Fu sullo sfondo dell’impalpabile nuvolaglia grigio-verde che la ragazza fece il suo ingresso nel giardino. Era nuda, e pallida, e ricoperta di sangue. Aveva le unghie dei piedi laccate di rosso, belle caviglie dalle quali partiva un paio di gambe slanciate ma non secche. Fianchi morbidi. Un seno dritto e pieno. Avanzava un passo dietro l’altro – lenta, barcollante, tagliando il prato in due.

Come il procedimento di un puzzle. Così si legge La ferocia di Nicola Lagioia (Einaudi, 2014).

Le prime pagine danno subito l’immagine da ricostruire, con forza reale tangibile corposa: una ragazza nuda e insanguinata lungo la statale che collega Bari con Taranto. La seguiamo lentamente, siamo dentro di lei, percepiamo il suo dolore e l’inutilità necessaria del suo andare. Intorno la fauna notturna, allocchi falene gatti randagi aspidi grilli e un gigantesco topo di fogna, per la quale Lagioia ha un orecchio attento e uno sguardo meticoloso.

Il tempo ristagna nelle prime pagine del romanzo, lento minuzioso sgocciolante, fino a quel rombo, da cui tutto ha inizio, o tutto termina:

Poi l’animale avvertì una vibrazione nell’asfalto e si paralizzò. Il silenzio fu riempito dal rombo di un motore sempre più vicino. Due fari bianchi illuminarono il profilo femminile, e finalmente gli occhi della ragazza si rispecchiarono nello sgomento di un altro essere umano.

Da questo momento, il tempo impazzisce, mulinella su stesso, ci risucchia nei personaggi, ci costringe a vorticare con loro, follemente. Avanti e indietro, presente e passato si mescolano.

Ci ritroviamo con tanti pezzi di narrazione, proprio come tessere di un puzzle e durante la lettura, pur avendo chiara in mente qual è l’immagine da ricostruire, pur conoscendo tanti dettagli e l’atroce verità della morte di Chiara, ogni piccolo tassello getta una luce insolita, svela un particolare, chiarisce intrecci e concatenazioni, sfuma impressioni e sentimenti.

Non si procede mai in maniera lineare nell’incastrare le tessere del puzzle, si segue il filo della casualità, con cui i pezzi vengono alla nostra attenzione. Alcuni necessitano di maggiore fatica di interpretazione e collocazione, altri invece sono inseriti con estrema facilità.

Quanto più l’immagine è ricca, dettagliata, precisa, tanto più ci vuole cura attenzione perseveranza nel seguirne il disegno. Anche al lettore Nicola Lagioia richiede una lettura costante e ferma, capacità di vagliare e di percepire, lucidità di sguardo e di analisi.

Come in un puzzle ormai terminato, l’immagine è molto più vivida di quella stampata sulla scatola, così a romanzo finito l’impressione del lettore è amplificata, ha vissuto dentro i personaggi, ne ha condiviso fragilità e follie, si è addentrato fin nei recessi dei loro cuori e delle loro menti.

Nicola Lagioia ha deciso di raccontare una storia difficile in maniera difficile. Finge di scrivere un noir e ne scardina le regole. Non ha concesso sconti né ai suoi personaggi, né ai suoi lettori, né al quadro d’insieme di un’Italia imbrigliata in laccioli insensati e dedita con menefreghismo al mero interesse individuale.

Ha scelto personaggi scomodi, ognuno a suo modo, e ne ha seguito volute e involuzioni. Li raccoglie tutti al funerale di Clara, eccetto Michele, il fratellastro, la cui assenza pesa ancora di più. Il loro rapporto è torbido e delicato insieme. Empatia e soffocamento si spartiscono i sentimenti che li legano, tra la gelosia di Gioia, la sorella più piccola di Clara, e il disinteresse di Ruggero, il primogenito, oncologo di fama internazionale, che non riesce a mantenere la distanza desiderata con i loschi affare del padre.

Vittorio Salvemini è un potente costruttore pugliese. In un sistema truccato, lui ha fatto fortuna con patemi e collusioni. Intorno a lui un ingranaggio che racconta l’Italia più sporca e in malafede, che lega a sé con il denaro, il ricatto e lo scambio ogni pedina del gioco: dal magistrato al giornalista, dal geometra al commercialista, per arrivare al camionista, che accidentalmente si trova invischiato in questa storia, rifacendosi una vita al prezzo di una gamba.

Michele è un eroe moderno, pieno di zone buie, con un’intransigente onestà che non ha nulla di chiaro e vincente, ma che si alimenta di frustrazioni e velleità. Un destino infausto il suo, segnato dalla perdita, sempre al femminile, della madre della sorella e infine della gatta.

Una famiglia claustrofobica che si regge sul non-detto, sui segreti e sulla falsità.

Quadro impietoso in La ferocia, con una lingua ricca, piena di immagini, impreziosita dalle descrizioni del mondo naturale, in particolare quello animale, ritratto con cura onomatopeica.

Il disagio esistenziale e le zone buie del potere e dei soldi, nell’asfissia di sentimenti, che rimestolano nell’infelicità, nella solitudine e nel masochismo.

Un’Italia che vorremmo dire che non ci appartiene, che non fa parte di noi e della nostra storia, e che invece Nicola Lagioia mostra sì nel suo torbido ma anche nel suo profondo, dimostrando come in fondo, in un certo senso, è una storia che tocca tutti noi.

La ferocia
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