagine iniziali, in una coerenza perfetta e assoluta. Come lettrice, L’invenzione della madre mi ha coinvolta per la capacità di estrapolare l’universale dal personale, e scopro adesso anche dall’autobiografico – ed è così che arriva al cuore del lettore. A me il libro è arrivato perché non c’è edulcorazione. È lì nella sua verità.

Trovo che il titolo L’invenzione della madre sia bellissimo. Si tratta di inventare – nel senso etimologico del termine latino «invenire», cioè «ricercare», «trovare» – una parola che è «madre» per poi trasformarla in «mamma»? Oppure è l’invenzione della figura della madre, che non è più quella consueta che accudisce, ma quella che deve essere accudita? In entrambi in casi, si tratta di un’invenzione che ha in sé uno spiazzamento, un capovolgimento fondamentale.

©Stefano Stocco
©Stefano Stocco

Io penso che la letteratura debba tendere all’universale. Quando si scrive ci si cimenta con i colossi, per poi conquistare un posto molto più in basso, dove comunque sarebbe impossibile arrivare senza questa tensione al sublime. Ci sono molti aspetti veri nella tua domanda. Innanzitutto il verbo «invenire», quindi la ricerca, che è ricerca linguistica ma anche scoperta, perché nel momento in cui una persona ha poco tempo da vivere le urgenze quotidiane diventano più pressanti e i familiari cercano, se riescono, di dire a quella persona le cose più importanti. Una morte improvvisa cancella questa possibilità e rimane il rimpianto e il rimorso del “se avessi potuto”. Il tempo immobile che accade a Mattia è l’opportunità di avere a disposizione molti mesi in cui poter risolvere tutti i sospesi. La sua è una condizione persino di privilegiato nel contesto drammatico in cui si ritrova, e così Mattia prova a stipare tutto il futuro possibile vissuto da una madre e un figlio. Il futuro che non arriverà mai: lei che invecchia, il figlio che cresce.

L’invenzione è non soltanto una serie di espedienti che ho disseminato nel corso del romanzo, in cui la madre è pioggia, la madre è braccio, la madre è bara, ma il tentativo di raccontare questo capovolgimento: colei che dà la cura, che assiste, viene a sua volta assistita. Il genitivo contenuto nel titolo permette alla parola invenzione di avere una valenza oggettiva e soggettiva. Il figlio senza una madre è costretto a inventarsela, ma il figlio è a sua volta l’invenzione di sua madre. Cosa che viene, secondo me, mirabilmente rappresentata nell’immagine di copertina – realizzata da Shout – in cui c’è questo omino che galleggia nei capelli fluttuanti di una donna che sogna, o forse dorme. Inventarla significa anche per Mattia poterla tenere per sempre con sé, significa inventarsi un mondo in cui la madre – e insieme a lei tutto quello che è stata, quando non ci sarà più – possa continuare a esistere perché ha inventato il figlio.

Su quello che dici a proposito dell’invenzione mi viene in mente una delle immagini del libro che porto con me con maggiore intensità. Quella in cui Mattia si rimprovera di un gesto fatto da piccolo in cui ha cancellato una musicassetta cara alla madre. Nell’invenzione c’è una salvezza per gli errori che si commettono prima che il protagonista si scontri con il quarto elemento della famiglia, che diventa la malattia? Era questo il senso di quella scena?

©Stefano Stocco
©Stefano Stocco

C’è il ricordo di un bambino dispettoso che a un certo punto, sentendosi vittima di un’ingiustizia per un rimprovero che considera troppo severo, decide di prendere la musicassetta con le canzoni di Aznavour che la madre ascoltava mentre faceva le pulizie e la distrugge, in maniera molto goffa: srotolando il nastro come poi parallelamente molti anni dopo srotolerà tutti i nastri delle videocassette che contengono le immagini della madre quand’era sana. Io credo che per Mattia l’occasione di potersi confrontare con la madre sia un modo per riparare ai propri errori, per cercare di non farne altri in futuro quando lei non ci sarà più. Ma penso anche che i ricordi del passato abbiano una valenza che permette a Mattia di salvarsi. A un certo punto scrivo infatti che anche i ricordi brutti, quelli di cui si vergogna, sono comunque un tesoro prezioso, da inventariare, perché sono momenti condivisi con la madre e quindi non si sta autoassolvendo, ma anzi sta affermando che porterà sempre con lui tutto quello che è successo, e nessuno potrà togliergli questa cosa. Potrà anche distruggere tutte le immagini che ha registrato, ma se riesce davvero a inventarla, la madre continuerà a vivere dentro di lui. Biologicamente è quello che accade quando un genitore se ne va e il figlio porta avanti il suo progetto genetico.

