Voilà…proprio come fossi seduta qui accanto a me in uno dei salottini della casa in Piemonte…o forse in giardino sotto il cedro secolare che ci fa ombra.

Non si poteva immaginare altro sfondo ideale per chiacchierare con Chiara Mezzalama di “Il giardino persiano” (E/O 2015) che la casa dei nonni in Piemonte, varie volte invocata nel romanzo autobiografico della scrittrice come porto e rifugio, geografico e sentimentale.

“Quanti bambini italiani potranno dire di aver vissuto in Iran negli anni Ottanta?”

Una domanda piena di orgoglio, con cui vostro padre vi accoglie a Teheran, dopo un difficile periodo per lui di solitudine e paura. Avete lasciato il Marocco, con le sue certezze quotidiane i visi conosciuti il tepore degli affetti ormai consolidati, e vi trovate “in un mondo così ostile, eppure affascinante, come tutte le cose proibite”.

“Il giardino persiano” è la risposta matura e consapevole alla domanda che tuo padre vi fece quel giorno, a Teheran? 

Nel romanzo racconti come proprio nella noia dei pomeriggi persiani, rinchiusa nell’ambasciata, tu abbia coltivato la passione della lettura e di lì trapiantata nell’amore per la scrittura. In cosa è debitrice la tua scrittura dell’esperienza persiana e più ancora dell’aver trascorso un’infanzia da nomade, seppur di lusso, come tu sottolinei?

Forse mio padre cercava di indorare un po’ la pillola… non deve essere stato facile per loro prendere la decisione di farci passare l’estate a Teheran. All’epoca, ti parlo dell’inizio degli anni ottanta, credo fosse uno dei luoghi più inospitali e pericolosi della terra. La mia nonna materna accusò i miei genitori di essere degli incoscienti. Eppure c’è una parte di verità, i pochi bambini italiani rimasti in Iran erano i figli dei colleghi diplomatici e le famiglie degli operai che lavoravano nei cantieri rimasti aperti dopo la rivoluzione islamica. In effetti credo che scrivere “Il giardino persiano” sia stata una risposta all’aspettativa di mio padre: al coraggio nell’avere affrontato quelle scelte è corrisposto il mio dovere di raccontare la nostra storia. Talvolta alla letteratura tocca il compito della testimonianza, lo so suona un po’ solenne, ma io credo che sia così.

La lettura mi salvò dalla noia, dal senso di isolamento e di pericolo incombente ma successe anche un’altra cosa. La letteratura si mescolò alla nostra vita, diventammo anche noi i personaggi di una storia eccezionale. Qualcosa di vero e di importante stava accadendo intorno a noi, qualcosa che aveva a che fare con la guerra, con la Storia, accadevano fatti che solitamente si leggevano soltanto nei libri… ecco deve esserci stato un corto circuito tra la mia vita e la letteratura. Il rotolo rosa delle notizie di France Press, che conservo ancora, ne è una buona rappresentazione: io scrivevo una storia sul retro della Storia…

Il nomadismo è certamente un’altra delle radici della mia vocazione. Ho vissuto in luoghi diversi, dove si parlavano lingue diverse che spesso non comprendevo (l’arabo in Marocco, il farsi in Iran), sono stata scolarizzata in una scuola francese (una scelta che facevano i diplomatici per una certa uniformità nei programmi di insegnamento), la lingua materna era una sorta di rifugio, aveva a che fare con la nostra vita privata, con gli affetti. L’italiano era la nostra patria, un aspetto importante della nostra identità, un luogo simbolico al quale ancorarsi ma dal quale era possibile allontanarsi. In fondo vivo la scrittura nello stesso modo: rimango in contatto con me stessa, viaggiando lontano, esplorando e scoprendo altri mondi. È una vera fortuna, non ti sembra?

 

Una grande fortuna, che ti invidio e di cui ti ammiro.

