Impastare i sogni con i calcinacci, il fango, i tronchi rinsecchiti e dar loro nuova vita, una seconda opportunità.

Con Cade la terra (Giunti, 2015) Carmen Pellegrino ci porta in un tempo sospeso, quello in cui Alento vive e muore, abbandonato per il paese nuovo, più sicuro ma privo della poesia dei luoghi, intessuta delle storie vecchie e nuove degli abitanti.

È infatti una pazzia credere che basti aggrapparsi a chi è restato. È anzi vero il contrario. Sediamo presso i morti che ci divengono così cari, ne ascoltiamo le parole il cui senso abita in noi e non dobbiamo fare altro che riconoscerlo. Talvolta essi ci ricompensano, quando ritornano a casa nelle forme più strane. D’altronde, nessuno fra i morti se ne va completamente, così come fra i vivi nessuno ci sarà mai del tutto. Presso i morti possiamo cessare di ricoprire il dolore con un suono di campane, nel tentativo ostinato di mandarlo via. Il dolore fa il suo giro, che non ha nulla di chiaro. Qualche volta diviene inerte, come una cicatrice. Altre volte si conficca come una spina sotto l’unghia e resta lì. In ogni caso ci accomuna tutti.

Estella, arrivata vestita da suora e rimasta nuda del suo abito monacale sul sagrato innevato della chiesa di Alento, è rivestita da una vecchia con un abito leggero a fiori. Con quello si presenta a casa dei de Paolis alla ricerca di una istitutrice per il figlio Marcello. Il vestito, non adatto al luogo e alla stagione eppure tipico delle donne del posto, è metafora della condizione della giovane, straniera e parte integrante del paese.

Tra Estella e Marcello si crea un rapporto complesso e difficile. Estella preoccupata dalla magrezza del ragazzo, comincia a nutrirlo, mentre dorme, con sei tuorli d’uovo a settimana. Emblema del loro rapporto altalenante, fatto di dispetti e inganni, tenerezza e accoramento, sfinimenti e attenzioni. Marcello mi ha ricordato l’Arturo di Elsa Morante, un fascio di contraddizioni e di impulsi.

Sono certa che solo così Marcello è riuscito a crescere, non dico forte – che forte non lo è mai stato – ma perlomeno sano.

Marcello è capace di scherzi crudeli, di beffe insensate, di malinconie profonde. Estella le contiene, le punisce a volte, ma finisce per amarle. Eppure la donna, per chi sa quale abbandono profondo che si porta scavato dentro, adombrato nell’assenza della madre e nel ritorno al paese dove è vissuta con lei, per non abbandonarlo più, si nega l’amore, tutta concentrata nel suo sacerdozio laico, di cui sembra essere stata investita dalla madre di Marcello, Ada: Non bisogna mettere a dormire i morti.

Cade la terra oltre a essere un romanzo sull’amore, è anche un romanzo d’amore. Non detto, non dichiarato, non vissuto. Anche su questo aspetto della vita di Estella Carmen Pellegrino, con una sensibilità straordinaria, gioca sulla rarefazione e l’ambiguità. Si rimane nel dubbio se i tentativi impacciati di Marcello di baciarla e amarla siano reali o solo una percezione distorta di Estella, in cui comincia a destarsi il rimpianto struggente di non aver assecondato l’amore, perché l’inadeguatezza era maggiore del desiderio.

Vorrei dire a Marcello che, giunti a questo punto della nostra lunga vita, mi accosterei volentieri al suo braccio, mi ci appenderei per l’ultimo tratto.

Lo so che ho scavato prigioni di solitudine, ma ho odiato il clangore della porta metallica che io stessa chiudevo con diverse mandate. Vorrei dirgli che ero talmente convinta di non poter essere amata che amarmi deve essere stato difficile.

Estella rimane nel borgo abbandonato, alla ricerca di segni da cui ricucire le storie di chi è stato. I morti tornano a visitare la casa dell’olmo che li aveva accolti in vita, tra l’incredulità e il fastidio di Marcello, che sembra immune al fascino dei tanti personaggi che in vita visitavano la madre e in morte tornano a far visita ad Estella.