Nonostante il titolo, L’invenzione della madre è anche un romanzo sul padre. In un certo senso si potrebbe dire che è un romanzo sull’invenzione del padre e sul nuovo rapporto tra padre e figlio, su cui scrivi delle pagine bellissime.

©Stefano Stocco
©Stefano Stocco

La figura del padre è più distante, apparentemente quasi in secondo piano nella narrazione, perché il rapporto fra padre e figlio sembra non esserci stato fino a quando la malattia della madre è arrivata a saldare i membri della famiglia. Il fatto che il romanzo sia strutturato in tre parti («L’anno prima», «Alcune notti di gennaio», «L’anno dopo»), e che s’intitolino rispettivamente Mattia, Mentre e Madre, significa che in qualche modo prima Mattia cerca di scardinare il suo ruolo di figlio per sostituirsi al padre e farsi sposo di sua madre, e soltanto alla fine capisce di contenere anche l’idea di sua madre. La figura del padre, secondo me, è interessante da esplorare non soltanto perché è il dolore che avvicina questi due uomini che goffamente provano a prendersi cura di un corpo femminile, mentre quasi sempre quando in una famiglia c’è qualcuno che si ammala quella che accudisce è una figura di donna; a me interessava esplorare due uomini che si confrontano con le esigenze di una persona malata che è di sesso femminile.

Mattia in realtà non conosce davvero suo padre. L’episodio legato al bigliettino anonimo che viene recapitato (e che non risolvendosi diventa una delle mille ossessioni che porta Mattia a un passo dalla follia) è uno dei modi per dichiarare che Mattia quell’uomo non lo conosce, forse perché non aveva gli strumenti o non l’ha voluto conoscere. Adesso il riavvicinamento causato da un agente terzo come la malattia permette di stringere un rapporto che prima non c’era, e quando la madre se ne andrà – alla fine del libro sarà quasi passato un anno dalla morte – Mattia, nel tentativo di affacciarsi finalmente e tardivamente alla vita adulta, capirà anche che parte del patrimonio che ha avuto in lascito dalla madre è il rapporto con quello che è stato suo marito e che è il proprio padre.

Tu stesso hai sottolineato come L’invenzione della madre parta da un presupposto e una necessità biografica. È stato il dato autobiografico che ti ha fatto scoprire scrittore? O c’è sempre stato uno scrittore dentro di te?

©Stefano Stocco
©Stefano Stocco

Ho sempre scritto racconti, e qualcuno qua e là negli anni l’ho anche pubblicato. La forma romanzo non l’avevo ancora sperimentata, l’avevo corteggiata sognata immaginata, senza mai affrontarla. Mi dicevo che avrei scritto un romanzo quando sarebbe arrivato qualcosa di sufficientemente forte, che valesse la pena raccontare. Durante la malattia di mia madre mi sono accorto che stavo registrando con gli occhi moltissimo di quello che stava succedendo, esattamente come fa Mattia accanto a sua madre. Stavo accumulando informazioni, comprendendo che quello che mi stava succedendo era un evento importante e che avrei dovuto farne qualcosa. Un anno dopo che la malattia aveva portato via mia madre mi sono ritrovato ad avere tantissimi pensieri su questo evento, e ho capito che c’era la possibilità di una storia.

Questo è un libro che uno preferirebbe non aver scritto, ma sono contento che sia il mio primo libro: l’accoglienza che ha avuto in questi mesi, in una settantina di incontri da febbraio ad adesso in giro per l’Italia, mi ha permesso di scoprire molte cose su quello che ho fatto. Prima fra tutte le persone che lo hanno letto e che mi hanno restituito la loro esperienza – perché è un libro che fa parlare di sé, di quanto ci è accaduto – e che mi hanno regalato anche la testimonianza di fatti che riguardavano lontanamente pure mia madre, e che però non sospettavo neanche di avere. Chiunque legga un testo trova degli indizi e delle piste che rielabora per sé. Comunque, mi accorgo che le storie continuano a visitarmi, fanno parte di me, quindi prima o poi proseguirò.

