Questo e altro gli ho fatto sapere al volenteroso biografo. Io ho precisato quello che volevo. Che sono Gemito non nato ma sorto da combinazioni di atomi e membra non di sola polvere ma di carne  spirito attivi per i secoli dei secoli. Al biografo ho detto: “Faciteme buono, scrivete Gemito come lo dice Achille D’Orsi, nella nota di sogno e nel tormento. Fate immedesimazione. Perché non ci stanno vita e storie capaci di distinguere la verità dall’invenzione, e solamente, per ogni destino, equazione tra le poche gioie e le molte miserie”.

Wanda Marasco in Il genio dell’abbandono (Neri Pozzi, 2015) con una lingua pastosa di concretezza e di vita, come l’argilla impastata da Gemito per i suoi lavori, e piena di melodia, a volte stridula, talaltra malinconica veste i panni della biografa del grande scultore pazzo, mescolando sogno e tormento, verità e invenzione per raccontare il genio dell’artista, nella sua natura particolarissima:

Il genio dell’abbandono, accortosi delle sue disposizioni, era tornato come sciuscio antico, e’o’nzurfava alla vita artistica e gli dava la passione immensa in una vita povera. Niente di più terribile. Attaccarsi alla volontà di impressionare, significare, non era condanna? E nell’istesso momento non era valore? Il genio dell’abbandono proprio nella miseria gli innestava questo prodigio.

Il risultato è qualcosa di molto al di là, al di sopra e al di fuori della biografia. Un ritratto plastico, onirico, folle, eppure documentato e preciso, di Vicienzo Gemito, della sua arte e della sua figura. La nascita, l’abbandono, la vocazione artistica, la pazzia, la clausura, il ritorno all’arte, la ricerca di riconoscimenti anche materiali, la paternità esasperata soprattutto con i nipoti, fino alla morte. La vita di Gemito tra Napoli, Parigi e Roma scorre sui binari confusi e complicati della storia del primo Novecento. Wanda Marasco non racconta solo l’uomo, immane, e l’artista, geniale, ma anche un’epoca di grandi rivolgimenti. Lo fa con uno sguardo stralunato e ignorante che è quello di Gemito, parziale interessato partecipe.

Era il 1929. A Napoli soffiava il vento che promette l’arrivo di marzo, quell’aria fratturata che non è più inverno e non può essere ancora la bella stagione. Le muraglie erano travolte da un vortice gelato che scavava costole e lische nel tufo. La città conteneva segni di raggia cronica. Salari bloccati, rete di alleanza tra bande e polizia, uommene, femmene e guagliune ca ascevano a pprima matina pe’ fa’ sorde, murmuliamienti sul caso Padovani a ogni caffè. Murmuliamenti che mai erano finiti dal 1926, dal giorno in cui il “traditore” del fascismo era morto nel crollo di una balconata in via Generale Orsini, proprio mentre teneva un comizio. Abbascio ‘o puorto nun partevano cchiù navi per l’America perché Mussolini aveva ordinato il blocco dell’emigrazione. ‘e ccinche ‘a matina se vedevano studiente calabresi ch’avevano fatto ‘a nuttata sotto ‘e ffeneste d’’e sartulelle. Napule puzzava di liscivia e canfora pure se al momento non ci stava epidemia.

Napoli, più ancora che le altre città vissute da Gemito, è un palcoscenico con una scenografia ricchissima di luci, colori, suoni. Barocca e affascinante. Ma lo sguardo teatrale di Marasco non manca di disegnare con effetti del tutto speciali anche la capitale dell’arte e dell’eleganza, Parigi:

Nell’aria c’era un riverbero mieloso nel quale si sgranchivano gli ippocastani, le gonne, i cavallucci da trasporto per i bambini. E da dove arrivava? Erano appena le sei del pomeriggio. Un crepuscolo anticipato scendeva sulla città. Lampade accese a ogni angolo, a ogni negozio, una rete di luminarie tra gli alberi, le case, i ponti. Contemporaneamente dalla Senna salivano vapori di una tale densità da creare una scia nebbiosa che attraversando il riflesso delle luci andava a disperdersi all’altezza dei tetti. Dunque questa luce ‘a qua’ munno veneva?

Il lettore è vorticosamente trasportato nel mondo di Gemito, nelle sue relazioni e amicizie con pittori scultori magnati e letterati, come Scarfoglio e Matilde Serrao, ma anche nella sua vita intima minata dal genio e dalla pazzia, in una ricostruzione in cui il documento si fa romanzo, racconto, vita di straordinaria fattura narrativa, linguistica, stilistica, introspettiva. Anche il tempo impazzisce come se fosse frutto della mente di Gemito, si attorciglia e aggroviglia.

Dalle pagine di Marasco Gemito si erge come un titano, una figura mitologica, tragicamente umana:

Vicienzo Gemito possedeva entità e vuoto battezzati col nome di “genio dell’abbandono”. Era l’uomo che aggiunto alla Natura creava l’arte. E l’arte nel suo caso ebbe una grandezza utopica e disperata. Avrebbe dato a Vicienzo l’ordine fatale e la metodologia del sepolto vivo.

Il genio dell’abbandono