Cade la terra è un romanzo che si sostanzia di poesia, non solo perché strutturato in tre tempi scanditi dai versi di Gatto, Montale e Pascoli; non solo perché il titolo è il frammento di una poesia di Rilke; quanto perché la lingua di Carmen Pellegrino è intrisa di poesia, nella scelta delle immagini, nell’evanescenza concreta dei personaggi, in un lessico pregnante e mai scontato, nell’uso dei tempi narrativi che si rincorrono e si attorcigliano quasi a far perdere l’orientamento, così che il lettore viva l’incanto di non sapere più se si è nel presente o nel passato, se si è tra vivi o tra morti.

Se Estella è la vestale del paese abbandonato, Marcello è il suo controcanto, la voce della razionalità che non si lascia (s)travolgere dalla religione della morte della donna. Dove lei vede ravioli fumanti lui pietre, dove lei chiacchiericcio e risate lui silenzio, dove lei persone ricche di sentimento lui bifolchi e cafoni.

L’uso della voce narrante è eccezionale. Una prima persona, che sembra diventare terza nel raccontare la vita degli altri personaggi: Cola Forti l’anarchico del paese sconfitto dalla vita e la figlia Libera, che aspetta silenziosamente il momento di adempiere il suo nome dopo essere stata costretta alla rassegnazione, Giacinto il banditore del paese con il desiderio di essere incoronato con un berretto che ne riconosca e sancisca il ruolo civile, Lucia Parisi fulminata dal suo desiderio di cioccolata e di amore, e il padre Consiglio chiuso nella sua forte personalità, per finire a Maccabeo che aspetta i figli, morti in guerra, per riaprire i suoi negozi e riprendere gli affari. A ben vedere, però, non si tratta di una reale terza persona, ma la voce narrante rimane soggettivamente una prima persona, alternata tra Estella e Marcello. A legare le storie di questi personaggi e di quelli che gli si affollano intorno, il paese di Alento con le sue rovine e il suo abbandono a cui Estella cerca con una certa disperazione sotterranea di dare nuova vita, ma è nella figura di una vecchia Mariuccia, che poi diventa il nome di una bambina dal destino tragico, che Carmen Pellegrino nasconde e sublima la sua poetica dell’abbandono, il senso sentimentale della scrittura, la possibilità che si possa reinventare una vita perché sia più felice.

Come nella poesia, la casa gli alberi gli oggetti sono personaggi di straordinaria intensità, allo stesso modo delle figure umane. Il respiro, i rumori, i sentimenti del mondo inanimato sono uno degli aspetti più fascinosi della scrittura, unica e originale, di Carmen Pellegrino.

Mi sono inevitabilmente riconosciuta nelle pagine di Cade la terra, perché è la mia terra quella che la scrittrice descrive, facendo rivivere tra le pagine i racconti di mia nonna, che potrebbe sedersi anche lei alla tavola di Estella e sperare che le riscriva il destino, rendendolo meno amaro e faticoso, o mia nonna stessa potrebbe essere Estella, perché è il suo mondo quello che la donna protegge e ama.

Non so se sia voluto il gioco di omofonia tra Alento (che è ispirato a Roscigno nelle vicinanze del paese dove sono nata) con Aliano, il paese che ospitò Carlo Levi nel suo confino lucano e in cui ancora oggi si può visitare la sua casa. Mi sembra che Carmen Pellegrino, liberamente ispirata dalla poetica di Levi sul meridione, mescolata a un certo onirismo fantasmatico  sudamericano (l’inizio di Cade la terra mi ha ricordato una scena sublime di La casa degli spiriti di Allende) le abbia dato nuovo respiro, cogliendo di quel sud una voce interna, accorata, malinconica che non rinnega se stessa e contemporaneamente chiede un riscatto, prima ancora che politico emotivo e sentimentale.

Cade la terra