Il giardino è uno dei protagonisti silenziosi ma fondamentali della tua narrazione, tanto che giustamente compare nel titolo. Un dato reale, fisico, ma anche emotivo e sentimentale, e non solo, perché quello che riconosco nella tua scrittura (una linea di congiunzione persistente nei tuoi libri, pubblicati e no, visto che mi fregio dell’onore di aver letto anche qualcosa che è ancora nel cassetto) è la felicità dello sguardo. I tuoi occhi si poggiano sui dati reali e li trasfigurano, elevandoli all’universale. L’hai fatto in “Voglio essere Charlie” (Edizioni Estemporanee) con i terribili fatti francesi relativi alla tragedia della redazione di Charlie Hebdo di cui sei stata testimone, lo ripeti in questo romanzo che affonda le radici nell’autobiografia.

Cosa rappresenta il giardino nei tuoi ricordi e cosa invece a livello narrativo e letterario? 

Il giardino rappresenta in molte tradizioni antiche il paradiso terreste. Il tentativo degli esseri umani di addomesticare la natura ma anche un luogo di meditazione e preghiera. Il giardino come ordine e bellezza a fronte del caos e della violenza del mondo. Il giardino è un luogo chiuso, protetto dalle mura, spesso nascosto e segreto. È un luogo letterario per eccellenza!

Se poi ti capita di ritrovarti bambina in un giardino appartenuto a dei principi persiani, in un paese dove c’è appena stata la rivoluzione islamica komeinista ed è scoppiata da poco la guerra con l’Iraq, raccontarne la storia diventa necessario.

Quello che mi interessava esplorare è il rapporto tra dentro e fuori. Dentro la famiglia, la cura degli affetti, la manutenzione del giardino, fuori la guerra, la morte, le esecuzioni. Come si possono tenere insieme queste cose? La vita ci mette costantemente di fronte a questa contraddizione tra il bene e il male, la bellezza e l’orrore. Da bambina mi facevo le stesse domande che mi faccio adesso…

Credo che tutti abbiamo un giardino dell’infanzia, un giardino amato del quale custodiamo preziosamente il ricordo. Nel romanzo ho cercato di ricostruire quello sguardo infantile che trasforma le cose attraverso le lenti della meraviglia. È quello che cerco attraverso la scrittura: la meraviglia, l’incanto, la poesia delle cose anche quando racconto cose tremende. Mi faccio molte domande, è vero, ma alla fine credo di essere una persona ottimista. Se fossi vinta dalla disperazione, non riuscirei più ascrivere.

 

“Sapevo però che quella situazione strana, in quel tempo senza tempo, mi avrebbe cambiata. Potevo lasciarmi cullare come una bambina nella schiuma del bagno, farmi mettere il borotalco profumato e pensare che non molto lontano da lì una bomba aveva distrutto interi palazzi, una ragazza era morta colpita dalle pietre scagliate da uomini senza pietà. Non sapevo come tenere insieme queste cose. Non lo sapevo allora, non lo so adesso.”

“Il giardino persiano” è un libro coraggioso, perché in questa continua presenza di un fuori e di un dentro, tu metti in luce, senza demistificare, le contraddizioni della vostra situazione. Fuori le bombe, il terrore, la violenza. Dentro la cura delle piante, lo splendore di una fontana iridescente, la bellezza della dimora, persino le feste e la musica. Senza dimenticare, ed è lo stridore più forte, la pericolosità che si annidava anche nel vostro giardino, la precarietà della vostra situazione e le piccole angherie a cui anche voi foste sottoposti.

Lo sai un po’ di più dopo la scrittura e la pubblicazione del romanzo come si possono tenere insieme queste cose? La scrittura dà delle risposte alle tue domande, oppure le lascia lì a fermentare?

Quanto è stato difficile scrivere questo libro? o è stato liberatorio?

No Giuditta, non lo sapevo allora e non lo so adesso. Forse sono solo più consapevole della mia situazione privilegiata, sono meno arrabbiata di quando ero adolescente. La mia protesta contro le scarpe di cuoio bianche che racconto nel romanzo è sfociata in anni di rivolta contro “la vita d’ambasciata”, con un senso crescente di alienazione, legato appunto al non essere né fuori né dentro, mi sentivo sempre fuori posto e questa sensazione mi ha accompagnato per anni anche dopo il nostro ritorno in Italia. Credo che la scrittura mi abbia aiutato molto (e anche una lunga analisi a tre sedute a settimana!) a fare i conti con questo senso di spaesamento. Scrivendo ritrovo il centro di me stessa, sono padrona della situazione, sulla pagina sono io che decido. La scrittura fa da filtro alla percezione della realtà, in un certo senso la rende più tollerabile.