Anche io come lettrice me lo auguro, perché proprio qui a Pordenonelegge, nell’incontro intitolato «Fight reading» – che hai pure vinto – ho scoperto una vena umoristica e ironica dello scrittore Marco Peano che non mi dispiacerebbe affatto approfondire.

Ultima domanda, che per certi versi esce fuori dal tuo romanzo. Ho letto L’appartamento di Mario Capello (Tunué 2015), di cui parlo QUI e mi è piaciuto molto. Non so perché il protagonista del romanzo mi ha fatto pensare a te.

©Stefano Stocco
©Stefano Stocco

È un romanzo che consiglio e che ho amato moltissimo anch’io, oltre al fatto che Mario è per me una persona cara e un amico. Secondo me ha scritto un libro importante. Ci è capitato un paio di volte di presentare insieme i nostri romanzi e ci siamo accorti quanto l’indolenza dei protagonisti affratellasse le nostre scritture. Anche Mario ha un’attenzione alla lingua molto precisa. Segue una forma diversa da come l’indago io, però c’è la medesima cura. Si avverte il bisogno di usare le parole esatte.

Mario Capello usa le parole con una luce diversa dalla tua, è vero, ma c’è lo stesso sguardo. La differenza forse è una questione di illuminazione.

©Stefano Stocco
©Stefano Stocco

Lui ha un’attenzione per i dettagli che a me sfugge, per il raccontare la luce che entra dalla finestra, che illumina la città, che benedice gli ambienti. Il suo protagonista è una persona che prova a fare i conti con il proprio passato, come fa Mattia, al quale capita una cosa e da lì prova ad azzerare le sue giornate scoprendo molto di sé. È un romanzo sull’io.

E c’è anche la provincia che vi accomuna, ambientazione di entrambe le storie. Sarebbe stato possibile per Mattia avvertire il dolore per la perdita della madre in maniera simile fuori dalla provincia?

©Stefano Stocco
©Stefano Stocco

L’episodio dei carabinieri credo che sia emblematico di questo rapporto affettivo con i luoghi. Mattia, verso la fine del romanzo, viene fermato dalle forze dell’ordine: è nel torto – non ha la patente, l’auto non è intestata a lui ma alla madre ormai scomparsa –, eppure si incaponisce con un carabiniere proprio in virtù del fatto che lui conosceva sua madre. In provincia tutti si conoscono, ma possono sfuggire brandelli importanti di vita che rendono più forte il senso di isolamento, che è proprio la trincea in cui Mattia vuole rifugiarsi per affrontare il proprio dolore. Sarebbe stato senz’altro un romanzo diverso, se fosse stato ambientato in una grande città. O forse addirittura non sarebbe stato. La provincia è uno dei protagonisti silenziosi.

All’inizio della nostra chiacchierata hai ricordato l’avvertenza ai lettori che hai voluto indicare nelle prime pagine di L’invenzione della madre. Per concludere, torniamo proprio a loro: i lettori. C’è un lettore ideale, a cui hai dedicato le tue pagine durante le scrittura?

©Stefano Stocco
©Stefano Stocco

Mentre lavoravo non stavo pensando a qualcuno in particolare. Non riuscivo a immaginare un lettore- tipo. Quando ho finito di scrivere L’invenzione della madre, ho pensato che sarebbe stato difficile affrontare dal punto di vista editoriale il tema del romanzo – perché so per esperienza professionale quanto la malattia, in special modo il cancro, sia un tabù a molti livelli della nostra società. Io però volevo chiamare le cose con il proprio nome, a tutti i costi, tanto che quando nomino il cancro per la prima volta lo sottolineo con il corsivo. Col tempo mi sono accorto, parlando con le persone che avevano letto il libro, o che ne avevano sentito parlare, quanto bisogno ci fosse di raccontare una storia come questa. Qualcuno che aveva vissuto esperienze simili aveva voglia di essere messo in scena, forse per sentirsi compreso nel proprio dolore. Nel momento in cui chiami le cose con il proprio nome scopri che ti fanno meno paura, perché vedi che faccia hanno, che forma hanno.

Penso che l’empatia che un lettore prova nei confronti della storia che sta leggendo lo porti a sentirsi meno solo. Miracoli della letteratura.

Chiacchierando con… Marco Peano