Ho potuto scrivere questa storia perché ho avuto a mia volta dei figli e ho finalmente capito molte delle scelte dei miei genitori che fino ad allora non condividevo. In fondo questo romanzo è una lunga lettera d’amore nei loro confronti. Grazie alla carriera di mio padre ho potuto viaggiare, vivere in luoghi diversi, conoscere mondi molto lontani da quello in cui sono nata. Ho avuto un’infanzia avventurosa, piena di stimoli e anche di contraddizioni che mi hanno aiutato a crescere. Se non ricordo male, Flanney O’Connor sosteneva che chiunque sopravvive alla propria infanzia ha materiale da scrivere per il resto dei suoi giorni; nel mio caso è sicuramente vero!

 

Essere dentro il cuore di un paese senza poterci veramente stare”

Un altro degli elementi di felicità del tuo libro è lo sguardo su Teheran in un momento difficile della propria storia. All’inizio del romanzo tu e tuo fratello nella macchina blindata attraversate la città, con i vetri oscurati, con quattro spioncini in cui infilare la canna del mitra. Tu e Paolo cominciate a fingere di sparare ai passanti:

 “Non mi piacciono questi giochi violenti” disse con tono di rimprovero.

“Mamma, forse non hai capito” ribattè Paolo, “c’è la guerra”.

La storia che sta sconvolgendo il paese diventa per voi un gioco, non poteva essere altrimenti, visto che siete dei bambini. Khomeini il cattivo della situazione, uno stregone con le babbucce ai piedi. Anche se la realtà a volte strappa il velo di finzione che l’infanzia è capace di disegnare per mostrarvi tutto il male e la violenza di cui è capace, però

“Eravamo dalla parte del muro dove, per un giorno, si poteva fare finta che non fosse accaduto nulla.”

“Il giardino persiano” è anche un modo per rientrare nel paese, standoci veramente con gli occhi di allora?

L’immagine dell’Alfetta blindata è stata una delle prime che mi è apparsa quando il romanzo era ancora tutto nella mia testa. Ha una portata simbolica molto forte: essere protetti ha un prezzo, “tu puoi vedere gli altri ma gli altri non possono vedere te” quindi non c’è reciprocità, non c’è un vero e proprio scambio. La barriera nel caso dell’automobile è concreta, ma la barriera era anche umana, culturale; era difficile allora capire che cosa stava davvero succedendo in Iran. Nel libro ho scelto di raccontare soltanto ciò che era alla mia portata, la realtà vista a un metro e poco più di altezza, con tutti i limiti di questo sguardo dal basso ma anche con la possibilità di vedere cose che gli adulti non vedono. Soprattutto si tratta di uno sguardo senza ipocrisie, senza tutte quelle sovrastrutture che accompagnano la nostra visione delle cose. L’Iran è a tutt’oggi considerato “un paese canaglia”, succedono ancora cose gravissime riguardo ai diritti umani, ma non è più il paese che era negli anni ottanta. Ad esempio il recente accordo sul nucleare potrebbe davvero produrre un cambiamento profondo nella società iraniana, così come nel peso politico dell’Iran in tutto il medio oriente.

C’è poi un altro aspetto che volevo indagare ed è quello strettamente privato: senza la cornice di quell’esperienza forse non avrei sentito la necessità di andare a fondo nelle nostre dinamiche familiari invece così è stato facile trasformarci tutti in personaggi, dall’Ayatollah Khomeini a mio padre, da mia madre a mio fratello, a me stessa. Quindi oltre a rientrare nel paese per starci, come hai detto, sono rientrata nella mia infanzie e nella mia famiglia. Devo raccontarti una cosa che sta succedendo: mia madre sta leggendo il romanzo a mia figlia. Le sento ridere, mia figlia fa molte domande alla nonna su di me, su di lei e sul nostro passato. È una cosa veramente emozionante.

 

L’immagine di tre generazioni di donne, legate ai ricordi famigliari attraverso la letteratura è magnifica.

“Capii subito che l’unico rimedio a quello sconforto era di rinchiudermi nella mia Farmanieh interiore, dove mi sentivo libera.”

Il giardino persiano è ambientato per la maggior parte in Iran, nella dimora estiva dell’ambasciatore italiano a Teheran, con i suoi splendori e la sua selvatichezza, ma racconta anche il ritorno in Italia, quando la situazione si fa incandescente. Mi sembra che tu voglia sottolineare, decidendo di prolungare la narrazione oltre l’estate persiana, che il senso di sradicamento e il sentirsi estraneo è una condizione interiore più ancora che una condizione geografica.

Se con Massoud era bastato poco per sentirsi amici, a Roma la solitudine è più tangibile.

Dove si è sentita libera Chiara Mezzalama? è sempre Farmanieh il suo luogo interiore o la vita l’ha portata altrove?

Il ritorno dall’Iran ha coinciso con la fine dell’infanzia, sia anagraficamente che simbolicamente. Quell’esperienza ci segnò tutti profondamente e coincise per me con un lungo periodo di isolamento che durò per gran parte dell’adolescenza. Tornare in Italia fu difficile, avevo la sensazione di essere sempre un po’ sfasata rispetto agli altri, mi sentivo diversa, avevo pochi amici. È il destino di tutte le persone in movimento quello di non appartenere più a nessun luogo. Passavo il mio tempo a leggere e a danzare (la danza è stata un’altra mia grande passione). Al tema di maturità sulla libertà ho preso un pessimo voto, segno che era un tema spinoso per me allora.

Poi mi sono innamorata e ho iniziato a scrivere. Da lì è iniziata la mia “liberazione”. Stranamente la scrittura mi ha rimesso nel mondo, sono diventata più disponibile verso gli altri, meno intransigente. Scrivere mi permetteva di coltivare il mio giardino interiore, la mia solitudine (che è molto diversa dall’isolamento; la solitudine è una scelta), poi però potevo uscire e incontrare la vita. È così ancora adesso: scrivo ogni giorno ma soltanto per qualche ora, poi devo fare altro (non so come fanno quegli scrittori che lavorano dieci ore al giorno!). È un equilibrio sempre precario tra dentro e fuori, tra vita e scrittura, ma credo sia la condizione esistenziale di gran parte delle scrittrici… diciamo pure di gran parte delle donne!

 

“Pensai che dovevo lasciare un segno. Ma non avevo nulla da lasciare. Sì, invece, la molletta che mi teneva i capelli. Una molletta di metallo con due ciliegie rosse. Cercai dei pezzo di legno e dei sassi, trovai uno spazio sotto il fico, feci una specie di altarino e lì sopra lasciai la mia molletta. Mi guardai intorno. Il sole giocava con le fronde degli alberi, le montagne all’orizzonte erano scoperte fino al cielo, segno che l’afa non era più così forte, c’era così tanto spazio intorno a me, uno spazio infinito che mi fece sentire piccola e libera allo stesso tempo. Salutai Massoud e i gatti facendo un inchino e una piroetta e me ne tornai verso la casa celeste, attraversando il parco sontuoso di Farmanieh. Salutai il campo da tennis, l’hammam che odorava di alloro, l’harem nel quale non erano rimasti che i piccioni, la casa di Jafar, la piscina e la targa del poeta che mio padre non si stancava di citare. La casa del portiere e l’orto con la fontana fangosa e la sua carpa immortale. Dovevo ricordarmi tutti e tutto.”

Alzo lo sguardo e non riesco a riconoscere se le fronde che ci sovrastano sono del cedro piemontese o del fico persiano. Questa è la magia dei libri e della scrittura: portarti in luoghi diversi, farteli amare, sentirli tuoi. Ringrazio Chiara Mezzalama di aver voluto condividere con noi lettori entrambi i giardini, quello piemontese durante questa chiacchierata piena di sentimento, e quello persiano del suo emozionante romanzo.

Chiacchierando con… Chiara Mezzalama